letteratura |
Oltre la negazione, l'inno
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Leopardi
suggerisce un dato antropologico fondamentale:
la sproporzione tragica
tra l'uomo e la realtà.
Tra la sublimità del suo sentire
e il senso del proprio limite.
E soprattutto come l'uomo
sia rapporto con l'infinito.
Fattore primo dell'antropologia leopardiana - o, per dir meglio, il primo fattore della modalità con cui in Leopardi, l'uomo osserva se stesso vivere - è quella che egli stesso chiama la «sublimità del sentire». Questa formula sta ad indicare la densità di emozione, di struggimento e di timore enigmatico causata dalla sperimentata sproporzione fra l'uomo e la realtà: una sproporzione doppiamente tragica; da un lato, infatti, alla grandezza dell'uomo la realtà sembra cinicamente opporre un limite che la dissolve mentre dall'altro alla vastità e all'imponenza della realtà corrisponde la minuta piccolezza, l'effimera banalità dell'uomo. L'inno leopardiano che più plasticamente esprime questa sproporzione, è l'ode Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima. In essa, Leopardi comunica in modo così potente questa «sublimità del sentire», che tutta la negatività sensistica in cui la sua opera parrebbe risolversi risulta posticcia e cerebrale. Il suo modo di esplicitare questa sproporzione lascia infatti indenne l'interrogativo che ci fa levare ogni mattina come «sprone che quasi ci punge sì che anche giacendo più che mai siam lungi dall'aver pace, o loco».
La verità del Leopardi non può consistere in una negazione. Essa consiste nel «misterio eterno dell'esser nostro» e nella domanda che conclude l'ode citata:
Natura umana, or come, / se frale in tutto e vile, / se polve ed ombra sei, tant'alto senti?
Qui, la coscienza del poeta si trova come avvolta da una penombra e dal suo duplice gioco. Se, infatti, le spalle vengono rivolte alla luce, la penombra sembrerà introdurre all'oscurità totale - e in tal caso all'oscurità spetta l'ultima parola -; se, invece, le spalle saranno rivolte all'oscurità, si dovrà dire che la penombra è il vestibolo della luce-cui spetterà, stavolta, l'ultima parola. Tuttavia, fra queste due posizioni la seconda è quella più adeguata al fenomeno, dal momento che la penombra non può essere spiegata dall'ombra. Ora questo è, a mio avviso, il vero messaggio che Leopardi reca circa l'esperienza umana. In tal senso si può dire che il genio è sempre profeta, in quanto esprime in modo inesorabile ciò cui l'uomo è destinato.
Certo, ognuno ricorda il:
vecchierel bianco, infermo, / mezzo vestito e scalzo, / con gravissimo fascio in su le spalle
il cui cammino termina nel nulla: «abisso orrido, immenso, / ov'ei precipitando, il tutto obblìa».
Tuttavia, il cammino non si ferma qui. Subito, il velivolo umano risale: «Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi», e, pochi versi oltre: «e tu certo comprendi».
A questi versi del Canto notturno fa eco il finale della bellissima poesia citata in apertura:
Come i più degni tuoi moti e pensieri / son così di leggeri / da sì basse cagioni e desti e spenti?
Ma nelle poesie citate (cui potremmo aggiungere, per l'immediata suggestione in cui i termini del dramma vi si esprimono, anche La sera del dì di festa) non si esprime solo questa «sublimità del sentire», che è il primo tratto del sentimento leopardiano dell'umano. In esse e anche il secondo tratto, che potremmo definire con la parola sogno, o, meglio, esaltazione. Il sentimento tragico-sublime della sproporzione fa della realtà una sollecitazione al «sogno umano».
La tragicità di Leopardi sorge perché la realtà fa sognare l'uomo, lo esalta, nel senso latino del termine-ossia, lo prende e lo estrae innalzandolo in tutta la sua statura -; dal suolo della realtà l'uomo, che è come accovacciato e dormiente, si solleva. La realtà, insomma, esalta l'anima umana, che diviene in essa un respiro sognante, che è ciò che fa vivere nonostante la sproporzione sofferta e la tragicità del sentimento.
Tale sproporzione diventa, in questa evocazione della vita come sogno, sorgente di vaste meditazioni, cui il genio di Leopardi sa dare spazi di immagini, di parole e di musicalità che non hanno paragone in tutta la letteratura italiana.
