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Il negozio come strumento di azione amministrativa
L'utilizzo di modelli negoziali da parte delle Pubbliche Amministrazioni (da intendersi esemplificativamente, quelle di cui all'art. 1, d.lgs. 29/93) da luogo a un duplice ordine di questioni.
La prima questione è quella relativa all'esistenza in capo a ciascun ente pubblico di una generale capacità di diritto privato. La risposta affermativa, sul punto, è da ritenersi un dato ormai acquisito in dottrina; e anche in giurisprudenza (Cass., S.U. 16 aprile 1952, in Foro pad., I, 950; Cons. St, sez. VI, 4 dicembre 2001 n. 6073). Essa però significa soltanto che le pubbliche amministrazioni come soggetti di diritto comune, possono essere titolari di diritti ed obblighi ed altre situazioni soggettive nell'ambito dei rapporti di diritto comune, ricevere donazioni, eredità, legati, stipulare contratti, nell'ambito della gestione privata di beni e di rapporti che a loro fanno capo. Si tratta di attività non direttamente connesse alla funzione di amministrazione in senso tecnico, come cura concreta degli interessi pubblici; attività di gestione privata si potrebbe dire secondo la terminologia in uso in Francia.
Altra questione è quella della possibilità di utilizzare modelli civilistici come strumenti di azione amministrativa, vale a dire come attività di servizio per gli interessi della collettività. A questo proposito, anche se non è mai stato pienamente chiarito in dottrina, si può definire come prevalente nella nostra tradizionale impostazione, l'opinione contraria, scolpita nelle limpide parole di Cammeo: 'il diritto pubblico è il diritto comune, ordinario per i rapporti fra individuo e Stato', i quali devono dunque 'presumersi regolati dal diritto pubblico, se non v'è espressa e chiara ragione in contrario' (Corso di diritto amministrativo, Padova 1960 [rist. Miele], 51 ss.).
Per i compiti di amministrazione, la regola è l'uso del diritto amministrativo, l'eccezione l'uso del diritto privato, secondo una caratteristica propria della nostra esperienza italiana, che differisce da quella omologa francese probabilmente a causa della diversa impostazione del sistema di tutela: nel nostro ordinamento la legge del 25 marzo 1865 n. 2248 all. E ha organizzato detto sistema in modo da trasferire tutta la materia contrattuale delle pubbliche amministrazioni alla competenza del giudice ordinario ('tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile', art. 2) e quindi in modo da conurare la stessa materia in senso spiccatamente privatistico; a differenza di quanto è avvenuto in Francia, dove i contrats administratif hanno sempre rilevato come 'actes de gestion publique' (CHAPUS) e sono tradizionalmente sindacati dal giudice amministrativo. Per citare una espressione rimasta celebre, nell'esperienza francese 'tout ce qui concerne l'organisation et le fonctionnement des services publics, soit que Padministration agisse par voie de contrats, soit que procede par voie de autorité, constitue une operation administrative, qui est, par sa nature, du domaine de la juridiction administrative' (Romieu, Arrest Terrier, 1903).
Insomma, nell'esperienza francese, contratto e provvedimento vengono concepiti entrambi come strumenti di azione amministrativa e ascritti perciò all'ambito della giurisdizione amministrativa; mentre nell'esperienza italiana, segnatamente a seguito della scelta del 1865 per la giurisdizione unica, il contratto della p.a. veniva comunque attratto (anche dopo l'instaurazione e il successivo consolidamento della giurisdizione amministrativa) nell'ambito della giurisdizione ordinaria, cioè tendenzialmente nel diritto comune. E perciò l'idea del contratto come strumento di amministrazione, al pari del provvedimento, purché inteso alla cura di interessi generali (service public), da noi non ha potuto attecchire; e per converso, l'area del provvedimento si è estesa via via a settori d'azione tipicamente contrattuale.
In tempi recenti, tuttavia, la risalente opinione dottrinale, tipica della nostra esperienza, ha cominciato a modificarsi e si è andato affermando un orientamento politico, prima ancora che giuridico, che potremmo chiamare panprivatistico, il quale vorrebbe ribaltare la precedente impostazione, affermando la prevalenza del diritto privato nell'espletamento dei compiti amministrativi; e di questo rinnovato clima sono sintomi sia il testo di riforma della Costituzione presentato dalla Commissione Bicamerale (legge cost. n. 1/97), secondo la quale le pubbliche Amministrazioni 'salvi i casi previsti dalla legge per ragioni di interesse pubblico, agiscono in base alle norme di diritto privato' (art. 106); sia la p.d.l. contenenti norme generali sull'attività amministrativa (A.C. 6844-A), approvata dalla Camera dei Deputati (25 ottobre 2000, con lievi modificazioni, poi decaduta per la fine della XIII legislatura, e adesso è presentata dal Governo e all'esame del Senato (A.S. 1281), secondo la quale 'salvi i casi di poteri amministrativi espressamente conferiti da leggi o da regolamenti, le amministrazioni pubbliche agiscono secondo le norme del diritto privato. In ogni caso le amministrazioni pubbliche agiscono per la realizzazione dei pubblici interessi' (art. 2). Ovvero, secondo il nuovo testo 'per le relazioni dei propri fini istituzionali, le amministrazioni pubbliche agiscono utilizzando strumenti del diritto pubblico o privato' (indifferentemente, quindi).
Questione diversa da quella dell'utilizzo del modulo negoziale come alternativo al modulo dell'esercizio del potere - anche se indubbiamente connessa - è quella dell'utilizzo di moduli consensuali nell'ambito del procedimento amministrativo, secondo lo schema da taluno denominato con la terminologia in uso in Germania, 'contratto di diritto pubblico', ed introdotto dalla legge 241/90 con la norma, notissima quanto ignorata dalla prassi, di cui all'art. 11.
