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PROPAGANDA POLITICA IN BOIARDO, ARIOSTO E TASSO
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a dimensione politica all'interno dell'Italia è sempre stata, fin dal Medioevo, sempre presente e particolare, nel senso pieno del termine: il particolarismo era purtroppo una mentalità e di conseguenza gli stessi partiti politici risentivano della grettezza nel modo di pensare dell'uomo del tempo. Non possiamo negare, infatti, che ancora oggi il frazionamento delle idee politiche degli Italiani ha portato a situazioni difficilmente risolvibili ed agli stessi politici è difficile barcamenarsi in questo universo di partiti, grandi e piccoli, alleanze e poli, che hanno l'intento di non permettere all'Italia di adagiarsi sul fondo dell'immobilismo politico dettato da una sola fazione politica, ma che effettivamente la immobilizzano a causa della loro massiccia quantità. Purtroppo è una situazione congenita ed ormai antica: come non pensare alle vicende politiche di Dante o di Machiavelli? Ma anche ai più piccoli frammenti di Stato, regno, ducato o repubblica, presente nel suolo italiano fino al secolo scorso? (Un frazionamento che forse non siamo ancora riusciti a superare e che continua a vivere nei nostri dialetti e nelle folli imprese di qualche partito secessionista).
Ogni capo di Stato, specialmente fra i monarchi del Rinascimento, aveva una sua corte e dei suoi poeti che ne celebravano le gesta, in modo da offrire gloria e notorietà al proprio 'datore di lavoro', nonché, soprattutto, di stipendio, alimentando così il fenomeno del mecenatismo, rinato dopo alcuni secoli di assenza. Con mutuo interesse, il sovrano e l'intellettuale si impegnavano a rispettare questo patto, anche se molto spesso, prevedibilmente, era soprattutto il sovrano a trarne maggior profitto, non senza che l'intellettuale talvolta decidesse di abbandonarlo. In ogni caso è proprio in questo periodo che fioriscono dediche ai signori sulle maggiori opere letterarie e poemi cavallereschi con motivi encomiastici. Proprio perché saranno soprattutto i poemi cavallereschi l'oggetto di questa analisi, è bene ricordare alcuni punti principali della loro diffusione e delle loro caratteristiche. Già dal Trecento, circolavano in Italia i cantari, ovvero raccolte delle vicende di Orlando o di altri paladini, con la fondamentale caratteristica di fondere insieme due generi fino ad allora contrapposti: il ciclo carolingio e il ciclo bretone, entrambi di origine francese. L'uno prendeva il nome da Carlo Magno, dato che venivano raccontate le imprese dei suoi paladini, ed era quasi esclusivamente rivolto all'elemento guerresco delle vicende, con un preciso messaggio morale che coincideva con un messaggio cristiano, dunque con una rigida struttura lineare; l'altro, invece, prendeva il nome dalla Bretagna, luogo in cui si svolgevano le vicende, o da re Artù, re alla cui corte vivevano i protagonisti delle vicende, ed era rivolto all'esaltazione dell'amore, dell'esperienza sensuale e della dimensione erotica, dunque con una struttura libera in favore delle numerose avventure che il paladino doveva affrontare per compiere la sua quête. Questa fusione, però, avveniva a livello orale e indubbiamente popolare, di modo che lo stile adottato era sicuramente medio-basso per andare incontro alle capacità di fruizione delle masse, che ascoltavano queste vicende nelle piazze, altro particolare che ne giustifica la breve durata, almeno all'inizio. Con la diffusione della stampa, nel Quattrocento, la destinazione dei poemi carolingi poteva essere ancora orale e pubblica, ma, trattandosi ormai di libri, si prestavano anche alla lettura privata, ovviamente per chi poteva permetterseli. Ma, verrebbe da chiedersi, perché si diffusero proprio a Ferrara? Essenzialmente per tre ragioni: perché i cicli francesi passati dal Veneto, dove si erano diffusi in lingua franco-veneta, raggiunsero la ricca biblioteca di Ferrara; perché questa aveva intensi contatti con la Francia per interesse economici e perché si trovava su una via che collegava direttamente la Francia all'Italia meridionale.
