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Machiavelli e Guicciardini
Rinascimento e continuità umanistica
Nei primi decenni del Cinquecento giunge a maturazione il processo dell'Umanesimo, originatosi tra fine Trecento e inizio Quattrocento, quando si era venuto affermando il mito della rinascita della civiltà classica.
A questo periodo si è soliti dare il nome di Rinascimento, epoca che si conura come espressione di una civiltà raffinata, pervasa da un forte spirito di intelligenza, di sapienza di vita e di tensione spirituale. Accanto alla caratterizzazione dell'uomo del Rinascimento si afferma l'ideale dell'uomo come centro dell'universo, dotato di uno spirito critico nei confronti della natura e della scienza. L'individuazione di due tendenze, quella idealizzante e quella realistica, consente di comprendere il nodo storico culturale che lega l'Umanesimo al periodo rinascimentale.
Le origini del Rinascimento
È assai riduttivo parlare di Rinascimento cristiano o ano, religioso o antireligioso, proprio perché tutt'e due le anime si intrecciano nel complesso panorama spirituale. Anche il culto per il mondo classico si manifesta in maniera duplice: da un lato si rafforza la visione laica, attiva e dinamica della componente realista, dall'altro aumenta la tensione etica della componente idealizzante, in una interpretazione dei classici come puri modelli di stile. L'orgoglio degli intellettuali nasce dal risveglio dello spirito che si manifesta in tutte le espressioni artistiche e letterarie, dalla consapevolezza di essere fautori di cambiamenti del costume, e motivo di prestigio per le corti ospitanti.
La cultura sembra aver determinato il sorgere di una nuova classe egemone, di un'aristocrazia intellettuale che esercita il proprio ruolo all'interno delle realtà ecclesiastiche e principesche. Infatti la maggior parte delle opere biografiche è caratterizzata o dalla partecipazione alla vita cortigiana oppure dall'aspirazione a intraprendere una carriera ecclesiastica o ancora politico-diplomatica.
Il divario tra cultura e politica
La contraddizione insanabile sottintesa a questo comportamento genera un divario sempre più evidente tra gli uomini di cultura e i politici, accentuando il definirsi di ruoli autonomi e ben distinti. Si afferma ancor più la tendenza a sgravarsi dalle preoccupazioni materiali per dedicarsi agli studi, in cambio di una posizione subalterna al mecenate, rispetto al quale le principali funzioni sono di esaltare la magnificenza della sua corte e generosità. Ne deriva un atteggiamento di aristocratico distacco che da una parte cementa il gruppo degli intellettuali, in nome di una cultura raffinata e di un'ostinata ricerca di autonomia, dall'altra contribuisce a legittimare il potere che rende possibile questa autonomia.
Nello stesso tempo proprio la classe intellettuale diviene il veicolo per esprimere tutti i motivi che determinarono la crisi di quello stesso sistema di pensiero. La splendida fioritura dei primi decenni del secolo, che si era venuta manifestando con lo sfarzo delle corti, la libertà dei costumi e delle idee, venne a coincidere con un periodo di profonda crisi istituzionale ed economica che minava le basi della passata realtà storica degli stati italiani.
La decadenza del Mediterraneo
Sotto il profilo economico la scoperta dell'America e la circumnavigazione dell'Africa privarono l'Italia e il Mediterraneo del ruolo cardine che avevano avuto nei traffici marittimi. Il volume degli scambi si ridusse relegando il Mediterraneo a mare interno, continuamente esposto alle incursioni delle flotte barbare. La politica di equilibrio tra gli stati italiani, vanto dell'azione di governo di Lorenzo il Magnifico cede il passo alle contese tra le grandi monarchie europee, che spostano in Italia il campo d'azione delle loro tensioni. In particolar modo la discesa di Carlo V nella penisola fa emergere tutta la debolezza istituzionale e militare italiana. Le ragioni di questa crisi sono state individuate in una serie complessa di fattori che vanno dallo scarso consenso sociale che i principi erano riusciti a creare attorno al loro potere, all'ideologia stessa della civiltà rinascimentale, già minata da un senso profondo di instabilità. Rispetto alle altre monarchie europee, che andavano consolidando l'apparato burocratico, i principati italiani sembravano doversi reggere sulle capacità di pochi individui combattuti in uno scontro drammatico tra 'virtù' e 'fortuna'.