Ma in questi casi, il modulo convenzionale, pur ascrìvibile in via di principio all'area del negozio (espressamente prevista, com'è noto, è l'applicazione dei 'principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti'), è una delle modalità per la conclusione del procedimento ovvero per la definizione di alcuni elementi del provvedimento (fase decisoria negoziata) e perciò si inscrive senz'altro nel modulo di esercizio del potere; non come modulo alternativo a questo.
L'utilizzo del negozio come strumento di azione amministrativa, pone anzitutto il problema di delimitare lo spazio tecnico, per così dire, nel quale può realizzarsi; nel quale cioè può concretamente porsi un problema di alternatività tra lo strumento privatistico e quello pubblicistico nell'esercizio dell'azione amministrativa.
Non tutti i settori di amministrazione, come cura degli interessi pubblici, si prestano ad essere svolti attraverso strumenti negoziali in grado di raggiungere il risultato pratico voluto. In certi ambiti sono infatti indispensabili mezzi di azione alternativi al diritto privato. Questa esclusione degli strumenti negoziali vale sempre laddove si ponga l'esigenza di usare dell'autorità; cioè di produrre un effetto giuridico in assenza del consenso del destinatario dell'atto. E si pone anche nei casi in cui si tratta di produrre atti o effetti sconosciuti al diritto privato (provvedimenti di autorizzazione o di certificazione).
In definitiva, il problema dell'utilizzo del diritto privato si pone allorché soggetti terzi debbano acquisire una utiliias da parte dell'amministrazione ovvero nei casi in cui la pubblica amministrazione trasferisce a terzi beni o utilità di sua pertinenza.
La problematica investe grosso modo la materia delle concessioni di beni o servizi pubblici; quella delle ablazioni reali nonché i rapporti nei quali il terzo è chiamato a fornire una prestazione di carattere lavorativo, imprenditoriale, ecc. a favore dell'amministrazione. Solo per fare alcuni esempi, in questi settori può porsi l'alternativa tra il provvedimento di concessione e il contratto di affitto, di locazione o di appalto; tra il provvedimento di espropriazione e il contratto di compravendita; tra il provvedimento di requisizione e il contratto di affitto o di locazione; tra la costituzione coattiva di servitù e quella volontaria; tra il provvedimento di nomina a pubblico impiego e il contratto di lavoro; ecc..
Si tenga presente che con riferimento all'utilizzabilità del modulo negoziale nell'attività amministrativa, non si tratta soltanto di individuare l'area del contratto, ma anche quella degli atti unilaterali a carattere negoziale (art. 1324, cod. civ.); adesso ampiamente presenti nella gestione del rapporto di lavoro pubblico, nell'ambito della quale quegli atti che in larga misura erano considerati provvedimenti amministrativi nel precedente ordinamento sono diventati negozi unilaterali nell'ordinamento vigente.
Ebbene, ove si intende introdurre una norma di carattere generale come quelle di cui ai citati testi, si fa riferimento a questo spazio che tecnicamente si presta all'utilizzo del diritto privato, mediante contratti o mediante atti unilaterali a carattere negoziale.
In questo spazio il problema dell'alternatività tra i due tipi di strumenti riguarda sia il legislatore, sia l'interprete. Il primo può prevedere, infatti, con una norma apposita l'uso dell'uno o dell'altro strumento ovvero prevedere espressamente l'alternatività; oppure può tacere, e in questo caso spetta all'interprete di stabilire la disciplina applicabile. A questa ultima ipotesi si riferisce l'affermazione di Cammeo in precedenza ricordata.
E' chiaro che, qualora fosse approvata la norma generale, secondo le espressioni sopra ricordate, l'interprete avrebbe sempre la possibilità di applicare la norma privatistica nei casi in cui la legge non prevedesse espressamente con norma inderogabile lo strumento pubblicistico di azione amministrativa.
Si pone quindi, in via generale, un problema teorico di ammissibilità dell'alternativa; un problema di ammissibilità dello strumento negoziale, in tutti i casi in cui questo è tecnicamente utilizzabile.
Naturalmente il problema si presenta anzitutto in termini di costituzionalità; nella Carta costituzionale si trovano, infatti, a mio giudizio, tre principi che investono questa materia e che devono essere attentamente valutati.
Il primo principio è quello di imparzialità dell'azione amministrativa, previsto dall'art. 97, che come è noto si traduce negli ulteriori principi di funzionalizzazione del potere, di ragionevolezza, di completezza dell'istruttoria, di vincolo nel fine; principi che esprimono un'idea eminentemente politica e cioè, banalmente, che l'amministrazione è al servizio dei cittadini.
Il secondo principio, previsto dall'art. 24, è quello che concerne la tutela giurisdizionale, che, secondo il nostro ordinamento, si estende a tutti i portatori di diritti e di interessi legittimi. Su questo punto si deve preliminarmente osservare, con tutte le riserve del caso, che, a fronte dell'esercizio di poteri amministrativi, la tutela dell'interesse legittimo, secondo la nota tecnica consolidata, riguarda una platea di soggetti molto più ampia (in via di principio, tutti i portatori di interessi qualificati) rispetto alla tutela dei diritti.
Questa differenza comporta che l'utilizzo alternativo di un provvedimento o di un negozio per l'esercizio di compiti amministrativi, può dare luogo ad un cambiamento di regime sul versante della tutela; quindi determinare problemi di costituzionalità.
L'applicazione di questi due principi impone l'utilizzo di molta cautela nella via panprivatistica che sta emergendo sul piano politico culturale; che, invero, l'introduzione generalizzata di moduli privatistici potrebbe dar luogo proprio alla violazione dei due principi stessi, nei casi in cui l'esigenza dell'imparzialità e l'esigenza di assicurare la massima tutela ai terzi portatori di interessi imponga l'adozione dello strumento amministrativo; o comunque impone, come subito si cercherà di mostrare, alcuni correttivi nell'applicazione della disciplina.