Il primo intellettuale alla corte ferrarese che operò la fusione dei due filoni, ad un alto livello letterario, fu sicuramente Matteo Maria Boiardo (1441-l494), il cui famosissimo poema cavalleresco si intitolava Orlando innamorato proprio in onore della presenza nell'opera di due generi prima contrapposti, quello d'armi e quello di amori. Orlando, infatti, è il protagonista delle imprese guerresche alla corte di Carlo Magno, ma in quest'opera Boiardo vuole mettere in evidenza il carattere erotico e avventuroso delle vicende che concentrano l'attenzione sull'elemento romanzesco (cioè riguardante le avventure dei paladini che compiono la loro quête interiore) e su quello edonistico. Il fine principale dell'autore, infatti, era quello di raccontare una «bella istoria» al pubblico di cortigiani, come possiamo notare in primo luogo nell'incipit del proemio («Signori e cavalier che ve adunati») e dai frequenti richiami al suo pubblico («state attenti e quïeti, ed ascoltati»). Un pubblico sappiamo circoscritto ai gentiluomini e alle dame di corte e forse più precisamente alla sola corte di Ferrara, come possiamo notare dal linguaggio usato nel poema, ricco di espressioni e idiomi tipici di quella area geografica, o al massimo comune alla sola area padana, come se Boiardo non si fosse minimamente preoccupato di un futuro successo oltre i confini della sua corte, ma anzi avesse scritto la sua storia esclusivamente per l'élite cortigiana ferrarese. Lo testimonia il proemio: nelle prime ottave del libro I, infatti, in assenza di ogni invocazione sia a una guerra santa da combattere per la difesa e la salvezza della cristianità che un qualsiasi mecenate principesco committente dell'opera, non risalta altra volontà che quella edonistica di narrare per il piacere di chi ascolta non meno che di chi canta i «gesti smisurati», «l'alta fatica» e le «mirabil prove / che fece il franco Orlando per amore». L'Orlando Innamorato era composto di tre libri, dei quali il terzo non finito, e, fatta eccezione dei pochi passi iniziali sulla guerra fra ani e cristiani, fungenti innanzitutto da necessaria contestualizzazione, il libro I è tutto costruito intorno alla storia di Orlando innamorato, come notiamo alla fine della terza ottava: «Dico, di Orlando, il cavalliero adatto / non più parole ormai, veniamo al fatto».
Notiamo la grande assenza dell'invocazione al committente, in un'opera che, tutto sommato, contiene un motivo encomiastico, visto che celebra la casata degli Este, impersonata dal duca Ercole d'Este. Non dobbiamo dimenticarci che l'attività di Boiardo (come Ariosto e Tasso) si colloca in una Ferrara che trascorre un particolare momento politico: all'epoca di Boiardo, Ferrara si stava lentamente espandendo e cercava una posizione di egemonia all'interno di quella miriade di staterelli che frazionavano l'Italia; infatti, in questo periodo stava affrontando una guerra contro la potente Repubblica Veneta, la Serenissima, e al duca avrebbe fatto molto comodo usare il poema cavalleresco boiardesco per una sua proanda politica. È evidente, però, che l'autore non è affatto della stessa idea, anzi sembra ripugnare il fatto che nella sua opera dovesse entrare violentemente la dimensione attuale e politica come voleva il suo signore. Lo testimonia sempre il proemio, che non accenna, come abbiamo detto, in nessun modo al proprio committente: Boiardo preferirebbe essere totalmente libero da questo obbligo e continuare a raccontare le sue storie sulle avventure amorose dei suoi paladini, deliziando la corte ferrarese. Fin nei suoi limiti egli lo fa, cioè cerca sempre di far passare sempre in secondo piano l'aspetto encomiastico, poco presente nell'opera, ma in questo modo sarebbe contravvenuto al vincolo di mecenatismo tra lui ed Ercole d'Este: per continuare la sua attività letteraria stipendiata alla corte del duca avrebbe dovuto inserire della proanda politica. Boiardo ubbidisce. Inoltre il Boiardo poeta, sebbene a malincuore, doveva assumersi i debiti del Boiardo feudatario verso il suo signore, come se per lui il duca non fosse solo capo politico e militare dello Stato che era obbligato a servire, ma soprattutto primus inter pares di quella corte e dell'ambiente cortigiano al poeta tanto caro; principe dei soli 'trattenimenti' cortigiani per i quali compone i suoi canti. Non a caso Ruggero, nel poema capostipite della casata d'Este, e il III libro, in cui il motivo encomiastico avrebbe dovuto spiccare il volo, sono quasi solamente accennati e inoltre il tenue motivo encomiastico si inserisce violentemente (sintomo dei sentimenti del poeta) ed estraneo al contesto: certo, è pur vero che fu la discesa di Carlo VII a costringere Boiardo ad interrompere il poema, ma è anche vero che il poeta si dedicò veramente poco alla stesura dell'ultimo libro, che di conseguenza procedeva a rilento, proprio perché l'autore era veramente riluttante nell'assolvere il suo compito politico. Al di là di questo, comunque, non possiamo non riconoscere, come abbiamo detto, che nel periodo in cui si colloca Boiardo, la potenza ferrarese era solamente agli albori, e forse era meno sentito, anche se presente, il bisogno di proanda politica all'interno di un'opera letteraria.
