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LE TEMATICHE, LA FEDE, L'IRONIA MANZONIANA, L'IDILLIO IMPOSSIBILE, IL SUGO DI TUTTA LA STORIA, IL CIRCUITO COMUNICATIVO IMMAGINARIO

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LE TEMATICHE


Manzoni finge di aver trovato un manoscritto del 600 perché vuole offrire il quadro di un'epoca del passato, ricostruendo tutti gli aspetti della società, il costume, la mentalità, le condizioni di vita, i rapporti sociali ed economici. Ma questa ricostruzione critica del passato ha anche precise valenze politiche riferite alla situazione presente, la situazione d'oppressione da parte della dominazione austriaca.


La descrizione della vigna di Renzo ha un ruolo molto importante, perché può essere considerata come la metafora di tutta la storia ma anche metafora della situazione contemporanea del Manzoni.

Cap. XXXIII: «E andando passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori potè subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d'albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro [ . ]. Viti, gelsi, frutti d'ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell'antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de' filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l'aiuto della man dell'uomo. [ . ] Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l'uno con l'altro nell'aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; [ . ]. Qui una quantità di viluchioni arrampicati e avvoltati a' nuovi rampolli d'un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli [ . ]. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all'altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone . ».



La descrizione della vigna, inselvatichita per due anni d'abbandono, è, di tutto il libro, la descrizione più espressiva e rilevante per il messaggio che si cela dietro alle morali e all'ironia; come sostiene Petrocchi, la descrizione potrebbe essere un'allegoria dell'Italia di allora, e non solo una serie di nomi messi lì a sfoggiare conoscenze botaniche e ricchezza di lingua, senza un significato di fondo.

La vigna è un luogo simbolico: il suo disordine è il disordine sia della coscienza del protagonista (sconvolta dalla drammaticità degli eventi vissuti), sia delle condizioni di una società che la peste e l'azione dell'uomo hanno gettato nel caos.



LA FEDE

L'IDEALE RELIGIOSO-MORALE DEL MANZONI


L'ideale religioso di Manzoni è rappresentato dal cattolicesimo, e l'ideale morale

è quello predicato dalla religione cattolica, perché quest'ultima è per lui l'unica dottrina che salvi la libertà e la dignità umana.

Gli Inni sacri sono i primi componimenti poetici in cui sono presenti i motivi che si agitavano nella coscienza del Manzoni giovane, ma ormai rischiarati e spiegati alla luce della fede. Ciò che colpisce la mente del Manzoni, in ogni caso, è la presenza in questo mondo del male e dell'ingiustizia, e della sofferenza che spesso travaglia gli innocenti.

Tuttavia ci troviamo ancora in una fase pessimistica del pensiero religioso di Manzoni, in cui sembra che Dio aspetti le sue creature di là della vita; l'uomo deve quindi vivere nella speranza di una giustizia ultraterrena.

Questo concetto trascendente della divinità viene decisamente superato nel romanzo, che racchiude, nella forma più completa, tutto il pensiero religioso e morale dell'autore.


Non sono mai descritte funzioni religiose: questo è da attribuire alla concezione religiosa personale di Manzoni: è una religione intrinseca, fondata su ideali e sentimenti interni, ben diversa dalla religione "che bada all'apparenza" di don Abbondio o di donna Prassede.


La giustizia divina si rivela nel mondo per opera della Provvidenza, mirabile, delicato strumento di Dio, per alimentare negli uomini la fiducia nel trionfo finale del bene. Anche se talvolta sembra che predomini il male e l'ingiustizia, l'uomo, guidato dalla fede che illumina, sa che tutto si compie per un fine di maggior edificazione. È da notare però che l'interpretazione provvidenziale della realtà, nel romanzo, non è enunciata in prima persona dal narratore, ma è affidata sistematicamente ai soli personaggi. Ciò non significa che Manzoni non creda alla Provvidenza nel mondo, perché sarebbe in antitesi con quanto affermato sopra; semplicemente, la sua concezione è diversa da quella dei suoi umili protagonisti, estremamente più problematica e complessa. Renzo e Lucia hanno una concezione elementare e ingenua della Provvidenza, identificata in virtù e felicità: per loro Dio interviene infallibilmente a difendere e a premiare i buoni e a garantire il trionfo della giustizia. Nella superiore visione di Manzoni, al contrario, virtù e felicità coincidono solo nella prospettiva dell'eterno.