Il terzo principio si presenta per certi aspetti, come contrapposto ai primi due, nel senso che la sua applicazione porta a privilegiare, sempre, laddove è possibile, l'utilizzo degli strumenti privatistici nell'azione amministrativa. Esso risulta da una combinazione tra il principio di autonomia negoziale, fondato sull'art. 2, l'art. 41 Cost, e il principio della parità di trattamento giuridico di tutti i soggetti dell'ordinamento, assicurata dall'art. 3 Cost..
L'applicazione di questi principi, indubbiamente rafforzati nell'ambito dell'ordinamento comunitario che garantisce, com'è noto, 'un'economia di mercato aperto e in libera concorrenza' (art. 4 Tratt.), si traduce sicuramente nell'esigenza di limitare sia l'utilizzo dei poteri imperativi in senso stretto (produttivi di effetti giuridici nella sfera giuridica altrui a prescindere dal consenso del titolare) sia dei poteri autorizzatori, che limitano fortemente la libertà negoziale e la libertà di iniziativa economica, ai casi di stretta necessità. Da ciò deriva l'affermazione di un principio più generale secondo il quale l'area dei poteri amministrativi in quanto derogatori della disciplina di diritto comune, deve essere contenuta nei limiti dello stretto indispensabile (o se si vuole, secondo criteri di proporzionalità).
Come si vede, la nostra tematica, dal punto dì vista costituzionale, si muove nella dialettica tra i primi due principi, per i quali è privilegiato lo strumento amministrativo, e il terzo, per il quale è privilegiato lo strumento negoziale. Si muove dunque in una banda molto stretta, in termini costituzionali, nella quale le scelte del legislatore, così come quelle dell'interprete, laddove consentito, devono alla fine orientarsi secondo proporzionalità e ragionevolezza.
Le differenze di regime conseguenti all'applicazione di modelli pubblicistici o privatistici nella cura concreta di interessi pubblici, si pongono sotto quattro aspetti: la formazione dell'atto giuridico; la sua efficacia; la tutela giurisdizionale; l'invalidità dell'atto giuridico (e del suo procedimento).
In via di principio, si può affermare che la formazione del provvedimento avviene attraverso il procedimento di esercizio del potere regolato dai principi della legge 241/90; procedimento nel quale la formazione della volontà del soggetto agente si realizza attraverso un itinerario prestabilito di atti o fatti rilevanti giuridicamente e conoscibili all'esterno (ed. funzionalizzazione), e nel quale è ammessa, di regola, la partecipazione dei portatori di interessi coinvolti nell'azione amministrativa, le cui osservazioni devono essere considerate e valutate dal soggetto agente.
Viceversa, la formazione dell'atto negoziale, di norma, è libera nelle forme e nell'attività, salvo il rispetto del principio di correttezza, la cui violazione può dare luogo in certi casi a responsabilità precontrattuale. A questo proposito si può ricordare la recente giurisprudenza che esclude l'applicazione della l. 241 nella formazione del negozio da parte della p.a. (Tar Toscana, I, 18 giugno 1999 n. 497, in Foro amm., 2000, 1430); salvi i casi in cui la formazione del negozio, in alcune sue parti (come nella scelta del contraente: subito infra) avviene mediante procedimento amministrativo.
Sul versante dell'efficacia, tanto il provvedimento quanto il negozio realizzano un certo assetto di interessi, attraverso la costituzione di diritti, obblighi, reciproche prestazioni, ecc.
Una volta che l'atto negoziale ha prodotto i suoi effetti, l'assetto di interessi che ne consegue vincola stabilmente le parti (art. 1372 c.c.) e può essere rimosso, in via di principio, solo con l'intervento del giudice, nei casi e alle condizioni previsti dalla legge.
In diritto amministrativo, l'assetto degli interessi che prende forma con l'adozione del provvedimento è sempre oggetto di una potenziale azione amministrativa di riesame o di revisione; può essere cioè senz'altro rimosso unilateralmente dalla stessa amministrazione con efficacia ex tunc, revocato, modificato in esercizio dei poteri di autotutela, che si attivano anch'essi in presenza di determinate condizioni. Quindi, rispetto all'area negoziale, l'assetto degli interessi prodotto dal provvedimento ha il carattere della mobilità, per non dire della precarietà, in ragione della specifica esigenza di garanzia degli interessi pubblici che giustificano l'esercizio del potere pubblico.
Il terzo profilo riguarda il tema della tutela. In questo ambito, le differenze attengono in primo luogo all'autorità giurisdizionale competente a conoscere dei negozi o dei provvedimenti amministrativi: rispettivamente, il giudice ordinario e il giudice amministrativo, con applicazione delle diverse discipline processuali. Bisogna sottolineare che questo profilo ultimamente ha acquistato un peso meno incisivo, perché anche la cognizione giurisdizionale dei negozi della p.a. è stata attribuita al giudice amministrativo in tutti i casi in cui si verte in materia di servizi pubblici (i quali costituiscono la gran parte dei casi posti dall'esperienza) e viene esercitata secondo le modalità tecniche previste per la tutela dei diritti (art. 8, 1. 21 luglio 2000, n. 205).
In secondo luogo, i due tipi di tutela differiscono profondamente per quel che attiene al profilo dell'individuazione dei soggetti legittimati ad accedere alla tutela medesima: rispettivamente i soggetti portatori di diritti ovvero di interessi legittimi.
