letteratura |
L'ascesa al monte Ventoso
Francesco Petrarca, in una lettera indirizzata al frate agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, nonché colui che donò al poeta le Confessioni di sant'Agostino, narra di una sua avventura, durata un solo giorno, in comnia del fratello Gherardo, persona scelta dopo una lunga e difficile selezione con la quale Petrarca ha esaminato pregi e difetti degli amici, pregi e difetti risultati comunque non confacenti all'avventura da intraprendere, cioè l'ascesa al monte Ventaux, nei pressi di Valchiusa. Dopo una descrizione delle prime tappe del cammino, Petrarca lascia intendere come questa esperienza abbia subito una trasurazione letteraria della realtà, divenendo allegoria (questo espediente della trasurazione è sicuramente un elemento preso dalla tradizione classica in cui selezione e idealizzazione svolgevano un importante ruolo). L'ascesa al monte, ascesa lunga e impervia, si può ben associare alla vita beata, meta che può essere raggiunta solo con molti sforzi. Petrarca è conscio che la via della beatitudine è per lui un percorso troppo scosceso, difatti più volte durante l'ascesa al monte si mette in cerca di un sentiero pianeggiante e facilmente percorribile. Ma durante una sosta il poeta ha la possibilità di poter riflettere, rendendosi conto che non è tanto importante la conquista del mondo esteriore quanto l'indagare nella propria interiorità. Quest'illuminazione è dato da un passo delle Confessioni di sant'Agostino che il poeta portava sempre con sé: "E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti [ . ] e trascurano se stessi".
Dunque, all'impeto avventuroso e giovanile e la voglia di emulare i grandi condottieri dei tempi antichi come Filippo il Macedone, si sostituisce una più matura consapevolezza della vanità del mondo esteriore, tema biblico che peraltro ritorna anche in molti sonetti di Petrarca. Il poeta così indaga nel fondo del proprio animo, scorgendo dentro di sé persino un "doppio uomo" che lo porta ad avvertire sentimenti contrastanti e il più delle volte a mentire. Si nota come nel concludere della lettera Petrarca rovescia il reale significato dell'ascesi al monte, modellando il suo pensiero su frasi tratte da sant'Agostino o dai filosofi ani come Cicerone o Seneca, il quale insegnava tramite lo stoicismo con non vi è nulla di più grande dell'anima. Da ciò si evince anche quella componente del pensiero petrarchesco che cercava di conciliare la filosofia e la saggezza dei classici con la sapienza cristiana. I classici difatti potevano preparare l'uomo alla grande rivelazione cristiana. Questa è una delle componenti che fa di Petrarca un anticipatore dell'Umanesimo, nonché di un Umanesimo Cristiano.
Sonetti:
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono ( I )
Voi
ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva
'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,
del vario stile in ch'io piango et
ragiono 5
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente 10
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno
Il sonetto è posto come proemio dell'opera Il Canzoniere considerato il capolavoro di Petrarca in lingua volgare. Tuttavia la raccolta di sonetti, canzoni e ballate non ebbe la stessa stima da parte del poeta stesso, convinto che la vera lingua della letteratura fosse solo il latino e non una lingua come il volgare. Ciò lo porta ad intitolare la sua raccolta Rerum vulgaria fragmenta e in seguito Rime sparse.
Petrarca non tiene dunque un buon giudizio della propria poesia in volgare
( il che lo discosta nettamente da Dante), considerandola nettamente inferiore ai suoi componimenti latini. Ciò non solo perché a suo giudizio la lingua latina fosse una lingua esemplare, ma anche perché egli soleva coinvolgere nello stesso giudizio attività letteraria ed esperienze di vita vissuta. I sonetti in volgare del Canzoniere infatti sono per lo più dedicati a Laura, ad un amore che provoca nell'animo del poeta un costante oscillare e un profondo dolore. Per questo motivo il poeta definisce i suoi sonetti in volgare "rime dal vario stile" dal momento che essi non presentano unità come gli scritti in latino e oscillano continuamente tra tematiche differenti. Da ciò ne consegue che il poeta battezzi i suoi sonetti anche Rime sparse, con una palese accezione negativa.
Sebbene la protagonista della raccolta è ovviamente la ura di Laura, in realtà emerge una nuova ura, una ura per così dire celata dietro l'immagine fittizia di Laura, e cioè quella del poeta stesso. Nel sonetto infatti che apre la raccolta il poeta fa un ampio uso di pronomi di prima persona, sottolineando la dimensione personale e soggettiva del componimento.
Si nota nel sonetto una contrapposizione tra presente e passato. Il poeta riconosce di aver errato inseguendo in passato un amore materiale e persino sensuale e cioè l'amore per Laura. Difatti Petrarca non riesce a creare un'immagine di Laura come fece Dante di Beatrice, ovvero di una donna che assurge al divino tramite la bellezza terrena. L'io del presente dunque riconosce una profonda presa di coscienza nel poeta, il quale asserisce di essere cambiato. Ne consegue, perciò, un bilancio altamente negativo. L'amore infatti, nell'ultima strofa, assume il significato di "vaneggiar", un vaneggiare che rende folli.
A livello formale si notano: chiamo, parole chiave (voi, spero, ma, favola), ampio uso dell'aggettivazione, allitterazioni.
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi ( XC )
Erano i capei
d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avvolgea,
e 'l vago lume oltre misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son sì scarsi;
e 'l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea :
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subito arsi ?
Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma, e le parole
sonavan altro che pur voce umana;
uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'io vidi; e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.
Il sonetto, probabilmente databile al 1342, si può accostare all'ampia tradizione stilnovistica che vedi come eccellenti rappresentanti poeti come Giunizzelli (Io voglio del ver la mia donna laudare), Cavalcanti ( Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira)e persino Dante. Nelle opere di quest'ultimi si rintracciano descrizioni di donne an
gelicata, rappresentate sotto i tòpoi più consueti: donne dagli aurei capelli, pelle eburnea, esseri quasi eterei, impalpabili, simili ad angeli immersi in un eterno presente. In Petrarca invece se la dimensione dell'eterno presente e Laura, seppur descritta secondo le consuetudini, è soggetta come tutti gli uomini nella realtà all'incalzare del tempo che intacca pertanto la sua bellezza. Ciò non la rende perfetta quanto le donne decantate dallo stilnovismo. Se nelle opere degli stilnovisti si crea inoltre un'atmosfera alquanto sognante, fiabesca e rarefatta, in Petrarca il tutto è acuito e palesato. Ritorna anche nel sonetto un altro tema tipico della concezione petrarchesca: la labilità delle cose, la fugacità e la vanità del tutto.
Livello formale: nonostante i versi siano endecasillabi, il ritmo è molto fluido, scorrevole. Non si notano forti fratture. Le pause che poi ricorrono al 4° e al 13° verso sono un espediente del poeta per contrapporre le dimensione del presente e del passato. Si notano iperboli nella descrizione "angelicata" di Laura, così come l'iperbole "mille nodi l'avvolgea", riferita alla profusione di biondi capelli riccioluti di Laura. Si nota nell'ultima strofa la metafora dell'arco: l'amore è rappresentato come una piaga che porta afflizione e la bellezza di Laura è accostata all'arco. Anche se l'arco s'allenta, nel poeta l'amore non diminuisce mai.
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