Le abili mani di Manzoni riescono a trasformare in strumenti di Dio alcuni personaggi del romanzo, tra cui padre Cristoforo che, morente, scoglie Lucia dal voto e ricongiunge i due promessi, e il cardinal Federigo che è l'ultimo atto della conversione di un'altra ura essenziale, quella dell'Innominato.


D'altra parte, però, alcuni personaggi si dimostrano completamente impermeabili all'azione divina. Tra quelli aspramente criticati dall'ironia, forse l'esempio più espressivo è quello di Don Rodrigo: nemmeno dopo il colloquio con padre Cristoforo (cap. VI) e dopo la profezia «verrà un giorno . », la sua coscienza sembra dare segni di pentimento.

L'IRONIA MANZONIANA


L'ironia del Manzoni ci aiuta a comprendere più di ogni altro elemento, la personalità dell'autore e il suo modo di valutare gli uomini e la vita.

Seguendo il filo dell'ironia, possiamo ricostruire tutto il mondo manzoniano, perché l'ironia è per il Manzoni uno strumento per dare un'impronta personale alla narrazione o, in altre parole, di intervenire senza che il peso dell'opinione personale possa nuocere al libero svolgimento dell'azione.

L'ironia trae origine sempre da un dissidio interiore, prodotto dalla discordanza tra ideale e realtà. L'ironia del Manzoni, che non ha mai la violenza e la crudezza della satira, ha origine da una visione pessimistica della vita.


Soprattutto la "giustizia" del mondo offre inesauribili spunti all'ironia del Manzoni.

Nel cap. III, Renzo, riuscita vana la sua spedizione dal dottor Azzeccagarbugli, in un momento di furore, pensa a farsi giustizia da sé, ed esclama più volte: «A questo mondo c'è giustizia finalmente!». L'assurdità di una simile affermazione dell'ingenuo contadino è messa poi in luce dall'autore con una frase, che sarebbe colma di pessimismo se non presupponesse la fiducia in Dio: « . Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica».

Nel cap. VII, gettando il suo sguardo nell'interno della stanza di don Abbondio, il Manzoni dice che, a giudicare dall'apparenza, Renzo sembrava l'oppressore e il curato la vittima, eppure in realtà era tutto il contrario. Aggiunge: « . Così va spesso il mondo . voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo», intendendo dire che il mondo è sempre uguale e non accenna a migliorare.

Nel cap. XI, a proposito del Griso, che Don Rodrigo dopo molti rimproveri per il fallito rapimento di Lucia congeda con molte lodi, il Manzoni afferma sarcasticamente: «qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi, anche in questo mondo».

Ma sferzate più violente nei riguardi della giustizia umana le troviamo quando sono di scena i politici. Pieni di vanità ed errori, ingranditi dalla loro posizione, sono sempre colti in fallo e aspramente criticati.

Dopo un'analisi iniziale al governo snolo, dove è giudicata "onore" e "vantaggio" la presenza di soldataglie straniere del territorio di Lecco, troviamo i personaggi più autorevoli di questo governo come coloro che «hanno sempre ragione». (cap XI)

Il nome del gran cancelliere Ferrer è associato all'errato suo provvedimento sul prezzo del pane: la stoltezza e l'ignoranza del cancelliere sono messe argutamente in rilievo in ogni riga a lui dedicata. (cap. XII)

Neppure il Vicario viene risparmiato dall'ironia, e la sua ura, anche se appena intravista, è irrimediabilmente associata a quel «chilo agro e stentato d'un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco», e soprattutto, dalla paura della folla. (cap. XIII).

Poi c'è il notaio criminale, colui che va all'osteria ad arrestare Renzo, o la vanità del conte Zio, e soprattutto Don Rodrigo.

Non contento di tenere ottime relazioni con i grandi fuorilegge, vuole assicurarsi anche «una mano sulle bilance della giustizia, per farle traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più facilmente che con le armi della violenza privata».