Per grandi linee, si può affermare che nella tecnica di tutela dei diritti, questa legittimazione all'accesso è limitata ai soggetti che sono parte dei rapporti controversi (artt. 1441, 1448, 1453, 1467 c.c.); mentre nell'altro caso, la legittimazione all'accesso si estende a tutti i terzi portatori di interessi contrapposti, riconosciuti dall'ordinamento come meritevoli di protezione (artt. 7 e 9 1. 241; artt. 37 ss. reg, Cons. St.).
Anche su questo punto si deve tenere presente il fatto che in molti casi, anche in diritto privato, sono conosciute forme di tutela rapportabili al modello previsto per l'interesse legittimo; nei casi, cioè, relativi alle controversie aventi ad oggetto l'esercizio dei ed. poteri privati (amministrazione di società e di persone giuridiche; esercizio dei ed. poteri datoriali in diritto del lavoro; cfr. Cass. S.U. 2 novembre 1979 n. 5688, in Foro it, 1979,1, 2548).
Il quarto profilo attiene al tema dell'invalidità. E' noto che per il negozio di diritto privato l'area dell'invalidità si risolve nelle ipotesi previste dal codice civile e organizzate sotto le due categorie della nullità e dell'annullabilità (artt. 1418 e 1427 c.c.). Per il provvedimento amministrativo, invece, l'invalidità, comunemente definita come illegittimità, segue quasi esclusivamente il regime dell'annullabilità (art. 45 r.d. T.U. Cons. St.; art. 26 I. Tar); e in essa rientrano, oltre alle ure vizianti estranee al diritto privato come l'eccesso di potere e l'incompetenza, tutti i casi di violazione della norma amministrativa (art. 26, T.U. Cons. St.), la quale, nel nostro ordinamento per tradizione dottrinaria e giurisprudenziale, ha sempre carattere imperativo a differenza della norma di diritto privato, la cui inderogabilità costituisce l'eccezione e conduce alla nullità del negozio (art. 1418 c.c.).
Si possono citare due ordini di casi in cui è avvenuta la trasformazione di attività giuridiche, dal modello privatistico a quello pubblicistico e viceversa, con conseguente modificazione della disciplina applicabile, nei punti sopra evidenziati.
Innanzi tutto emerge l'importante svolta giurisprudenziale che ha portato alla qualificazione come atti amministrativi, e non più come negozi, delle attività degli imprenditori concessionari di opere pubbliche o comunque operanti nel settore dei lavori pubblici. Un cambiamento di qualificazione che ha prodotto trasformazioni di regime applicabile, quanto alla formazione dell'atto (che deve avvenire secondo le regole sul procedimento; cfr. l'art. 267, r.d. 1175/31) e quanto alla tutela dei terzi interessati davanti al giudice amministrativo (art. 33, d.lgs. 31 marzo 1998, come modif. dalla l. 205/00; art. 8 cit. l. 205/00. In giurisprudenza, Cass. S.U. 29 dicembre 1990 n. 12221, in Foro it, 1991,1, 3405; Cons. St, V, 21 ottobre 1991 n. 1250, in Foro ii., 1993, III, 401; Cons. St., V, 7 giugno 1999 n. 295, in Foro amm., 1999, 1225).
In secondo luogo, può citarsi il caso della trasformazione, per legge, degli atti di gestione del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, da atti amministrativi ad atti negoziali.
Anche su questo versante, il mutamento del modello di azione applicabile ha determinato cambiamenti sul piano della formazione del rapporto nonché il mutamento della natura degli atti attraverso i quali si svolge il rapporto di lavoro tra l'amministrazione e il dipendente: non più provvedimenti unilaterali d'imperio bensì atti di natura privatistica, 'soggetti pertanto al regime del diritto civile' (Trib. La Spezia, 26 aprile 1999, in Giust. civ., 1999,1, 2189; P. Venezia, 21 aprile 1999, in Giust. civ., 1999, I, 2190), e in quanto tali, come già detto, sottratti alla disciplina di cui alla l. 241/90 e quindi anche all'obbligo di motivazione (P. Napoli, 11 dicembre 1998, in Giust. civ., 1999, I, 3167); restano viceversa ancora qualificabili come provvedimenti amministrativi 'gli atti con cui vengono delineate le linee fondamentali dell'organizzazione degli uffici (atti aventi funzioni politico-amministrativo, di definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare, di individuazione e ripartizione delle risorse)' (Trib. La Spezia, cit.).
Più in particolare sono considerati di natura privatistica gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali e i relativi atti di revoca ovvero di trasferimento del dirigente ad altro ufficio (Trib. Firenze, 13 ottobre 1999, in Foro it, 2000, I, 1302; Trib. Firenze, 20 luglio 1999, in Foro it., 2000, I, 1303) tutti ascrivibili ai c.d. 'poteri datoriali'. Altresì 'la sanzione disciplinare è irrogata mediante negozio giuridico, con il quale viene esercitato il diritto potestativo di incidere sulla sfera giuridica del dipendente () conferito all'amministrazione dalle regole del rapporto' (Cass., sez. lav. 7 aprile 1999, in Foro amm., 1999, 2038).
Un'analisi più specifica dei contratti della pubblica amministrazione, anche nell'esperienza più recente, ci mostra l'operatività di due principi di carattere pubblicistico e quindi estranei alla contrattualità dei privati, i quali investono tutta la materia dei contratti pubblici nel suo complesso; vale a dire, non solo entro l'area in cui il negozio è utilizzato come strumento di azione amministrativa, ma anche laddove l'attività negoziale del soggetto pubblico possiede contenuti meramente patrimoniali.
Anzitutto, si segnala il principio che possiamo definire di economicità: il negozio stipulato dalla pubblica amministrazione deve rispondere ad un'idea di necessaria conformità agli interessi dell'ente; deve attivare un risultato positivo dell'azione negoziale in termini di costi e benefici.