Ferrara cresce e nel '500 raggiunge l'apice del suo splendore, occupando una posizione preminente sia in campo politico che in campo artistico e letterario, anche se l'atteggiamento dell'intellettuale verso la corte non cambia. Essendo nel pieno del Rinascimento, quasi tutte le opere, in questo caso i poemi cavallereschi, si coprono di dediche e di invocazioni a committenti per intenti encomiastici, cioè questa procedura diventa una norma a cui difficilmente si poteva scampare e l'unico modo che rimaneva allo scrittore di ribellarsi a questo obbligo era solo proseguire una ribellione nascosta tra i propri versi: analizzando il poema di Ariosto, l'Orlando Furioso, possiamo notare la sua posizione all'interno della corte estense. Seguendo l'esempio di Boiardo, Ludovico Ariosto (1474-l533) fonde insieme il genere epico e il genere cavalleresco, ottenendo un poema che si conura come una 'gionta' (aggiunta e continuazione) dell'Orlando innamorato, visto che ne riprende la trama e la arricchisce con nuove vicende. Nell'opera ariostesca, però, la fusione dei due generi è molto più significativa che in Boiardo anche perché Ariosto si presenta come un'eccellente regista delle vicende: a causa del carattere avventuroso dell'opera, sono presenti tantissime storie parallele, anticipazioni, trapassi e riprese che avrebbero potuto rendere la materia confusionaria e caotica, se pensiamo al fatto che l'autore inserisce anche l'elemento epico. Ariosto, però, come abbiamo detto, è un ottimo regista, una specie di Demiurgo che riesce a riportare l'armonia all'interno di questa materia altrimenti così vasta e varia (d'altronde varia e labirintica come la vita, secondo la filosofia del poeta), soprattutto grazie ad una tecnica già usata in altri autori, ma qui ripresa in maniera così efficace e sorprendente da renderla fondamentale per il proseguimento del racconto: l'entrelacement. Le varie avventure, o «errori» (nel senso pieno di 'errare' e di 'vagare') coinvolgono ogni personaggio e gli permettono di intraprendere una quête, che però risulterà alla fine sempre vana, perché la Sorte compenserà il cavaliere sempre con un oggetto sostitutivo a quello della sua ricerca: chi non si vorrà sottomettere ai capricci della sorte si sclerotizzerà, come Orlando che vede il proprio equilibrio psichico frantumarsi quando si accorgerà che Angelica, la donna tanto amata, tanto desiderata e per cui ha affrontato tante battaglie ed avventure, è ormai di un altro, Medoro, un cavaliere ano fino ad allora quasi sconosciuto agli occhi del lettore; e Orlando, infatti, impazzirà.
Non a caso, nel poema c'è solo un personaggio che porterà a termine il proprio vagare e la sua avventura si concluderà con un lieto fine: Ruggero, il paladino che già in Boiardo simboleggiava la casata d'Este, visto che rappresentava il capostipite della famiglia regnante. In Ariosto il tema encomiastico è ben presente e l'autore non si sottrae al suo obbligo, almeno formalmente, e al contrario di Boiardo non si dimentica di inserire fin dal I canto l'invocazione al proprio committente, il Cardinale Ippolito d'Este, come destinatario dell'opera: «Piacciavi, generosa Erculea prole, / ornamento e splendor del secol nostro, / Ippolito, aggradir questo che vuole / e darvi sol può l'umil servo vostro». Già da questo verso, però, non si può non notare che il poeta abbia voluto usare una sottilissima ironia nell'identificare se stesso, come se intendesse dire che lo stipendio ricevuto è così esiguo da permettergli di scrivere al suo signore solo un poema cavalleresco per onorarlo. Ma l'ironia si fa un po' più forte nei versi successivi che sembrano voler attaccare il suo amato signore: «vi farò udir, se voi mi date orecchio / e i vostri alti pensier cedino un poco». Molto spesso si è sottolineato come Ariosto abbia raggiunto una eudaimonìa e un equilibrio interiore tale da essere definito un 'autore in pantofole', cioè cortigiano. In realtà, Ariosto cortigiano non lo è affatto: anzi, in molte sue opere, tra cui il Furioso, critica aspramente non solo i cortigiani, ma anche l'autorità, personificata dal Cardinale. Purtroppo però, è bene ricordare, Ariosto sapeva benissimo che a quel tempo la corte era l'unico centro propulsore di cultura laico, ed abbandonandola non avrebbe ricavato nessun vantaggio, anzi avrebbe perso la possibilità di continuare il suo studio e la sua attività letteraria; perciò