Che giustizia poteva essere quella affidata a un podestà cortigiano, ad un Azzeccagarbugli adulatore e parassita, ad un conte Zio nepotista ed ambizioso? Non per nulla Bortolo, a Renzo che si preparava ad andare al suo paese, dirà: « . cerca di schivar la giustizia, com'io cercherò di schivare il contagio.».


Il Manzoni non risparmia nessuno dei suoi personaggi, tranne Federigo e l'Innominato, tra i personaggi maggiori, e padre Felice in quelli minori.

Persino Lucia, in alcuni punti, non si rivela sicura dei suoi sentimenti; e anche padre Cristoforo, indirettamente, offre l'occasione per marchiare la tendenza degli uomini a giudicare dalle apparenze, mettendo in bocca a fra Galdino l'elogio di padre Zaccaria, che sarebbe stato in grado di aiutare ugualmente Agnese e consigliarla per il meglio, nonostante la sua magrezza, la vocina rotta e una barbetta misera misera . (cap. XVIII).

Ipocrisia e opportunismo si rivelano anche negli ecclesiastici, che cercano di moderare l'impulso di carità del Cardinale, appoggiati dalla teoria del giusto mezzo, che poi ritengono «giusto in quel punto dov'essi sono arrivati, e ci stanno comodi» (cap. XXII).

Alcuni personaggi vivono nella nostra memoria grazie a un piccolo particolare "umoristico", come il sarto del villaggio che pronuncia quell'insulso «si uri!», che gli rovinerà il ricordo dell'incontro, ma che non gli impedisce comunque di vantarsi per aver visto di persona il Cardinale.

Per non dimenticare donna Prassede, la cui sa nel romanzo è tutta intessuta di ironia non sempre benevola, e che, convinta di assecondare i voleri del cielo, «faceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender per cielo il suo cervello».

Anche i personaggi secondari sono segnati da una nota d'arguzia. Per esempio Menico, cui piaceva giocare a rimbalzello, perché in esso era abilissimo, «e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilità: non divo quelle sole» (cap. VII).


L'IDILLIO[1] IMPOSSIBILE


« . «Tornate, con sicurezza e con pace, ai pensieri di una volta», seguì a dirle il cappuccino: chiedete di nuovo al Signore le grazie che Gli chiedevate, per essere una moglie danta; e confidate che ve le concederà più abbondanti, dopo tanti guai. E tu», disse voltandosi a Renzo «ricordati, liuolo, che se la Chiesa ti rende questa comna, non lo fa per procurarsi una consolazione temporale e mondana, la quale, se anche potesse essere intera, e senza mistura da alcun dispiacere, dovrebbe finire in un gran dolore, al momento di lasciarvi; ma lo fa per avviarvi tutt'e due sulla strada della consolazione che non avrà fine. Amatevi come comni di viaggio, con questo pensiero d'avere e lasciarvi, e con la speranza di ritrovarvi per sempre. Ringraziate il cielo che v'ha condotti a questo stato, non per mezzo dell'allegrezze turbolente e passeggiere, ma co' travagli e tra le miserie, per disporvi a una allegrezza raccolta e tranquilla. Se Dio vi concede liuoli, abbiate in mira d'allevarli per Lui, d'istillar loro l'amor di Lui e di tutti gli uomini; e allora li guiderete bene in tutto il resto. Lucia! V'ha detto,» e accennava Renzo, «chi ha visto qui?»

«Oh, padre, me l'ha detto!»

«Voi pregherete per lui! Non ve ne stancate. E anche per me pregherete! . liuoli! Voglio che abbiate un ricordo del povero frate». E qui levò dalla sporta una scatola d'un legno ordinario, ma tornita e lustrata con una certa finitezza cappuccinesca; e proseguì: «qui dentro c'è il resto di quel pane . Il primo che ho chiesto per carità; quel pane, di cui avete sentito parlare! Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri liuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a' superbi e a' provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! Tutto, tutto! E che preghino, anche loro, per il povero frate!» . »


Ecco il discorso pronunciato da padre Cristoforo ai de promessi, ritrovati al lazzaretto. Il cappuccino li esorta a continuare il loro cammino insieme, nella grazia di Dio e con l'amore che dall'inizio li lega.