Sotto questo aspetto si profila una netta differenza tra l'utilizzo del mezzo negoziale da parte di un soggetto privato ovvero da parte di una pubblica amministrazione. L'autonomia negoziale consente infatti ai privati, entro i limiti imposti dalla legge, di agire paradossalmente anche in contrasto con i propri interessi patrimoniali, essendo il negozio lo strumento per conseguire tale libera autodeterminazione (art. 1322, comma 1 e.e.).
Il principio opposto si applica invece nei confronti dei soggetti pubblici, i quali sono sempre tenuti ad organizzare la propria azione, ivi compresa quella che utilizza lo strumento negoziale, al canone fondamentale del buon andamento, traducibile nei principi applicativi dell'efficacia (intesa come rapporto tra risultati ottenuti e obiettivi prestabiliti) e dell'economicità (rapporto tra risultati ottenuti e risorse impiegate).
Il negozio stipulato da un'amministrazione pubblica, sia per la realizzazione di scopi meramente patrimoniali, sia - a maggior ragione - per l'espletamento di compiti amministrativi, è soggetto a questo generale precetto di buona amministrazione ed è strumento funzionalizzato verso una direzione obbligata, quella cioè della produzione di risultati di congruità e convenienza rispetto agli interessi dell'ente. Un precetto, quello di buona amministrazione, che incide, tuttavia, non sul regime di validità dell'atto, soggetto alla comune disciplina codicistica, bensì sulla disciplina che regola il rapporto professionale tra il pubblico amministratore e l'ente di appartenenza. Ne consegue che l'azione amministrativa negoziale di cui sia accertato il contrasto con i principi di efficacia ed economicità non si traduce in attività giuridica viziata (invalidità del negozio), ma può dare luogo all'attivazione di un giudizio di responsabilità di fronte alla magistratura contabile (cfr. Corte dei conti, sez. II centrale app., 3 febbraio 1999 n. 26/A, in Riv. Corte conti, 1999, 1, 58; sez. giur. Reg. Lazio, 16 luglio 1996 n. 51, in Riv. Corte conti, 1996, 4, 149).
Il secondo principio generale, anch'esso ritenuto operante in tutta la contrattualistica pubblica, è quello che si potrebbe denominare della parità ali accesso di tutti i possibili interessati alle utilitates conferite dalla pubblica amministrazione mediante rapporti negoziali.
Nella nostra tradizionale disciplina, il principio è pacifico e risalente, ed espresso dalla nota formula della legge generale di contabilità dello Stato ('i contratti dai quali derivi un'entrata per lo Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti. I contratti dai quali derivi una spesa per lo Stato debbono essere preceduti da gare'; art. 3, comma 1 e 2, r.d. 18 novembre 1923 n. 2440). E perciò, l'attività contrattuale è preceduta da un procedimento inteso alla scelta del contraente che ha la natura di procedimento amministrativo e si conclude con un provvedimento (aggiudicazione) impugnabile davanti al giudice amministrativo.
Evidentemente, l'applicazione di questo principio ha anche lo scopo di consentire all'amministrazione il conseguimento dei migliori risultati nella scelta dei contraenti e nell'individuazione del contenuto dei contratti; quindi, uno scopo, si può dire, ancora di economicità. Ma il principio ha sicuramente anche la funzione di porre sullo stesso piano tutti i possibili aspiranti ad un rapporto negoziale con la pubblica amministrazione. E quindi, lo stesso principio adempie ad una funzione di imparzialità, in forza della quale l'amministrazione non può contattare liberamente il proprio interlocutore negoziale come viceversa può fare qualsiasi privato, ma per regola deve scegliere il miglior contraente tra quelli che aspirano ad esserlo e che ne hanno i requisiti.
I casi in cui l'Amministrazione, nella scelta del contraente, può procedere 'a trattativa privata', cioè senz'altro secondo gli schemi dell'attività negoziale (senza necessità di previo procedimento amministrativo), sono conurate nel nostro tradizionale sistema legislativo, come eccezionali, e si vanno riducendo nell'esperienza più recente (v. Cons. St., sez. V, 24 dicembre 2001 n. 6383).
Ma anche in questi casi, fermo restando il principio di economicità, la prassi ampiamente usata di predeterminare criteri per l'individuazione del contraente stabiliti dalla stessa Amministrazione (c.d. autolimitazione) e il ricorso a 'gare ufficiose' mediante le quali più ditte vengono invitate a presentare offerte, finisce col trasformare la stessa trattativa privata in procedimento amministrativo, soggetto al sindacato del giudice amministrativo (Cons. St., sez. VI, 24 maggio 2000 n. 3009).
Il principio si è peraltro consolidato in forza della normazione comunitaria, nell'espressa esigenza di assicurare in un mercato così importante i principi di libera concorrenza. Ma è tuttavia significativo che questa normazione, la quale com'è noto non da molta importanza alle nostre tradizionali distinzioni tra pubblico e privato, imponga l'applicazione del principio ai soli organismi di diritto pubblico (ad es., art. 2, d.lgs. 17 marzo 1995, n. 157), restando perciò al di fuori della sua portata tutta l'attività negoziale dei privati e anche quella delle grandi imprese, alle quali corrisponde certamente un mercato altrettanto rilevante in termini quantitativi.
Così come il principio di economicità, anche quello di parità di accesso investe tutta la contrattualistica delle pubbliche amministrazioni e non è perciò possibile distinguere, con riferimento ad esso, tra l'attività negoziale come strumento di azione amministrativa e l'attività negoziale di mera gestione patrimoniale.
Resta aperto il problema se l'attività negoziale possa essere soggetta a ulteriori e particolari principi laddove costituisca strumento di azione amministrativa; ciò che sembrerebbe emergere dalla sopra ricordata norma approvata dalla Camera. Insomma, si pone il problema se, laddove venga utilizzato il negozio in alternativa al provvedimento per la cura concreta di interessi pubblici, cioè per scopi di pubblica amministrazione in senso tecnico, Io stesso negozio possa essere in qualche modo vincolato nei fini cosi come lo è il provvedimento amministrativo.