I problemi della Chiesa
Ad accentuare questo clima di profondo mutamento contribuì lo scisma della Chiesa cattolica lacerata da movimenti ereticali sempre più consistenti e, soprattutto, dalla dottrina di Martin Lutero.
Alla libera circolazione di idee si venne sostituendo un atteggiamento di intolleranza e di diffidenza che avrà la massima espressione nelle dispute teologiche e nelle dure condanne inferte agli eretici. Sul piano culturale le conseguenze della frattura tra cattolicesimo ortodosso e cristianesimo protestante andarono ben al di là degli schieramenti politici per investire le coscienze degli individui, generando dubbi, rimorsi, autocensure. Dal quadro economico, politico e religioso sopra esposto emerge la complessità di questo periodo, dilaniato dalle contraddizioni tra ideologia e realtà, tra il mondo costruito secondo parametri fortemente idealizzanti, pieno di tensioni universali e la cruda quotidianità.
A questi problemi il Rinascimento risponde in modo duplice. Da una parte elabora l'immagine di un universo che si fonda sull'ideale della perfezione, del vagheggiamento delle forme classiche, dei valori di armonia, compostezza e bellezza e concreta queste aspirazioni nell'ambizione di educare l'individuo - inserito in qualsiasi contesto politico, morale, amoroso, artistico. Nasce così tutta una manualistica minuziosa che aiuta ad agire umanamente, indirizzando i propri sforzi alla realizzazione di un fine, attraverso la manifestazione di tutte le proprie potenzialità umane, in un equilibrio armonico tra passione e ragione.
La produzione letteraria
Nell'ambito di questa produzione letteraria si trovano scritti di vario genere, alcuni di grande validità artistica come il Principe di Machiavelli, il Cortigiano di Baldassarre Castiglione, il Galateo di Giovanni Della Casa, altri decisamente volgari e privi di contenuti significativi, ma comunque tutti accomunati dall'intento di razionalizzazione della realtà, intento sintetizzato nella 'regula', che consente di dominare i capricci del caso. Quando poi questo impegno è sorretto da un'organica visione del mondo e da un'autentica intenzione pedagogica, esso diviene strumento per la realizzazione di un cosmo a misura d'uomo. Di qui l'elaborazione del secondo filone della civiltà rinascimentale, che si mostra più attento all'osservazione concreta dei fatti. Per questo, accanto a Machiavelli e ad Ariosto, partecipi di entrambe le tendenze, si incontrano personalità più scettiche e disincantate come Guicciardini.
La teorizzazione di un modello esemplare di umanità che coincidesse con l'uomo dell'umanesimo ha certamente escluso la possibilità di comprendere tutte le altre esperienze culturali che appartenessero al mondo del diverso.
È, questo, un fenomeno che assume caratteri macroscopici quando ci si riferisce alle civiltà e ai popoli di epoche lontante appena scoperti, ma che investe la stessa civiltà occidentale quando si pensa all'esclusione di tutti coloro che non rientravano nella categoria del 'regolare' e del 'normale'. Per questo motivo il Rinascimento fu sostanzialmente l'espressione di un'élite aristocratica che si potè esercitare e dilettare nella produzione di una letteratura rispettosa di canoni linguistici formali, improntati al decoro e alla normalità.
La questione della lingua
I primi decenni del Cinquecento furono consacrati al dibattito sulla questione della lingua. Il nuovo volgare, che comprendeva il modello latino e quello fiorentino, si andava definendo come lingua ufficiale 'illustre', ma si tradiva anche sempre più come un idioma privo di quella spontaneità che ne doveva favorire l'uso presso tutte le classi sociali. La sua artificiosità finì per ridurre le sue possibilità di utilizzo, a scapito della stessa circolazione delle idee e dei prodotti artistici. La produzione letteraria dialettale fu rapidamente destinata a un ruolo marginale rispetto alla letteratura colta e venne anzi assunta come strumento di polemica nei confronti di una cultura ufficiale rivolta non solo alla codificazione della lingua ma anche degli stili e dei generi letterari che ebbero fortuna nella seconda metà del Cinquecento, causando un sempre maggiore irrigidimento della letteratura.
