letteratura |
Il Neorealismo non fu una scuola. (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite della letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l' una all'altra - o che si supponevano sconosciute - , senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato «neorealismo». Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dar sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in quegli scrittori degli anni '30 di cui tanti critici ci rimproveravano di essere gli allievi diretti o indiretti. Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro realismo che doveva essere il più distante possibile dal naturalismo. Ci eravamo fatta una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia Conversazione in Sicilia Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e dal proprio paesaggio. [ . ]
Indirizzo, emerso in Italia tra il 1945 e il 1955, nato come opposizione ideologica e letteraria al fascismo, cronaca e testimonianza della II guerra mondiale e della Resistenza, celebrazione dell'antifascismo quale valore di massa da assumere come guida morale per l'età della ricostruzione. Esso espresse una concezione della cultura quale strumento capace di incidere sulle coscienze e di ordinare l'esperienza collettiva, intervenendo nelle sue contraddizioni di carattere politico e sociale, contrassegnata dall'assunzione di uno stile per lo più realista, animato da una visione del mondo e dei fatti sociali mediata da un'ideologia di stampo populista, spesso echeggiante temi marxisti. Rispetto alla letteratura come prosa d'arte o come celebrazione retorica degli anni del fascismo, il n. sollevò il dibattito sulla situazione dell'uomo e dell'intellettuale; quest'ultimo, in particolare, intese farsi portatore della riscoperta del mondo contadino e della sua cultura e, in seconda istanza, dei valori primigeni delle classi subalterne. Non a caso, il n. coincise con la scoperta e la pubblicazione degli scritti di Gramsci, che denunciavano la mancanza di una letteratura autenticamente nazional-popolare. L'aspetto ideologico del n. si concretizzò anche nell'assunzione della parlata popolare come arricchimento del linguaggio colto: alla fine, l'utopia del n. fu la sintesi fra le due culture, quella delle classi dominanti e quella delle classi subalterne. Il n. si riallacciò ad alcune prove del ventennio fascista (Gli indifferenti di Moravia, Tre operai di Bernari), fino alle esperienze di Pavese e Vittorini, acquisendo per loro tramite il contributo della letteratura americana. Al n. aderirono inoltre Jovine, Levi, Cassola, Calvino, Pratolini, Fenoglio, Scotellaro, per alcuni dei quali il clima neorealista costituì solo una tappa per successive esperienze personali.
Nel campo del cinema la tendenza neorealistica presente nella società italiana del secondo dopoguerra si affermò in modo particolarmente brillante e deciso (tanto che i veri "narratori", a giudizio anche di letterati, diventarono i nostri cineasti). Il n. come movimento unitario e dominante non ebbe, anche perché fortemente ostacolato in patria (l'accusa di esibire i "panni sporchi", la censura, ecc.), lunga durata: i suoi limiti temporali potrebbero essere fissati tra il 1945, quando uscì Roma città aperta di Rossellini, e il 1952, quando Umberto D. di De Sica-Zavattini cadde in un'atmosfera ostile e Due soldi di speranza di Castellani, indicato come contraltare, aprì la strada a un'inversione della tendenza e al capovolgimento dei suoi valori morali e sociali. Il n. venne definito in Francia "Nuova scuola italiana", Hollywood gli tributò i suoi Oscar (Sciuscià nel 1948, Ladri di biciclette nel 1950), molte cinematografie nazionali in tutti i continenti, dalle Americhe all'Asia, dall'Europa all'Africa, ne avrebbero, presto o tardi, accettata la lezione. Il n. fu anzitutto un'esplosione di libertà dopo le costrizioni e le mistificazioni del ventennio fascista, una rottura col passato, una scoperta dell'Italia reale solo vagamente anticipata in qualche film precedente, un giro d'orizzonte sui disastri della guerra, una rivalutazione sotto l'impulso innovatore di uno sguardo fresco, senza artifici e pregiudizi, dell'uomo contemporaneo nel suo esistere quotidiano e nella sua parte nella vita, nella società e nella storia. Questo slancio si nutrì di spontaneità, di coerenza e, pur nella diversità degli approcci, di una tensione univoca che non si sarebbe più ritrovata nel cammino del nostro cinema. Non dunque una tecnica particolare (riprese "dal vero" con interpreti "presi dalla strada"), né un solo linguaggio o stile (quello di Visconti essendo, p. es., agli antipodi di quello di Rossellini), né contenuti scelti, proposti o sviluppati secondo una stessa matrice, caratterizzarono il n.; bensì il comune atteggiamento di fronte a una realtà nuova e inedita al cinema (donde il prefisso neo al termine realismo, almeno secondo l'interpretazione più semplice e sensata), il comune spirito nell'affrontarla, esplorarla, rivelarla quale passaggio essenziale e indilazionabile verso qualsiasi opera di rinnovamento e ricostruzione del Paese. In questo senso, ciascun regista o sceneggiatore si dimostrò in possesso di una propria visione della realtà e dei suoi problemi, ma tutti insieme, dai maggiori ai minori che parteciparono di tale corrente, concorsero a fare un cinema che per la prima volta cominciò a misurarsi con alcuni dei grandi temi della nazione, ponendosi (sia pure più o meno genericamente) dalla parte del popolo. Le opere (e gli autori) maggiori del n. sono: la cosiddetta "trilogia della guerra" di R. Rossellini (Roma città aperta, 1945; Paisà, 1946; Germania anno zero, 1947); La terra trema (1948) di L. Visconti; i film di De Sica-Zavattini Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1950), Umberto D. (1951-52). Tra i registi che in modo più o meno incisivo parteciparono al rinnovato clima del dopoguerra vanno annoverati A. Vergano, G. De Sanctis, L. Zampa, P. Germi, A. Lattuada e altri. Tra gli sceneggiatori, oltre a C. Zavattini, il più importante fu S. Amidei; ma vanno citati anche V. Brancati, S. Cecchi D'Amico, P. Tellini e, tra quelli poi passati alla regia, F. Fellini, C. Lizzani, A. Pietrangeli, G. Puccini e altri.
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