Ebbene, si può senz'altro affermare che il negozio, anche nei casi in cui sia strumento di azione amministrativa, produce in via di principio gli effetti tipici dei modello civilistico, vincolando entrambe le parti (pubblica e privata), secondo l'assetto degli interessi dalle stesse fissato. In ciò, come già accennato, si pone forse la principale differenza tra l'utilizzo dell'uno e dell'altro modello di attività giuridica; da una parte, una stabilità dell'assetto degli interessi, che prescinde da successive ed ulteriori valutazioni delle parti, dall'altra una mobilità, sia pur controllata, del medesimo assetto, che viene sottoposto all'esercizio di poteri unilaterali dell'amministrazione con riferimento a sopravvenute e preminenti esigenze pubbliche.
Confermata l'applicabilità in via generale dei principi del diritto privato, che altrimenti cadrebbe la stessa ragione pratica del modello (e quindi è da escludere in premessa l'applicabilità dei principi generali dell'autotutela amministrativa), si deve tuttavia tener presente che, nell'ipotesi in cui il negozio realizza compiti amministrativi, non essendo mero fatto di gestione patrimoniale, tutta la vicenda della sua esecuzione, vale a dire dell'impatto pratico dei suoi effetti, sicuramente rileva dal punto di vista della cura e della tutela degli interessi pubblici.
Insomma, in questi casi, l'esecuzione del negozio nella sua concreta rispondenza all'assetto degli interessi pubblici in gioco costituisce in se stessa un fatto di amministrazione in senso tecnico e cioè uno strumento di cura concreta di interessi pubblici. Questo dato, che a me pare indiscutibile, potrebbe dar luogo alla affermazione della sussistenza in capo all'amministrazione di qualche potere di carattere generale che le consenta di intervenire unilateralmente in caso di stretta necessità, ovviamente sull'esecuzione del negozio, laddove insorgano ragioni di contrasto con gli interessi pubblici in gioco. Sul punto, il nostro ordinamento, almeno nel settore fondamentale dell'esecuzione dei lavori pubblici, conosce strumenti di intervento autoritativo dell'Amministrazione che incidono si rapporto contrattuale, in deroga ai principi della disciplina negoziale.
E così, il 'diritto' (ma si tratta di un potere in senso tecnico) dell'Amministrazione appaltante di rescindere unilateralmente il contratto 'quando l'appaltatore si renda colpevole di fronde o di grave negligenza, e contravvenga agli obblighi o alle condizioni stipulate (art. 340, l. lav. pubbl.) nonché il potere della stessa di ordinare l'esecuzione d'ufficio delle opere, laddove 'per negligenza dell'appaltatore il progresso del lavoro non fosse tale da assicurarne il compimento nel tempo previsto dal contratto' (art. 341, l. lav. pubbl.). Ma si tratta di casi espressamente previsti dalle nonne e da interpretare restrittivamente dato il loro carattere erogatorio rispetto alla disciplina comune.
Tuttavia, l'estendersi del modulo negoziale anche in settori tradizionalmente riservati all'esercizio del potere amministrativo, sulla base dell'affermazione del principio della generale utilizzabilità di tale modulo, potrebbe indurre ad affermare in via generale la sussistenza di poteri amministrativi incidenti sull'esecuzione dei contratti, da parte dell'Amministrazione contraente, laddove ciò sia richiesto da sopravvenuti motivi di interesse pubblico. In modo non dissimile, del resto, si esprime l'art. 11 della legge n. 241/90, a proposito degli accordi (che tuttavia non sono negozi di diritto comune), sul potere dell'Amministrazione di recedere unilateralmente dall'accordo eseguito o in corso di esecuzione - una vera e propria revoca ex mnc - per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, salvo indennizzo. A maggior ragione, sostiene al giurisprudenza, 'la P.A. non perde il potere autoritativo nella gestione dell'interesse pubblico () quando gli accordi non abbiano ancora avuto effetto [giacché i questi casi] le volontà pubbliche espresse negli accordi con i privati [possono] essere ritirate per vizi di illegittimità originari [mediante] un vero e proprio annullamento' (Cons. St, sez. IV, 6 novembre 1998
Invero, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che, il potere della p.a. di agire in via di autotutela su propri atti precedenti non trova un ostacolo nel carattere negoziale dell'azione pubblica, tenuto conto del principio di doverosità della fruizione pubblica; pertanto le volontà pubbliche espresse negli accordi con i privati possono essere ritirate, se inficiate nella legittimità, tramite un vero e proprio annullamento (Cons. St, IV, ult. cit).
Questioni delicate si pongono in ordine alla tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive, a fronte dell'attività negoziale delle pubbliche Amministrazioni, laddove lo strumento negoziale prenda il luogo del provvedimento amministrativo: operando in materia, come s'accennava, il principio dell'alt. 24 Cost., che assicura a tutti la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (con particolare riferimento perciò, a proposito di questi ultimi, ai rapporti con le pubbliche Amministrazioni).
Un'interessante problematica sul punto emerge nella giurisprudenza più recente a proposito della tutela giurisdizionale nell'ambito del rapporto di lavoro con la p.a., ormai in larga misura privatizzato, con conseguente trasformazione per via legislativa degli atti di gestione di detto rapporto, da provvedimenti amministrativi a negozi di diritto comune (v. retro § 5) e la cui cognizione è rimessa oggi, ex art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, al giudice ordinario.