Niccolò Machiavelli
La riflessione politica e storica, come l'attività letteraria di Niccolò Machiavelli coincidono con il momento di maggior splendore della civiltà rinascimentale. Nato a Firenze il 3 maggio 1469 da una famiglia di antica tradizione, ebbe un'educazione umanistica alimentata dallo studio dei classici e dall'esercizio delle virtù civili. Entrò in politica nel 1498 come segretario dei Dieci di Balia e, successivamente, divenne segretario della seconda cancelleria della Repubblica oltre che uomo di fiducia del gonfaloniere Pier Soderini. Svolse le mansioni di legato, ura a cavallo tra l'ambasciatore e l'osservatore diplomatico, riportando fedelmente gli avvenimenti grazie all'acuta capacità di analisi.
Visitò le corti europee di Francia, presso Luigi XII, e d'Austria, soggiornando presso l'imperatore Massimiliano. In Italia visitò la Valdichiana e fu assiduo frequentatore di Cesare Borgia e di papa Giulio II. Le testimonianze della scrupolosa attività di osservatore sono raccolte negli scritti di quel periodo, raggruppati sotto i titoli di Legazioni, Commissarie, Scritti di governo.
Dalla loro lettura emerge l'evoluzione del pensiero politico di Machiavelli, capace di penetrare i meccanismi che regolano la storia e di analizzare le cause della decadenza italiana rispetto alla florida situazione degli altri stati europei.
I trattati e i Discorsi
Riconoscendo la validità teorica di questi scritti, Machiavelli stesso fu spinto a rielaborarne alcuni in forma di trattato: Del modo di trattare i popoli di Valdichiana ribellati (1602); Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini (1503); il Rapporto delle cose della Magna (1508); Ritratto di cose di Francia (1510); Ritratto delle cose della Magna (1512). Convinto che la decadenza italiana dipendesse dalla mancanza di eserciti originari del luogo, con i quali fosse possibile sostituire le milizie mercenarie, si preoccupò di allestire un'ordinanza di truppe cittadine, che però fuggì di fronte agli snoli, principali fautori del ritorno dei Medici a Firenze.
Caduta la repubblica, fuggito Pier Soderini, Machiavelli fu privato della sua carica e costretto al confino presso la casa di camna, l'Albergaccio, a San Casciano in Val di Pesa. Durante gli anni di inattività politica si dedicò allo studio della storia, in un ideale colloquio con gli antichi reggitori di popoli per comprendere le ragioni delle loro scelte politiche. Da queste riflessioni nacquero i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, opera iniziata nel 1513, interrotta al primo libro per comporre il Principe e ultimata prima del 1519. Nei Discorsi, in tre libri, Machiavelli usa il pretesto del commento al testo liviano, che tratta della storia di Roma dalle origini al 293 a.C., per esporre i problemi centrali del suo pensiero.
Il pensiero politico
Attraverso la trattazione della politica estera, dell'organizzazione militare, dell'espansione dello stato, le considerazioni del peso che, nella stabilità, nel progresso e nella decadenza di un paese hanno i singoli e le varie condizioni, egli precisa sempre meglio la differenza tra lo stato romano e i governi italiani presenti, accentuando la sofferta consapevolezza della crisi italiana.
Egli ha modo di esprimere la sua personale preferenza per la repubblica, risultato di una forma di governo misto che contempera gli elementi migliori dell'autorità e della libertà, propri delle monarchie, delle aristocrazie, delle forme di governo democratico. In questa prospettiva più ampia, che rende i Discorsi l'esempio più complesso del pensiero storico-politico di Machiavelli, l'improvvisa composizione del Principe può sembrare una deviazione dal pensiero originale. Sebbene l'impostazione delle due opere sia diversa, tuttavia i nessi e l'atmosfera spirituale consentono di inserirle in un'ideale prospettiva programmatica tutta animata dalla coscienza del dramma storico contemporaneo.
