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LUCE E PERCEZIONE VISIVA NELLA STORIA DELL'ARTE

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LUCE E PERCEZIONE VISIVA NELLA STORIA DELL'ARTE


La luce è uno degli elementi rivelatori della vita: per l'uomo, come per tutti gli animali diurni, è la condizione indispensabile per il maggior numero di attività. La fisica ci dice che viviamo di luce presa a prestito: la luce che rischiara il cielo viene mandata dal sole attraverso un buio universo ad una buia terra per una distanza di 93.000.000 di miglia. Ma ben poco di questa nozione si accorda con la nostra percezione, secondo la quale la luce è una qualità intrinseca agli oggetti che ogni tanto scompaiono nascosti dall'oscurità, come se anche il buio fosse un'entità a se stante, e non assenza di luce.

I fattori che concorrono al rapporto luce percezione visiva sono essenzialmente tre: chiarezza, luminosità e illuminazione.

La chiarezza è la prima qualità della luce, il suo rivelarsi, il segno della sua presenza, ciò che ci permette di vedere le cose. Da un punto di vista fisico la chiarezza di un oggetto è determinata dal suo potere di riflettere la luce e dalla quantità di luce che ne colpisce la superficie. Un pezzo di velluto nero, che assorbe gran parte della luce che riceve, può, sotto una forte illuminazione, emettere tanta luce quanta ne emette un pezzo di seta bianca, debolmente illuminato, il quale riflette la maggior parte dell'energia luminosa. Ma per il nostro occhio non c'è modo di distinguere fra il potere di riflessione e la vera emanazione di luce: esso accoglie solo il risultato, cioè l'intensità della luce, ma non ne trae alcuna informazione circa la proporzione in cui le due componenti contribuiscono a tale risultato, non ne ha conoscenza.



La luminosità è appunto l'intensità della luce, il grado di chiarezza che vediamo in un determinato campo visivo: esso può essere più o meno luminoso, ma al suo interno possiamo notare la particolare luminosità di ogni oggetto. Poiché tale luminosità è percepita in relazione alla distribuzione dei valori di chiarezza in tutto il campo visivo (gradienti di luminosità), per poter apparire luminoso, un oggetto dovrà avere un'intensità superiore ai valori di chiarezza che uniformano tutto l'insieme; d'altra parte tutte le cose sono percepite e conosciute per azione. Va sottolineato che i valori di chiarezza sono relativi e non costanti: il fatto, ad esempio, che un fazzoletto appaia o no bianco, non dipende dalla quantità assoluta di luce che esso invia all'occhio, ma dal posto che occupa nella scala di valori di chiarezza che vediamo in un determinato momento ed in un determinato spazio.

L'illuminazione è un effetto particolare di luce: la notiamo solo quando questo effetto è evidente, cioè quando la luce è battente, intensa, e proietta ombre nette; quando la luce è invece diffusa, non rileviamo altro che una chiarezza generica e non notiamo ombre. L'illuminazione, da un punto di vista fisico, entra in gioco ogni volta che vediamo un oggetto che senza luce rimarrebbe invisibile; ma per la nostra percezione visiva l'illuminazione è un fenomeno aggiuntivo che si somma alla luce riflessa dall'oggetto che vediamo e lo disegna nettamente nei suoi contorni, accentuandone forme, colori, ombre, contrasti, a seconda della sua provenienza.

Se per la fisica non ha senso la distinzione fra chiarezza ed illuminazione, essa è invece importante per il disegno, la pittura, le arti urative in genere. Con il chiaroscuro, ad esempio, cioè disegnando le ombre, si può rappresentare il volume di un oggetto ed ottenere effetti di luce diffusa ed illuminazione che concorrono ad accentuare l'impressione del volume, della profondità e della distanza nello spazio, a seconda della distribuzione nel disegno dei valori di chiarezza. Gli effetti di contrasto in un disegno sono determinati dalla minore luminosità delle immagini inviate dagli oggetti lontani a confronto con la maggiore luminosità inviata dagli oggetti vicini: la diversa luminosità degli oggetti ci fa apparire diversa la loro distanza da noi, con lo stesso effetto della prospettiva. Infatti il gradiente di intensità luminosa degli oggetti che si allontanano da noi produce lo stesso effetto prospettico del decrescere della loro grandezza: questo effetto è ben noto agli scenografi che riescono a conferire illusorie profondità spaziali illuminando fortemente gli oggetti in primo piano e producendo ombre negli angoli di sfondo che appaiono così più lontani. Per effetto quindi del contrasto luminoso la luce ci informa anche dell'orientamento spaziale di un oggetto, della sua direzione, della sua distanza da noi, del suo movimento, della sua forma.