Per il padre tutto ciò che si ottiene si conquista solo attraverso il dolore, e con la rinuncia alle gioie "turbolente e passeggiere". Il frate dimostra in questo suo ultimo discorso una grandissima forza e una fede dalle profonde radici; con i segni della fine imminente sul volto, trova ancora in sé la forza di essere d'aiuto al suo prossimo. E le parole, che pronuncia, sono il riepilogo di tutta una vita tesa alla riflessione sulle grandi verità della fede, e tutta ispirata dalla consapevolezza di un Dio giusto e misericordioso.

Come ultimo dono, il pane del perdono, che ci ricorda tutta la storia del frate. Ora vuole che quelle sue due creature lo conservino e lo facciano vedere ai propri li. Per questo aveva portato con sé la sua sporta .

È il testamento del frate, ma anche l'insegnamento di Gesù, che non ci dà eccezioni, "perdona a noi, come noi perdoniamo a chi ci ha offesi"; insegnamento importante per l'autore che qui ha fatto trasparire completamente.

Nella conclusione trovata dai due umili giovani, sono presenti i cardini della visione manzoniana; il più importante è il rifiuto dell'idillio, inteso come rappresentazione di una vita quieta e senza scosse, nell'ambito ristretto della sfera domestica, lontana dai tumulti della storia, ignara del male che è inevitabilmente presente. Manzoni ha una visione tragica della realtà, scaturita dal suo pessimismo religioso. Ma se la vita, in conseguenza della caduta dell'uomo, è inquinata dal male e dalla sofferenza, ogni rappresentazione idillica della realtà, che rafuri quiete e serenità perfette, è assolutamente contrastante con la verità.

Al termine del romanzo, a Renzo e a Lucia tocca una vita tranquilla, prospera e serena: però è lontana dall'idillio. La vita dei due sposi è sostanzialmente felice, ma non è sottovalutata l'esistenza del male e della tragicità, che può colpire anche i più innocenti. È da qui che matura la nuova concezione religiosa dei protagonisti: il dolore viene anche se non si ha colpa.

IL SUGO DI TUTTA LA STORIA


« . Qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi, anche in questo mondo . », troviamo al cap. XI; e, per gli umili protagonisti della vicenda, la giustizia è arrivata al gusto momento. Renzo e Lucia, finalmente sposi, possono ora concedersi la tranquillità di ripensare alle loro vicende, e di trarne una morale. La conclusione del romanzo, "il sugo di tutta la storia", è proprio posta in bocca ai due protagonisti:

« . I guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e quando vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore . ».

Questa conclusione è veramente lineare, eppure contiene, nella sua semplicità, la soluzione del problema più grave della vita umana: l'esistenza del male e del dolore.

Il mondo è tutto una fitta selva di errori, di dolori, di ingiustizie, che originano con l'uomo stesso e con la sua colpa. Eredità inevitabile dell'uomo è il dolore, aggravato dall'ignoranza, dalla cattiveria e dalla superbia dei potenti, dalla debolezza dei soggetti, da uno scarso senso di solidarietà e di fratellanza umana.

Su questa strada facilmente si arriva a conclusioni pessimistiche, se non si ammette l'esistenza della divina Provvidenza, che ordina le cose del mondo secondo un fine certo di giustizia, traendo il bene anche dal male.

Il vero cristiano deve quindi vivere in questa fiducia, e da essa trarre la forza che gli permetta di non lasciarsi travolgere dalle burrasche della vita, al contrario, di superare con animo fermo anche le più dure prove, tenendo ben presente «che Dio non turba mai la gioia de' suoi li, se non per prepararne loro una più certa e più grande». Se al male si è data fonte, se ne devono sopportare le conseguenze come "espiazione"; ma se viene inaspettato e immeritato, come alla buona Lucia, è sufficiente difesa sopportarlo con rassegnazione e con spirito cristiano, perché «la fiducia in Dio lo raddolcisce, e lo rende utile per una vita migliore».