Il Principe
La stesura del Principe nasce dalla volontà di proporre un progetto politico di immediata attuazione per far fronte al precipitare degli eventi storici italiani. Proponendosi come intervento sulla realtà concreta, l'opera esclude la forma di governo della repubblica, occupandosi solo del principato assoluto come unico rimedio possibile alla decadenza della nazione.
Ne deriva la dedica a Lorenzo de' Medici, in seguito nominato duca d'Urbino, che però delude le aspettative di Machiavelli e l'ardore con il quale nell'ultimo modulo si fa appello alla virtù di un principe che possa prendere il controllo della situazione e risollevare le sorti dell'Italia.
Secondo Machiavelli occorre dunque educare un principe di eccezionali virtù, spregiudicato e disposto a tutto pur di salvare lo stato, capace di lottare contro le avverse condizioni e la cieca fortuna, elemento inevitabile nello scorrere e determinarsi della storia. Per far ciò si devono prendere le mosse dagli esempi dei personaggi della storia passata e contemporanea (Ciro, Mosè, Teseo, ma anche Cesare Borgia e Ferdinando di Sna).
Virtù e fortuna
Così virtù e fortuna divengono gli elementi essenziali del dramma politico e storico sul quale Machiavelli indaga. Rompendo con gli schemi di pensiero del passato, secondo i quali la storia era dominata da una concezione trascendente e provvidenziale, egli individua nell'agire umano la spietata legge dell'utile. La condanna di ogni falsa moralità porta alla teorizzazione di una vera virtù, non più coincidente con quella cristiana, ma costituita da una capacità, fatta di intelligenza e di forza, rivolta al conseguimento di risultati pratici e sicuri. Questa dote permette di organizzare una vita statale seguendo l'esempio degli antichi reggitori di stati e di affrontare le dure leggi della realtà, così come si presenta e non come 'dovrebbe essere', e della politica della quale Machiavelli difende l'autonomia rispetto alla morale e alla religione.
Il potere del principe
Egli è consapevole che l'azione politica presuppone leggi ferree che il principe deve individuare per raggiungere il fine propostosi, anche tramite l'impiego dell'astuzia e violenza, qualità di 'volpe' e di 'leone'. La struttura del trattato si rivela assai unitaria, articolata in tre parti fondamentali, alle quali fanno seguito i tre moduli conclusivi che ne riprendono e concentrano in una sintesi appassionata i motivi più profondi.
La concezione pessimistica sulla natura dell'uomo, sulle capacità di autogovernarsi per superare la condizione ferina e innalzarsi a dignità umana, spingono Machiavelli a postulare il ricorso a una forza maggiore, quella del potere assoluto del principe, capace di ristabilire un ordine che la legge, resa inefficace dalla cattiveria e dalla corruzione degli uomini, non è più in grado di tutelare. Nel perseguire questi intenti il principe deve essere in grado di servirsi di mezzi straordinari e, talvolta, disumani. Il suo sottrarsi alla morale comune è giustificato dal fine, la conservazione dello stato, e dai mezzi impiegati che trovano la loro ammissibilità in se stessi e nella funzione che svolgono.
In una prosa essenziale, ma densa di immagini forti e vigorose, Machiavelli propone una soluzione rivoluzionaria, capovolge i tradizionali rapporti tra politica e morale e finisce per gettare le basi del pensiero politico moderno.
Le opere minori
Tra il 1513 e il 1520, anno in cui i Medici chiamano Machiavelli per incarichi di modesta rilevanza e comunque di carattere storiografico (come il compito di scrivere la storia della città), egli compone opere a carattere più propriamente letterario. Di discreto interesse sono i Decennali, vivace riflessione in terzine sulla situazione storica italiana: nel Decennale primo si fornisce un rapido riassunto delle vicende italiane e soprattutto fiorentine del decennio 1494-l504; la narrazione è ripresa nel Decennale secondo nel quale si espongono gli avvenimenti fino al 1509.