Di solito non siamo consapevoli di tutto ciò, infatti negli stadi infantili o primitivi delle arti urative la luce non viene rappresentata: nei disegni di un bambino, come nella pittura egizia, non c'è uso di ombre e di chiaroscuro, non c'è coscienza della rappresentazione della rotondità dei solidi, ma si usano contorni semplici, lineari, e colori uniformi. Nel corso dei secoli l'uomo scopre le virtù spaziali della chiarezza non uniformemente distribuita, l'effetto percettivo dei gradienti, ed apprezza l'uso dell'ombreggiatura per far retrocedere la superficie in prossimità dei contorni e farla risaltare nei punti di maggiore chiarezza: tecniche che sono usate non sempre secondo una corretta illuminazione fisica, ma per dare suggestione ad oggetti che sono primari nel tema poetico svolto dal pittore o scultore. Nella simmetria dei dipinti medievali, ad esempio, le ure di sinistra ricevono luce da sinistra e quelle di destra da destra, senza tener conto della realtà fisica della sorgente luminosa.

Nella pratica dell'arte quindi, l'importanza della luce è primaria e gli artisti hanno imparato a sfruttarla per far risaltare le qualità delle superfici ed il modellato delle sculture, per ottenere valori tonali ed atmosfere. Ogni superficie ha infatti una propria struttura, una propria trama (texture), poiché ogni materiale ha diversa natura e struttura e risponde alla luce in modo diverso: compito dell'artista, nella sua scelta dell'uso dei materiali, è di evidenziarne l'espressività intrinseca. E' molto diverso lavorare con il marmo, il bronzo o il legno, o dipingere a fresco sull'intonaco o ad olio su una tela; ed i risultati sono ben diversi quando la materia viene usata nel modo appropriato alle proprie qualità. Se, ad esempio, sfioriamo con la mano un mosaico bizantino ci accorgiamo che la sua superficie è irregolare come se le tessere fossero sconnesse: l'irregolarità non è casuale ma voluta, poiché ogni tessera, esponendosi alla luce con differente inclinazione, rifrange la luce in modo diverso ed aumenta la lucentezza complessiva del mosaico nel quale i colori sembrano vibrare intensamente.

Michelangelo, per animare le superfici delle sue sculture, si serve del "non finito", usando con sapienza le possibilità che la luce gli offre per valorizzare i suoi marmi: infatti alterna superfici levigate sulle quali la luce scivola con morbidezza (Angelo portacandeliere dell'Ara di S. Domenico) a superfici scabre ed irregolari, appunto non rifinite, che la luce rende vibranti d'atmosfera (Il Crepuscolo).

Lo scultore che per primo ha considerato la luce come elemento sostanziale delle sue opere è il Donatello dei bassorilievi, che ha inventato quell'uso della forma definito "stiacciato", concepito prevalentemente in funzione della luce. Nel "Banchetto di Erode" lo spazio è articolato su diversi piani di profondità realizzata usando la prospettiva; lo spessore del bronzo su cui disegna è di pochi centimetri, così che la luce batte contemporaneamente e gioca allo stesso modo sui primi piani e sui piani di fondo, realizzando valori atmosferici finora mai ottenuti neppure dalla pittura. Bisognerà infatti attendere lo "sfumato" di Leonardo perché le ricerche sulla luce possano iniziare ad attuarsi con originalità: lo sfumato è infatti la rappresentazione del gradiente di densità luminosa, cioè del graduarsi della luce attraverso il filtro dell'atmosfera.. Leonardo intende la luce come un elemento determinante dell'immagine e la dosa sapientemente nel dipinto con una raffinata applicazione del chiaroscuro, "perché il troppo lume fa crudo". Più tardi sarà il Caravaggio ad usare totalmente l'effetto dell'illuminazione come rappresentazione di una luce proveniente da un punto esterno del quadro: nella "Vocazione di S. Matteo" la luce entra nel dipinto e taglia diagonalmente tutta l'immagine, sfiorando il volto e la mano di Cristo prima di illuminare le ure sedute intorno al tavolo. E la luce è per il Caravaggio l'elemento trasurante che attenua il suo fortissimo realismo.