tutte le sue decisioni saranno prese in funzione di questa consapevolezza. Non ha nessuna scelta: rimane nella corte, anche se questo gli costa molti doveri, spesso politici, come il governatorato in Garfagnana, che comunque assolve in maniera eccellente. Che Ariosto preferisse l'otium, mentre era obbligato al negotium e quanto gli pesasse questa sua condizione è evidente nella Satira I, preziosissimo documento in cui il poeta dichiara esplicitamente di odiare i suoi incarichi politici (che però gli fruttano lo stipendio, sebbene esiguo), quando dice «[il Cardinale] non vuol laude sua da me composta / per opra degna di mercé si pona; / di mercé degno è l'ir correndo in posta». È chiaro come la sua attività letteraria sia tenuta in poca considerazione, tanto che «egli l'ha detto: io dirlo a questo e a quello / voglio anco, e i miei versi posso a mia posta / mandarli al Culiseo per lo sugello»: con amarezza Ariosto si rende conto della sua situazione. L'unico modo di far fronte a questa realtà è accettarla, magari con quello sguardo ironico, che nelle sue opere provoca un effetto di straniamento. Con questi presupposti è chiaro in che modo egli possa comportarsi riguardo al dovere di proanda politica nel suo poema cavalleresco. La casata d'Este, in questo momento storico, ha forse più bisogno di questa proanda nelle opere dei suoi intellettuali, ma nell'Orlando Furioso troviamo uno scrittore che vuole prendersi una rivincita personale per mezzo dei suoi versi, considerati tanto inutili dal suo signore: al contrario di Boiardo, Ariosto è quasi obbligato ad inserire il motivo encomiastico, ma, oltre all'ironia, si serve di un'altra arma per demitizzare gli Este, il romanzo. Abbiamo già visto come nel Furioso siano presenti il genere epico e quello cavalleresco, ma è anche vero che Ariosto sembra trascurare l'elemento epico per favorire quello romanzesco e questo con un preciso obiettivo da parte dell'autore. Sappiamo come l'epica tende a celebrare una civiltà, e con questo intento ad Ariosto è affidata la celebrazione dello Stato ferrarese davanti ai suoi rivali politici, ma per chi sa leggere tra le righe, la presenza massiccia del filone d'amori vuole proprio neutralizzare l'effetto del filone d'armi: così come questo deve celebrare miticamente un popolo, l'altro smitizza i suoi valori e ne fa oggetto di ironia. In questo modo Ariosto formalmente sembra aver assolto il suo compito politico, ma in realtà ha ottenuto l'effetto contrario.
Alla fine del '500, ormai, la potenza ferrarese è in declino e mai come in questo periodo le risulterebbe vitale la collaborazione di un suo intellettuale nell'ardua impresa di risalire all'antico splendore grazie alla tanto problematica proanda politica in un poema cavalleresco. Questa contestualizzazione storica intersecandosi con la personalità instabile di un poeta come Torquato Tasso (1544-l595), dà come risultato la Gerusalemme Liberata. Mai come in Tasso, fino a questo periodo, si è incontrato un intellettuale così insicuro e fragile: la sua psiche è infatti così tormentata da costringerlo a trascorrere la vita in cerca di protezione, in cerca di un luogo dove poter riposare e sottrarsi ai tormenti (che però provengono dalla sua mente). Dunque anche in questo personaggio ritroviamo quell'amore-odio verso l'ambiente cortigiano, ma gestito in maniera molto diversa da Ariosto, visto che Tasso non possiede affatto quell'armonia e quell'equilibrio presenti nell'autore del Furioso. Tasso infatti ama la corte proprio perché adora esser 'corteggiato', ma quando scopre quale realtà si cela dietro quella allegra facciata, il suo equilibrio, faticosamente raggiunto, si spezza, lasciandolo precipitare. In fondo egli è il risultato dell'epoca in cui vive, dilaniata dalla dicotomia fra la Riforma morale della Chiesa Cattolica, che imponeva le sue norme rigide in ogni aspetto della vita dell'individuo, e il lascito dell'età rinascimentale, cioè il desiderio di libertà, la ricerca edonistica del Bello e della Natura: Tasso si è formato in ambito rinascimentale, ma su di lui grava anche il peso della sua religiosità tormentandolo dall'interno, come per esempio dimostra il fatto che nel suo poema, nonostante scelga l'unità aristotelica in favore del tema guerresco, troviamo forse le più intense ine d'amore della letteratura italiana. Nel proemio, infatti, egli comincia: «Canto le armi pietose e'l capitano», dando