Al dibattito letterario sulla questione della lingua Machiavelli partecipa attivamente con il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, composto intorno al 1514, opera volta a sostenere la fiorentinità della lingua nella sua espressione più viva e naturale contro i difensori della lingua cortigiana. Le doti novellistiche di Machiavelli si rivelano in Belfagor arcidiavolo, novella a carattere misogino che narra l'infelicità della vita coniugale del demone protagonista che, presa forma umana, viene beffato da un villano. Il notevole interesse per il teatro comico si manifestò nella commedia Mandragola.
Scritta dopo il 1518, quest'opera ripropone il consueto repertorio della commedia cinquecentesca, richiamando motivi di derivazione classica nella ura del giovane innamorato Callimaco, del parassita Ligurio che ordisce inganni nei confronti del vecchio Nicia, marito della bella Lucrezia.
L'opera, nella cruda rappresentazione dei costumi del tempo, rivela una forte vena pessimistica dovuta all'incontro tra il realismo spregiudicato e l'osservazione lucida della realtà privata, mossa da leggi implacabili di utilità e popolata da uomini astuti e malvagi.
Negli ultimi anni della vita Machiavelli riprende la riflessione su temi politici e storici. Scrive così la Vita di Castruccio Castracani. Composta nel 1520, la biografia delinea la personalità del trecentesco signore di Lucca attraverso fatti inventati o falsati nella cronologia per poter ritrovare nelle storie del passato la ura di un principe virtuoso che riassuma le doti del politico e del condottiero. L'opera risente della precedente Dell'arte della guerra, dialogo in sette libri composto tra il 1519 e il 1520 sul problema degli eserciti, della loro formazione e delle tattiche di guerra, e trae ispirazione dai modelli esemplari tratti dal mondo romano così diversi dalle inadeguate milizie contemporanee.
L'attività storiografica
L'attività storiografica di Machiavelli si attuò nella stesura delle Istorie fiorentine, in otto libri, scritte tra il 1520 e il 1525. In esse viene tracciata la storia della città dalle origini fino alla morte di Lorenzo il Magnifico, con un breve riassunto della storia d'Italia a partire dall'ultimo secolo dell'Impero. L'opera rivela delle incongruenze nella mancanza di un controllo critico delle fonti storiografiche utilizzate e delle fonti archivistiche, concedendo troppo ai modi della storiografia medievale. Ancora una volta i fatti storici sono l'occasione per esporre il proprio pensiero politico e fornire un'interpretazione conforme alle proprie convinzioni. Nel 1526 viene affidato a Machiavelli l'incarico di provveditore e cancelliere dei procuratori delle mura di Firenze, in vista dello scontro tra gli stati italiani, riuniti nella lega di Cognac, e Carlo V. Dopo la cacciata dei Medici nel 1527, Machiavelli non ebbe nuovi incarichi dalla repubblica appena restaurata perché il suo riavvicinamento al passato governo lo aveva reso sospetto. Morì, amareggiato e deluso, il 21 giugno 1527.
La storiografia
L'attività storiografica consiste nella narrazione di eventi storici secondo precisi princìpi di ordine metodologico. Nel Medioevo, gli autori attribuivano un valore sacrale alla storia, considerata il risultato del progetto divino sull'uomo, nell'ambito di una concezione provvidenziale del destino umano. Con l'Umanesimo il concetto di storiografia cambia e, grazie alla lezione di classici come Cicerone e Livio, si traduce nella messa a punto di norme, secondo le quali l'opera storica deve essere annualistica e non cronologica; deve rispecchiare la selezione degli argomenti di politica; deve mirare alla celebrazione dell'individuo o della città oppure tendere a un insegnamento morale.
Machiavelli e Guicciardini si ispirano ai canoni della storiografia pragmatica: dallo studio della storia si deve trarre una lezione per l'attività politica e pratica del presente.
Francesco Guicciardini: la vita
Più scettico e disincantato di Machiavelli, Francesco Guicciardini rivolge la sua attenzione, più che alla riflessione teorica, all'attenta e scrupolosa valutazione della realtà mostrando un atteggiamento aristocratico disdegnoso delle masse e degli aspetti troppo umili e materiali della quotidianità. Nato a Firenze nel 1483 da una nobile e influente famiglia (il padre fu amico di Ficino e Savonarola), ricevette un'educazione rigorosa rivelando precocemente un interesse per la politica che - dopo una giovanile e fruttuosa esperienza professionale d'avvocato affiancata da un'attività di studioso della storia e della politica - lo portò ad accettare, nel 1511, la carica di ambasciatore presso la corte di Ferdinando il Cattolico, re di Sna.