Credo che in tal senso l'inno leopardiano più tipico sia il Canto notturno, dove l'esaltazione consegue l'abisso medesimo, l'abisso del nulla «ov'ei precipitando, il tutto obblìa», leggiamo:
E tu certo comprendi / il perché delle cose, e vedi il frutto / del mattin, della sera, / del tacito, infinito andar del tempo. / Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore / rida la primavera, / a chi giovi l'ardore, e che procacci / il verno co' suoi ghiacci. / Mille cose sai tu, mille discopri, / che son celate al semplice pastore. / Spesso quand'io ti miro / star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al ciel confina; / ovver con la mia greggia / seguirmi viaggiando a mano a mano; / e quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / Che fa l'aria infinita, e quel profondo / infinito seren? che vuol dir questa / solitudine immensa? / ed io che sono?
Questa esaltazione del sentimento di sé rende la vita dell'uomo dominata da una tensione ad un ultimo risolutivo, da un «pensiero dominante», che può, ovviamente, prender volto nella donna amata, o nella contemplazione della natura, o nel pensiero rivolto al «volo delle etadi». Ogni uomo, pur senza rendersene conto, ha dentro di sé un'immagine che lo fa vivere:
Dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente; / terribile, ma caro / dono del ciel; consorte / ai lugubri miei giorni, / pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Ma questa esaltazione, o sogno, ha alla fine, per Leopardi, davvero la consistenza di un sogno - inteso stavolta nel senso deteriore del termine -. ½ sono, è vero, momenti in cui essa desta un'esperienza di felicità e di gioia, tuttavia sarà «finalmente un sogno»: tutto ciò che di attraente e di esaltante sorge nello scontro io-realtà ha l'inconsistenza del sogno. È un'amarezza che sorge nel cuore medesimo della gioia il terzo aspetto del sentimento leopardiano dell'umano. È quanto egli chiama la «rimembranza acerba».
e fia comna / d'ogni mio vago immaginar, di tutti / i miei teneri sensi, i tristi e cari / moti del cor, / rimembranza acerba.
Tale sentimento, che ha nell'inno Le ricordanze la sua documentazione più espressiva, fa parte, come gli altri due aspetti sopra ricordati, del contenuto della coscienza umana, cosicché si può dire non sussistere coscienza umana senza quella «rimembranza acerba». Val la pena di notare un particolare di questo sentimento: che, qualunque sia l'età dell'uomo, la giovinezza rimane il suo termine di paragone fondamentale, consapevole o inconsapevole. È nella giovinezza che tutta la vita appare un sogno, e in essa sta il momento più illusivo, e insieme più corrispondente al desiderio e all'attesa che è nell'uomo. Come sottolineano questi versi de La vita solitaria:
Amore, amore, assai lungo volasti / dal petto mio, che fu sì caldo un giorno, / anzi rovente. Con sua fredda mano / lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto / nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo / che mi scendesti in seno. Era quel dolce / e irrevocabil tempo, allor che s'apre / al guardo giovanile questa infelice / scena del mondo, / e gli sorride in vista / di paradiso. Al garzoncello il core / di vergine speranza e di desìo / balza nel petto; e già s'accinge all'opra / di questa vita come a danza o a gioco / il misero mortal. Ma non sì tosto, / Amor, di te m'accorsi, e il viver mio / fortuna avea già rotto, ed a questi occhi / non altro convenìa che il pianger sempre.
È quest'ultima nota che fa scaturire, per dir così, la connotazione morale e sociale dell'immagine leopardiana dell'uomo: il sentimento del mondo come ingiustizia: « e cieco il tuono /per l'atre nubi e le montagne errando, / gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro / in freddo orror dissolve», come si legge nell'inno Alla primavera o delle favole antiche. O, peggio, come si legge nel Bruto minore: « dunque degli empi / Siedi, Giove, a tutela?».
Ma la parola più sconsolante, riguarda il cinismo della natura: «Ne scolorò le stelle umana cura», leggiamo ancora nel Bruto minore. Sempre la natura, laddove il genio non abbia la dimensione religiosa, funge da quinta, imperterrita, al dolore e alla tragedia dell'uomo; viceversa, laddove l'artista, o il poeta, abbia un tratto religioso, la natura diventa parte del pathos umano della gioia come della tragedia. Infatti, la struttura poetica forse più compiuta e più vissuta, che è la Liturgia della Chiesa cattolica, trattiene in profonda unità dolore e gioia, attesa e delusione dell'uomo, male e bene, peccato e bene, esprimendo insieme la profonda unità di tutto ciò con la natura e i suoi ritmi.