la precedenza assoluta all'elemento epico rispetto a quello romanzesco, in favore del motivo encomiastico, che, al contrario di Ariosto e Boiardo, Tasso sente come molto forte, quasi prorompente e divino perché rivolgendosi al suo committente, Alfonso II d'Este, lo esalta alla maniera di un eroe santo («queste mie sectiune in lieta fronte accogli, / che quasi in voto a te sacrate porto»), invitandolo ad intraprendere una -anacronistica- nuova crociata quando invoca «emulo Goffredo, i nostri carmi / intanto ascolta, e t'apparecchia a l'armi». Questo atteggiamento suggerisce un intento, se non studiato, dell'autore: il servilismo. Un atteggiamento che però deve portare ad un preciso scopo, cioè la protezione del sovrano nei confronti del povero «peregrino errante», che pensa di poter porre fine ai turbamenti del suo animo trovando conforto nella corte ferrarese, a patto però di portare a termine una spregiudicata camna di esaltazione del suo signore che, come abbiamo detto, ha un estremo bisogno di servirsi dei suoi intellettuali e giocare tutte le sue sectiune per riacquistare l'egemonia perduta. Tasso, però, è un personaggio difficile da manovrare, proprio a causa della sua personalità malferma. Sicuramente la condizione psicologica dello scrittore lo rende forse inconsapevole del suo atteggiamento verso il sovrano, poiché tutto teso spontaneamente al suo encomio: la lacerazione è così profonda che Tasso pronuncia con estrema sincerità questi versi, poiché fortemente persuaso che l'aiuto di Alfonso possa recargli giovamento e ristoro dalle sue pene. Ma la sua stessa personalità, vulnerabile agli attacchi della psiche, è anche estremamente suscettibile, tanto da rendere difficoltosa al duca la possibilità di manovrarlo per intenti politici: anzi, sarà proprio per questa causa che Tasso verrà 'immolato'. Non fu solamente l'omicidio di un cortigiano, ammazzato perché sospettato di origliare a una sua conversazione, ma furono anche altri motivi che portarono Alfonso d'Este ad esiliare il poeta nel convento di S. Francesco: il duca, infatti doveva allontanare da sé ogni tipo di sospetto della Chiesa, già 'innervosita' dalle relazioni della madre di Alfonso con l'ambiente protestante. L'unico modo per Tasso di farsi accettare era assecondare il progetto politico degli Este mediante un certo servilismo encomiastico nel suo poema.
Una adulazione che però non ci è nuova: già Machiavelli indirizza, come possiamo leggere nella dedica al Principe, un discorso dettato da un atteggiamento non troppo diverso da quello di Tasso. Lo scrittore fiorentino si rivolge al principe Lorenzo de' Medici (il nipote di Lorenzo il Magnifico), in questo modo: «Desiderando io, adunque, offerirmi alla vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato, intra la mia suppellettile, cosa quale io abbi più cara o tanto esìstimi quanto la cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique». La condizione politica di Machiavelli è però ben differente poiché chi sta parlando in questa dedica è un politico sconfitto dacché, già esponente della Repubblica Fiorentina, è costretto all'esilio in seguito ad un colpo di mano che permise alla corte medicea di ritornare in città e di esiliare i suoi avversari politici. Sebbene anche in Tasso troviamo questo atteggiamento in attesa di qualcosa in cambio, in Machiavelli non possiamo che notare la lucidità e in qualche modo il distacco di un avversario politico che mette da parte le sue ideologie di partito per chiedere dignitosamente di rientrare ad occupare quell'attività per lui così fondamentale e vitale, cioè la politica. Una dignità che invece non ritroviamo in Tasso, anche per il fatto che questi non ammette pubblicamente l'altra faccia della medaglia del suo servilismo (sebbene, ripetiamo, questo non era in lui simbolo di falsità e ipocrisia, perché interiormente portato ad esaltare il suo signore), mentre nella dedica al Principe il messaggio è palese: «E se Vostra Magnificenzia dallo apice della sua altezza qualche volta volgerà gli occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità della fortuna».
[testi citati:
'Orlando Innamorato' di M. M. Boiardo; canto I, libro I
'Orlando Furioso' di L. Ariosto; canto !, libro I
'Satira I' di L. Ariosto
'Gerusalemme Liberata' di T. Tasso; canto I, libro I
Premessa a 'Il Principe' di N.. Machiavelli
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