Da quella esperienza diplomatica nacquero i resoconti intitolati Diario del viaggio in Sna e la Relazione di Sna. Rientrato a Firenze nel 1514, Guicciardini si pose al servizio dei Medici, tornati al potere dopo la parentesi repubblicana. Dal papa Leone X, appartenente a quella famiglia, fu nominato governatore pontificio di Modena e di Reggio. Successivamente Adriano VI e Clemente VII gli affidarono l'incarico di commissario dell'esercito pontificio e, nel 1525, di presidente della Romagna. Nel 1526, come luogotenente del papa, svolse un ruolo di primo piano nell'organizzazione della lega di Cognac. Ma gli esiti della guerra contro Carlo V (cacciata dei Medici, sacco di Roma) gli causarono le inimicizie dei pontefici e del governo repubblicano fiorentino.
La profonda crisi personale che seguì lo indusse a un bilancio della sua attività di politico e di teorico, riflessa nelle tre orazioni l' Accusatoria, la Difensoria, la Consolatoria, nelle quali ribadiva la convinzione nella linea antimperiale seguita e difendeva la posizione da lui assunta.
Durante la pausa riflessiva di quegli anni procedette alla stesura dei Ricordi politici e civili e si dedicò all'attività di storico interrotta solo dagli incarichi affidatigli dai Medici tornati al potere. Con l'ascesa di Cosimo de' Medici, Guicciardini, non avendo incontrato il favore del nuovo duca, fu costretto a ritirarsi in solitudine nella sua villa di Arcetri, dove morì nel maggio 1540.
La 'discrezione' e 'l'utile'
Animate dal bisogno di chiarificazione, dall'antipatia per le utopie e per le prospettive di un futuro irrealizzabile, le opere di Guicciardini nascono dalla volontà di meditare sulla complessità dell'azione politica con grande lucidità mentale. Ne deriva l'utilizzo di una prosa rigorosa e curata, priva di abbellimenti retorici, che mira a comunicare con efficacia espressiva la visione pessimistica e amara elaborata da Guicciardini sulla vita, sull'uomo, sulla realtà.
A fondamento della riflessione guicciardiniana c'è il pensiero di governare la realtà razionalizzandola, operando delle scelte secondo ragione e non secondo gli istinti.
Questa saggezza si fonda sull'individuazione sia della complessità del reale, che secondo Guicciardini non è governato da nessuna norma generale ed eterna, sia della istintiva tendenza dell'uomo al suo interesse 'particolare' (individuale, di famiglia, o se è reggitore di stati, del proprio stato), a un utile che non può mai esser perso di vista e che viene perseguito e raggiunto tramite la 'discrezione', ossia una comprensione della realtà, delle cose, degli uomini, senza la quale ogni azione è destinata a fallire.
I Ricordi
Tali considerazioni si ritrovano nei Ricordi politici e civili, raccolta di riflessioni critiche su episodi della vita privata e pubblica che forniscono elementi per mettere a frutto l'esperienza e potenziare le capacità di 'discernimento' (comprensione della realtà).
Il primo gruppo dei Ricordi, circa 29 risalenti al tempo dell'ambasciata in Sna (1512-l518), si arricchisce di numerosi altri scritti nel 1523, raggiungendo il numero di 221 pensieri nella redazione attuale, allestita nel 1530. Il risultato è una raccolta di massime, frutto dell'osservazione e della conseguente meditazione sulla vita, sugli uomini, sulla società, sulle azioni politiche.
Nei confronti della natura umana Guicciardini non appare pessimista quanto Machiavelli, essendo convinto che gli uomini sono inclini al bene più che al male. Tuttavia è cosciente della loro fragile natura, soggetta a molte tentazioni, e per questo sostiene che debba essere regolamentata dalle leggi dei governanti. A livello individuale, Guicciardini consiglia l'impiego dell'astuzia per non rimanere vittima delle frodi altrui.