Proprio per questa ingiustizia, perpetrata dal potere della realtà nei confronti dell'uomo, innocente o no, il mondo appare ripugnante, e «superba» «questa età»: dove «questa», nella descrizione che il poeta ne fa, sempre ne Il pensiero dominante, può benissimo valere per la nostra, «che di vòte speranze si nutrica» - la ideologia «vaga di ciance» - tutti parlano -, «e di virtù nemica; stolta, che l'util chiede» - tale è infatti l'unico criterio del nostro mondo-, «e inutile la vita / Quindi più sempre divenir non vede».
Ma la nostra indagine deve compiere ancora due passi. Leopardi va oltre la negazione. Nell'inno Aspasia leggiamo:
Raggio divino al mio pensiero apparve, / Donna, la tua beltà. Simile effetto / Fan la bellezza e i musicali accordi, / Ch'alto misterio d'ignorati Elisi / Paion sovente rivelar
La bellezza della donna richiama il poeta a qualcosa che sta oltre «raggio divino», così come la musica, che pare custodisca un «misterio d'ignorati Elisi», ossia un mistero di felicità. Ed è a quello, allora, che la bellezza femminile richiama:
Vagheggia / Il piagato mortal quindi la lia / Della sua mente, l'amorosa idea, / Che gran parte d'Olimpo in sé racchiude, / Tutta al volto ai costumi alla favella, / Pari alla donna che il rapito amante / Vagheggiare ed amar confuso estima. / Or questa egli non già, ma quella, ancora, / Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
L'uomo si innamora di quest'immagine che sta oltre il volto della donna, di questa sorgente di emozione che travalica la di lei ura, così come travalica ogni apparato musicale; Leopardi la chiama «la lia della sua mente», perché questa emozione, o richiamo, avviene dentro la coscienza, poiché obiettivamente non è il volto della donna a suggerire questa inferenza. Ne viene una confusione: l'uomo confonde infatti l'oggetto del vagheggiamento, scambiando la donna che ha davanti con ciò che la donna gli suscita dentro.
In Aspasia, è a questo «qualcos'altro» che l'uomo reca omaggio. E «alfin l'errore e gli scambiati oggetti conoscendo s'adira»: s'accorge di come la donna che ha davanti sia sproporzionata all'immagine che ella stessa destò in lui.
Ma se il limite della donna non definisce ciò che l'uomo è suscitato ad essere dalla sua presenza; se, cioè, il limite delle cose, di ciò che Leopardi incontrava nelle sue giornate, se il limite dello stesso universo che egli era solito contemplare non definiva la sua domanda, ciò implica l'introduzione di una parola suprema, «la» parola suprema per la ragione dell'uomo: la parola segno. La donna, nel caso di Aspasia, è dunque segno di qualcos'altro. Sia o non sia criticamente cosciente di ciò, l'uomo subisce il dinamismo con cui questo segno lo percuote. Se un uomo non è definito dal limite in cui si trova, perciò stesso afferma una presenza che lo richiama e lo suscita.
L'affermazione della realtà come segno è, a mio avviso, un tratto assai chiaro nella poesia del Leopardi. Dunque, l'affermazione di una sproporzione fra l'uomo e la realtà - la «sublimità del sentire» -, così come quell'esaltazione, o sogno, così come la «rimembranza acerba» che permane anche nei momenti migliori, possono, sì, essere rese oggetto di un giudizio negativo, ma tale giudizio rimarrà un'opzione, non una ragione. Se il limite non definisce ciò che si è, se un'attrattiva rimane aperta, ciò implica l'inevitabilità dell'affermazione di una Presenza misteriosa. E tale Presenza è così implicita nello sguardo che la ragione porta alla realtà, che Leopardi stesso, per un istante, ha finito col riconoscerLa: istante che gli studiosi di letteratura, almeno nell'epoca in cui io me ne interessavo attivamente, non mancarono di identificare come il più autentico dell'esperienza interiore di Giacomo Leopardi. Di un istante si tratta in cui non solo, come in Aspasia, la realtà, toccando l'uomo, lo rende cosciente di non essere definito dai limiti del suo rapporto con il reale, e dai suoi medesimi, ma in cui Leopardi è giunto anche a riconoscere questo «qualcos'altro». Ciò ha luogo nella mirabile ode Alla sua donna, dove, in un momento equilibrato e potente, Leopardi stende un inno non già a questa o quella donna, ma alla Donna, alla Bellezza, ossia a quell'amorosa idea che ogni donna gli suscita, e che qui viene intuita come presenza reale:
Cara beltà che amore / Lunge m'ispiri o nascondendo il viso, / Fuor se nel sonno il core / Ombra diva mi scuoti, / O ne' campi ove splenda / Più vago il giorno e di natura il riso
Qui, la negazione viene superata d'un balzo: «Viva mirarti omai / Nulla speme m'avanza»; ma prosegue: «S'allor non fosse, allor che ignudo e solo / Per novo calle a peregrina stanza / Verrà lo spirto mio ».