IL CIRCUITO COMUNICATIVO IMMAGINARIO


Autore reale

Nato nel 1785, era il lio di Giulia Beccaria e del conte Pietro Manzoni (anche se pare che la vera paternità sia da attribuirsi a Giovanni Verri). Studiò prima presso i padri Somaschi a Merate e a Lugano, poi presso i Barnabiti, a Magenta e a Milano. La madre, intanto, separatasi dal marito, si era trasferita a Parigi insieme a Carlo Imbonati. Manzoni non mostrò particolare simpatia per l'educazione cattolica ricevuta, e si sentì invece attratto dalle idee democratiche provenienti dalla Francia rivoluzionaria.

Nel 1805 raggiunse la madre a Parigi, subito dopo la morte di Carlo Imbonati. Nel 1807 morì il padre e, nello stesso periodo, incontrò Enrichetta Blondel, lia di un banchiere ginevrino, che sposò con rito calvinista l'anno successivo. L'anno 1810 è fondamentale, perché è l'anno della "conversione": in seguito ad un episodio avvenuto a Parigi, Manzoni si riconvertì al cattolicesimo, operando una scelta che già da tempo maturava in lui, nella madre e nella moglie, grazie anche all'influsso dell'abate Eustachio Degola.

Trasferitosi definitivamente a Milano, dal 1812 al 1815 scrisse i quattro Inni sacri. Nel decennio 1816 - 1826 scrisse la parte più considerevole delle sue opere: le due odi Marzo 1821 e Il cinque maggio (1821); le tragedie Il conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822) e la prima stesura dei Promessi sposi (col titolo di Fermo e Lucia, 1821-23).

Nel 1827 pubblicò la seconda redazione dei Promessi sposi; negli anni successivi, in seguito ad un viaggio a Firenze e all'incontro con Giacomo Leopardi, Manzoni rallentò la propria attività creativa e si dedicò prevalentemente alla revisione linguistica dei Promessi sposi (che usciranno in versione definitiva nel 1840-42) e a scritti di orientamento filosofico, critico e linguistico.

Manzoni, che si era risposato nel 1840 con Teresa Borri Stampa, visse gli ultimi anni onorato come il più grande scrittore itliano vivente; nel 1861, nel primo parlamento dell'Italia unita, fu nominato senatore a vita.

Morì a Milano nel 1873, a 88 anni; gli furono tributati solenni funerali e fu sepolto nel cimitero monumentale.


Autore implicito

Colui che emerge dalle ine del romanzo: il narratore onnisciente che interviene con l'arma dell'ironia a commentare i comportamenti dei vari personaggi.


Narratore

I fatti sono raccontati da un narratore da onnisciente, che è a conoscenza di tutta la vicenda, legge nel pensiero e nell'animo dei personaggi,. Interviene a commentare e a giudicare.


Narratario

Cap. I: « . Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto . ». Manzoni vuol dire "i miei pochi lettori", ma la banalità della frase è rimossa dal numero, del quale non c'è una ragione precisa.


Lettore implicito

Manzoni scrive il suo romanzo specialmente per il pubblico dell'Ottocento; anche se è consapevole delle difficoltà che inizialmente avrebbe trovato per la novità dell'opera, non dimentica l'utilità che possono avere i riferimenti al presente.


Lettore reale

Tutti coloro che materialmente leggono l'opera: noi stessi, quindi.





Idillio: dal greco eidyllion = quadretto. Breve componimento poetico, a volte a struttura dialogica, che rappresenta un sentimento amoroso sullo sfondo di un paesaggio ameno. Inizialmente idillio indicava semplicemente la poesia breve, in opposizione all'ampiezza delle odi; siccome però veniva usato in riferimento ai poemetti del greco Teocrito, di ambiente campestre, il termine finì per indicare la poesia bucolica, la rievocazione nostalgica e ingenua della vita agreste. In tal senso, il modello dell'idillio di Teocrito fu imitato dai greci, e nel mondo latino da Tibullo, Ovidio e Virgilio, e continuò ad ispirare la poesia bucolica dal Medioevo all'età moderna.




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