Scritti sulle forme di governo
Le simpatie politiche di Guicciardini, condizionate dalla sua appartenenza al ceto aristocratico, sono rivolte all'istaurazione di una repubblica governata da pochi saggi cittadini o all'insediamento di un principato, moderato dall'intervento degli ottimati. Attento all'osservazione della realtà, non vede un esito diverso rispetto al corso attuale della storia e rifiuta ogni sogno di unità della penisola che avrebbe danneggiato la tradizione di autonomie cittadine.
Queste opinioni sono contenute negli scritti dedicati a proposte di forme di governo come i due libri Del reggimento di Firenze, ultimati nel 1526, che in forma di dialogo prospettano i pericoli del regime tirannico e del regime popolare, promuovendo una forma di governo misto simile alla repubblica veneta e nelle Considerazioni sui discorsi del Machiavelli (1529), nelle quali condanna l'idea di poter seguire esempi di regimi politici nati in tutt'altre condizioni storiche.
La Storia d'Italia
Il suo lucido realismo lo spinge a prediligere l'attività di storico che si attua nella stesura della Storia d'Italia, scritta tra il 1537 e il 1541. Essa rappresenta il momento culminante dell'esperienza politica, civile e umana del Guicciardini e, snodandosi in forma annalistica, suddivide in venti libri la materia relativa al drammatico periodo della storia italiana compreso fra la morte di Lorenzo il Magnifico e quella di Clemente VII. La storia diventa per Guicciardini lo strumento di un insegnamento morale e filosofico che dà risalto alla dignità umana, capace di contrapporsi anche ai capricci della fortuna.
In questo quadro rispettoso dei canoni della storiografia umanistica spiccano i ritratti psicologici dei personaggi, i discorsi e le 'orazioni' a essi attribuiti, privi di retorica ma ricchi di grande incisività dettata dalla passione politica dello scrittore. Gli avvenimenti narrati, arricchiti dalla conoscenza diretta di molti personaggi descritti, dei quali l'autore riporta opinioni e motivazioni recondite, costituiscono il risultato di una vasta e accurata indagine sulle fonti documentarie, che vengono raccolte e confrontate. Alla prosa lucida Guicciardini affida il pensiero divenuto più rigoroso rispetto agli scritti precedenti. Per questo l'esito dell'opera è la storia della classe dirigente dell'epoca riproposta con un acume intellettuale sempre cosciente delle ripercussioni provocate dalla politica europea in Italia.
Storici minori
Il complesso panorama letterario del secolo è animato dalla produzione storiografica di storici minori, autori di trattatelli che celebrano interessi politici di corti o di personaggi specifici. Prosegue, inoltre, la produzione delle tradizionali cronache cittadine. Tra questi scrittori ricordiamo il fiorentino Donato Giannotti (1492-l573), legato agli ideali repubblicani e savonaroliani sconfitti dalle vicende storiche.
Esule e amico di Michelangelo, Giannotti sostenne l'idea che la salvezza della nazione italiana dipendesse dalla capacità di sviluppare un'azione politica autonoma capace di favorire risultati concreti. La sua attività di letterato umanista si tradusse nella composizione di due commedie: la Milesia, in terzine, e Il vecchio amoroso, in prosa.
Sulla scia del Giannotti si pone l'altro fiorentino ed esule repubblicano Jacopo Nardi (1474-l563), autore delle Istorie della città di Firenze. La vasta produzione di Paolo Giovio (Como, 1483 - Firenze, 1522), autore di opere in volgare e in latino, costituisce un esempio di storiografia assai ricca di informazioni, di descrizioni di battaglie, di biografie, di spunti sui fatti culturali.
Ricordiamo i Commentari delle cose de' turchi (1531), gli Elogia virorum illustrium (1548) e i quarantacinque libri Historiarum sui temporis (1550-l552). Quest'ultima opera fu ripresa da Camillo Porzio (Napoli, 1526-l580) con l'intento di continuarne la trattazione attribuendole il titolo di Storia d'Italia.