Metterebbe conto di leggere e commentare verso per verso, parola per parola, questo inno. Ma basterà leggere l'ultima strofa, una delle più belle preghiere della nostra letteratura:
Se dell'eterne idee / L'una sei tu, cui di sensibil forma / Sdegni l'eterno senno esser vestita, / E fra caduche spoglie / Provar gli affanni di funerea vita; / O s'altra terra ne' superni giri / Fra' mondi innumerabili t'accoglie, / E più vaga del Sol prossima stella / T'irraggia, e più benigno etere spiri, / Di qua dove son gli anni infausti e brevi, / Questo d'ignoto amante inno ricevi.
È stato leggendo questa sublime preghiera che, a quindici anni, mi s'illuminò tutto Leopardi. Questa Donna, questa Bellezza altro non è se non ciò che il cristianesimo chiama il Verbo, cioè Dio nella sua espressione: la Bellezza con la «B» maiuscola, la giustizia con la «G» maiuscola, la Bontà con la «B» maiuscola, è Dio. Ogni volta che leggo questa poesia un'evidenza mi conquista: in cosa consiste - mi chiedo - l'annuncio cristiano? In questo: che questa Bellezza non solo l'eterno senno che non ha sdegnato rivestire «di sensibil forma», non solo non ha sdegnato di «provar gli affanni di funerea vita», ma è diventata Uomo, e per l'uomo è morto. Non l'uomo è ignoto amante di Lui, ma Lui è l'ignoto amante dell'uomo. Così si apre il Vangelo di san Giovanni: «Venne tra i suoi e i suoi non lo ricevettero ».
Questa di Leopardi è, dunque una profezia, perché il genio è sempre profeta di Cristo. È la profezia di un ateo, il grido, milleottocento anni dopo quell'avvenimento, dal fondo dell'uomo all'incarnazione di Cristo. E richiama alla mente una poesia di Karol Wojtyla, che inizia così: «Io T'invoco e Ti cerco, Uomo - in cui la storia umana può trovare il suo Corpo. / Mi muovo incontro a Te, non dico 'Vieni' / semplicemente dico 'Sii'».
Il nesso di cui il cuore dell'uomo è fatto fa da sottofondo a tutto il discorso leopardiano, e anima tutta la parola che il grande sofferente Giacomo Leopardi ci dice: che l'uomo è niente, e che tutta la sua grandezza consiste nel rapporto con l'infinito.
Il «no», l'opzione leopardiana, mutuata dalle gnoseologie sensistiche dell'epoca, nasce da un'errata concezione della ragione intesa come misura del reale. La ratio rattrappita dell'uomo post-umanistico e post-rinascimentale, che procede a un'indebita identificazione.
Ma il reale esiste prima dell'uomo che lo pensa, perciò per sua natura la realtà è più vasta della misura della ragione. La ragione è una finestra spalancata sulla realtà: tanto sulla realtà del volto materno come sulla realtà che si nasconde dietro il segno dell'universo e di ogni cosa: l'infinito, il mistero, Dio. La ragione è un abbraccio senza fine alla realtà, ossia essa è il cuore dell'uomo. In questo concetto di ragione, ogni istante è novità, ricchezza, amore; viceversa, se la ragione è misura delle cose, ogni momento è tenebra, sepolcro.
Siamo stati sepolti vivi nella cultura post-rinascimentale, illuminista, razionalistica moderna. E Leopardi ne fu una vittima. La sua ragione era davvero il suo cuore, quello che gli faceva gridare il Canto notturno, o invocare: «Dolcissimo, possente, dominator di mia profonda mente », quello che gli aveva dettato l'inno Alla sua donna.
Egli non ebbe un incontro amico che gli rendesse facile, o più facile, questa osservazione ovvia. Egli fu sempre, come direbbe sant'Agostino, «fugitivus cordis sui», lontano dal suo cuore.
Infine, forse, si può aggiungere una riflessione. Leopardi, il cui senso etico si mostrò fortissimo in certe situazioni, ebbe forse un'ultima banda d'animo in cui era fragile anche eticamente. L'ho pensato leggendo questa frase sul diario di Franz Kafka: «Non bisogna buttarsi via; anche se la salvezza non viene, voglio esserne degno in ogni momento».
È l'obbedienza al «Vigilate» del Vangelo.
Forse, Leopardi non trovò un'amicizia che lo rincuorasse fino a questo punto.
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