In materia, tuttavia, la tutela giurisdizionale, anche nell'ambito stesso dei rapporti di lavoro privato - e senz'altro, perciò, ascrivibili alla disciplina privatistica - presenta delle notevoli peculiarità derivanti dal fatto che in essa, una delle parti del rapporto (il datore di lavoro) agisce nell'esercizio di poteri privati (ed. datoriali), a fronte dei quali sono ravvisabili situazioni soggettive dei lavoratori di struttura analoga a quella dell'interesse legittimo. La decisione originaria sul punto è la notissima Cass. 2 novembre 1979 n. 5688 (estesa dal Presidente Corasaniti), cui hanno fatto seguito una giurisprudenza ed una dottrina significativa (DI MAIO, nota a Cass. ult. cit.; in Riv. giur. lav., 1979, 1025).
Dall'esame delle prime pronunce del giudice ordinario emerge che se da un lato gli atti datoriali (conferimento e revoca di incarico, trasferimento, promozione, etc.) non possono essere sindacati per le fattispecie vizianti tipiche dell'attività provvedimentale (ad esempio violazione degli artt. 3 e 7 della l. n. 241/90; sul punto cfr. Pret. Napoli 11 dicembre 1998; Trib. Catania 9 maggio 2000; Cons. Stato. Comm. Spec. P.i. 5 febbraio 2001, n. 471/2001); dall'altro le stesse fattispecie possano concretizzare la violazione dei generali principi di correttezza e buona fede, ex artt. 1175 e 1375 c.c., che 'implicano l'imparzialità della stima ativa degli aspiranti e la necessità che la scelta datoriale si traduca in atti motivati, onde consentire il controllo delle norme legislative, regolamentari e contrattuali' (v. per tutte Trib. Grosseto, 29 gennaio 2002, n. 31 e la giurisprudenza ivi richiamata).
L'accertamento di tale violazione, inoltre, non si arresta al riconoscimento di un obbligo risarcitorio della p.a. nei confronti del proprio dipendente, ma si riflette sull'invalidità totale dell'atto, attraverso pronunce di reintegra in forma specifica (cfr. Trib. Benevento, 28 agosto 2000; Trib. Roma, 6 febbraio 2001), ovvero di invalidità parziale, con la sostituzione della determinazione datoriale nella parte difforme al principio di diritto (cfr. art. 63, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 cit.; in giurisprudenza Cass. 17 aprile 1990, n. 3183, in Foro it., 1990, I, 2817).
Del resto, che il sopravvenuto carattere negoziale di questi poteri datoriali non debba provocare delle limitazioni dei mezzi di tutela, si ricava anche dalla possibilità del pubblico dipendente di esperire, in via concorrente con il ricorso innanzi al giudice ordinario, il rimedio del ricorso straordinario avverso gli atti di gestione del rapporto di lavoro in quanto ricompresi tra gli atti soggettivamente amministrativi provenienti dalla p.a., adottati in regime privatistico ed espressioni di funzioni di rilievo pubblicistico (Ad. Gen. 10 giugno 1999, n. 9 in Foro amm., 1999, 2161, con nota di V. TENORE e E. A. APICELLA, Corte di Cassazione e Consiglio di Stato sulla natura attizia o contrattuale delle determinazioni datoriali nel rapporto d'impiego 'privatizzato', ivi, 2166).
In conclusione, l'utilizzo da parte della p.a. dello strumento negoziale unilaterale in luogo di quello prowedimentale non sembra, in materia di pubblico impiego privatizzato, interferire negativamente sulla sfera di tutela di cui all'art. 24 della Cost, ma semplicemente impone agli interessati di supportare, con i principi propri della normativa civilistica, le diverse forme di esperibilità delle proprie azioni giurisdizionali (si pensi alla tutela ex art. 700 c.p.c.; alla necessità, quale condizione dell'azione giurisdizionale, del preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 65 e ss. del d.lgs. 165/2001 cit, etc.).
Il negozio stipulato da una p.a. è stato tradizionalmente ritenuto annullabile (e non caducato ex se) dal giudice ordinario a seguito dell'annullamento in sede giurisdizionale amministrativa degli atti del procedimento formativo e segnatamente del provvedimento di aggiudicazione. Ai sensi dell'art. 1441 c.c., l'azione di annullamento del negozio è stata riservata alla stessa amministrazione, ritenuta dalla giurisprudenza quale unico soggetto all'uopo interessato (per tutti, Cass. 8 maggio 1996 n. 4269).
Tale orientamento è stato di volta in volta giuridicamente supportato attraverso la considerazione dei vizi procedimentali quale causa di semplice incapacità (art. 1425 e.e.) dell'organo amministrativo alla stipulazione del negozio (in questo senso, cfr. Cass. 28 marzo 1996 n. 2842); ovvero come causa della sua carenza di legittimazione a contrattare (Cass., 21 febbraio 1995 n, 1885): in ogni caso, fattispecie di invalidità sanabile (artt. 1444, 1399 c.c.), secondo l'esclusivo apprezzamento dell'amministrazione interessata.
Nonostante le critiche della dottrina - la quale sottolinea, da una parte, il fatto che il difetto di legittimazione determina l'inefficacia e non l'annullabilità del contratto (SANTORO- PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli 1966, 292) e dall'altra, soprattutto, il fatto che l'annullamento dell'aggiudicazione non rappresenta un mero vizio della volontà ma produce semmai un difetto radicale nella manifestazione del consenso e quindi la nullità del negozio (art. 1418, comma 2; in questo senso, GRECO, / contratti dell'amministrazione tra diritto pubblico e privato - I contratti ad evidenza pubblica, Milano 1986) - la tesi dell'annullabilità del contratto da parte del giudice ordinario, quale unica conseguenza dell'annullamento dell'atto di aggiudicazione continua a trovare ampio seguito; anche dopo le recenti innovazioni in materia di riparto di giurisdizione, introdotte dagli art. 33 ss., d.lgs. 80/98, come modificati dall'art. 7, l. 205/2000.