Il gusto per l'oratoria prevale nelle opere del fiorentino Pierfrancesco Giambullari (1495-l555), autore di una Storia d'Europa dall'877 al 947 e nella Istoria del regno di Napoli di Angelo di Costanzo.
Le critiche a Machiavelli
Nella seconda metà del secolo si andò diffondendo una storiografia e pubblicistica politica che prendeva spunto dalle polemiche seguite alla divulgazione delle idee di Machiavelli. Sebbene il pensiero del segretario fiorentino trovasse riscontro nelle vicende storiche italiane, la teorizzazione di una netta autonomia della politica dalla morale colpiva le coscienze scuotendole e privandole di quelle certezze fornite dagli insegnamenti della religione cristiana.
Lutero e la Riforma
Gli scritti e il nome stesso di Machiavelli furono messi al bando dalla Controriforma che non accettava la concezione di uno stato laico, frutto della semplice iniziativa umana, e rifiutava l'idea machiavelliana che la Chiesa potesse esser considerata responsabile della decadenza italiana. Ma in realtà quel modello rifiutato pubblicamente fu ripreso nelle forme più adatte ai nuovi stati assolutistici in nome di una 'ragion di stato' che giustificava ogni mezzo per il conseguimento di scopi superiori.
Un esempio della riflessione scaturita dalle teorie machiavelliane sull'autonomia della politica è costituito dall'opera storiografica di Paolo Paruta (Venezia, 1540-l598). Nei due scritti Della perfezione della vita politica (1579) e Soliloquio (1593-l594) egli esaminò il problema della conciliabilità dell'azione politica con la coscienza morale. Paruta fu cosciente che spesso la logica politica tralasciava ogni considerazione morale e poneva al cristiano continui dubbi sulla condotta da seguire. Di fronte a tali interrogativi Paruta non trovò alcuna valida soluzione a livello teorico e lasciò all'uomo di stato il compito di conciliare le leggi della politica con la sfera della morale in un confronto quotidiano.
Il tacitismo
Il rifiuto teorico accanto all'accettazione pratica della lezione machiavelliana diedero origine al tacitismo. Ispirandosi a Tacito, autore degli Annali nei quali si narrano le vicende degli imperatori romani, si riproposero, travisandone il contenuto, le analisi di Machiavelli che finirono per essere attribuite allo storico latino. La descrizione tacitiana della tirannide di Tiberio divenne un repertorio di massime, l'esempio del perfetto agire del sovrano assoluto del tempo, deciso e senza scrupoli, pronto a usare la violenza pur di ottenere i propri scopi.
La fortuna goduta dalle sue opere e l'imitazione del suo stile asciutto e privo di giudizi espliciti diedero vita a una serie di traduzioni realizzate tra fine Cinquecento e inizio Seicento dal fiorentino Bernardo Davanzati (1529-l606). Sulla scia del tacitismo si mossero storici cortigiani, come i fiorentini Benedetto Varchi, autore di una Storia (dal 1527 al 1538) e Bernardo Segni (1504-l558) con le Istorie Fiorentine.
Botero e La ragion di Stato
Al tacitismo si affianca, ed è da esso anticipata, la dottrina della 'ragion di stato' della quale fu grande teorico il piemontese Giovanni Botero (Bene Vagienna, Cuneo, 1540 - Torino, 1617). Secondo questa teoria, assai diffusa alla fine del Cinquecento, lo stato ha, per sua natura, una propria ragione, superiore alla morale alla quale si devono uniformare gli individui. Vissuto nella Comnia di Gesù pur non avendone presi i voti, Botero, nei dieci libri Della ragion di Stato (1589), riaffermò il primato della morale e della religione in campo politico. D'altra parte egli era consapevole che la pratica politica necessitava di larga autonomia e che le ragioni dello stato miravano al bene comune. Il compromesso tra religione e politica era individuato nella persona del principe prudente che con la sua moralità, la sottomissione alla Chiesa, le buone intenzioni del suo agire politico legittimava il proprio potere e trovava un valido alleato nella Chiesa cattolica. In questo modo si poteva governare con il consenso delle masse, doppiamente vincolate all'obbedienza per ragioni politiche e morali.
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