Ma il simbolismo della luce ha la sua maggiore espressione pittorica nelle opere di Rembrandt dove l'identificazione fra luce e colore diviene totale e l'effetto di illuminazione delle ure è talmente potente che esse stesse sembrano emanare luce assumendo un carattere di trasurata immaterialità. Rembrandt accresce la luminosità dei suoi soggetti evitando la minuzia dei particolari nei punti di maggiore chiarezza, conferendo loro quella indefinitezza di superficie che li rende più luminosi del resto del campo .

Diverso è l'uso della luce nell'arte degli Impressionisti: in essi il mondo risulta per se stesso chiaro e luminoso e a ciò contribuisce il fatto che i contorni degli oggetti dipinti non sono netti e chiaramente tracciati: le cose non sembrano avere una propria materialità e la luminosità sembra fluire dall'interno del quadro in tute le direzioni. La scala dei gradienti di chiarezza in questi dipinti è infatti molto ristretta: essa si mantiene dentro il campo dei toni chiari ed elimina quelli scuri, così che il gioco di contrasto fra luce ed ombra è estremamente scarso e l'uso del colore si risolve in un'unica gamma di tonalità diverse. Il quadro consiste praticamente di singole pennellate autosufficienti, ciascuna delle quali possiede un solo valore di chiarezza e colore. Questo procedimento, che forse è quello che si avvicina di più alla nostra usuale percezione di ogni spazio fisico senza forzarci con effetti particolari, esclude il concetto di una sorgente di luce esterna al campo, ed ogni pennellata, o puntino, è esso stesso sorgente di luce. Il quadro è allora come un pannello di lampadine irraggianti luce, tutte di forza uguale e indipendenti l'una dall'altra.

D'altra parte gli Impressionisti dedicano uno studio accurato alla luce ed al colore servendosi delle teorie scientifiche contemporanee e dell'interesse per i fenomeni naturali tipico del positivismo: se, come dice Renoir, "bianco e nero non sono colori", essi colorano anche le ombre che non sono più tradizionalmente nere, ma sono anch'esse velate di colori "complementari" che con gli impressionisti vengono usati sistematicamente e coscientemente, contribuendo alla straordinaria luminosità dei loro quadri.

Particolarmente rappresentativo di tutto il movimento impressionista è Monet ed il suo gusto del ritrarre "en plain air", gusto romantico della natura, la sua scelta del motivo dell'acqua, elemento mobile e riflettente per eccellenza, il suo entusiasmo per "l'inimitabile luce di Venezia" che si rammarica di aver conosciuto già in vecchiaia e che definì "l'impressionismo in pietra" per i suoi palazzi che sembrano galleggiare su uno specchio d'acqua e luce.

E in analogia viene da pensare a Fattori ed al suo "Boschetto di Castiglioncello", alle macchie di colore che riflettono la calda luce mediterranea della Toscana, più solide e costruttive delle piccole pennellate impressioniste, ed usate a colore pieno, più contrastato, privo dello studio dei complementari che aggiunge luminosità e freschezza agli impressionisti, ma comunque rappresentativo di un'intensa luce costruita per netti stacchi di colore. O a Lega ed al suo "Pergolato" dove una radente luce di tardo pomeriggio, che si compone in lunghe strisce di sole ormai basso, alterna ombre in una fresca atmosfera serena. E terminare con uno sguardo alla terribile drammaticità dell'abbagliante luce riflessa dalle pareti calcinate della "Sala delle agitate" di Signorini, contro la quale si stagliano anonime ure oscure ed oblique, risaltate dalla profondità prospettica.




BIBLIOGRAFIA

Rudolf Arnheim: "Arte e percezione visiva" - Feltrinelli

Piero Adorno: "L'arte italiana" - G. D'Anna

Luigi Malaguti: "Disegno" - Istituto Geografico De Agostini




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