Com'è noto, l'art. 33, comma 2 lett. f), d.lgs. cit. 80/98, modif. dall'art. 7 della l. cit. 205/00 ha attribuito alla giurisdizione esclusiva del g.a. le controversie 'in materia di servizi pubblici', ivi comprese senz'altro anche quelle relative ai contratti stipulati nell'ambito della medesima materia.
Peraltro l'art. 6, l. cit. 205/00 attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo altresì le controversie aventi ad oggetto le 'procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente (), all'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale'. Ovviamente la menzione dei servizi pubblici in tale disposizione ha valore ultroneo, essendo le procedure di affidamento di appalti di servizi pubblici già attribuite in via generale alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall'art. 33 cit.
Dunque in materia di appalti pubblici di lavori e forniture, la giurisdizione esclusiva del g.a. appare limitata alle procedure di aggiudicazione e non si estende alla cognizione dei contratti stipulati a seguito dell'aggiudicazione (salvo l'ambiguo riferimento all''esecuzione' di lavori, servizi e forniture, di cui all'art. 23-bis, lett. b e c, l. 1034/71, introdotto dall'art. 4, l. 205/00). Mentre, negli appalti di servizi pubblici, il giudice amministrativo estende la sua cognizione anche ai contratti stipulati a seguito dell'aggiudicazione: con possibilità - connessa alle caratteristiche della giurisdizione esclusiva - di pronunciarne l'annullamento nei casi di accertata illegittimità degli atti della procedura di evidenza pubblica; e con possibilità, nel caso di controversie attinenti ai contratti stipulati in esito a dette procedure di aggiudicazione, di disporre il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica.
A quest'ultimo proposito, tuttavia - sulla scorta del risalente orientamento della giurisprudenza in tema di annullamento di un contratto pubblico - il principale limite a tale potere reintegratorio del g.a. sembra essere rappresentato proprio dal fatto che nelle more del giudizio sia stato stipulato il contratto tra l'amministrazione e l'illegittimo aggiudicatario.
Secondo alcune posizioni 'qualora, alla data di emissione della sentenza, i lavori o la fornitura fossero stati già in parte eseguiti, la attribuzione dovrebbe essere disposta solo per la parte residua, fermo il diritto dell'interessato ad ottenere il risarcimento dei danni per il mancato utile per la parte dei lavori non attribuiti'; mentre laddove 'i lavori fossero stati completamente eseguiti al momento in cui viene emessa la sentenza, non potrà essere ottenuta alcuna reintegrazione in forma specifica e l'unica pretesa che può essere avanzata dal ricorrente è quella al risarcimento del danno per il mancato utile' (in dottrina, P. VIRGA, La reintegrazione informa specifica, in www.giust.it, n. 02/2000; in termini, TAR Veneto, sez. I, 9 febbraio 1999 n. 119; Tar Lazio, sez. li-bis, 11 gennaio 2001 n. 179). Ma secondo altri prevalenti orientamenti, si ritiene ancora che 'il risarcimento in forma specifica, mediante assegnazione dell'appalto alla ricorrente, rimanga precluso dall'avvenuta stipulazione del contratto (che va considerato annullabile, e quindi non automaticamente caducato in seguito all'annullamento dell'aggiudicazione)' (TAR Lombardia, sez. Milano, 23 dicembre 1999 n. 5049; negli stessi termini, TAR Friuli Venezia Giulia, 26 gennaio 2002 n. 4; TAR Lombardia, sez. Brescia, 23 aprile 2002 n. 787). Tale impostazione, che di fronte di un'aggiudicazione illegittima, sancisce ancora oggi l'intagibilità da parte del giudice amministrativo del negozio già stipulato (e fa residuare come unico rimedio l'azione di annullamento dinanzi al g.o. ad iniziativa della sola amministrazione) è stata peraltro autorevolmente confermata in ambito comunitario dalla Corte di giustizia (28 ottobre 1999, decisione sulla Causa C-81/98), la quale, interpretando la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665, ha ritenuto ammissibile, a fronte dell'avvenuta stipulazione del contratto, la sola reintegrazione per equivalente del soggetto danneggiato.
Oltre al profilo dei rapporti tra illegittimità dell'aggiudicazione ed invalidità del contratto stipulato dalla p.a., si pone il problema di determinare le modalità della tutela nella fase dell'esecuzione del negozio. I dubbi si pongono anche perché, come già anticipato, nel testo della l. 205 cit. compaiono alcune discrasie e contraddizioni testuali in ordine all'ambito della giurisdizione esclusiva in materia di affidamento di appalti pubblici di lavori, forniture e servizi, le quali potrebbero far ritenere sussistente tale giurisdizione anche nelle controversie in sede di esecuzione del contratto (cfr. artt. 4, 6 e 7, 1. ult. cit.).
Risultano, tuttavia, isolate le posizioni che attribuiscono al giudice amministrativo la cognizione in tema di risoluzione unilaterale o di rescissione di un contratto di appalto, nonché a fronte di un'esecuzione d'ufficio in danno dell'appaltatore (TAR Lombardia, sez. III, decreto presidenziale 5 giugno 2001 n. 1572). Il prevalente indirizzo giurisprudenziale ritiene, infatti, che le controversie nascenti in sede di esecuzione dei contratti di cui è parte la p.a., ancorché stipulati a seguito di procedura di gara, abbiano ad oggetto posizioni di diritto soggettivo, relative a rapporti di tipo privatistico, come tali conoscibili in sede giurisdizionale ordinaria: ciò anche laddove la controversia prenda origine dall'esercizio di poteri discrezionali esercitati dall'amministrazione (o dal suo concessionario) nel corso della vicenda negoziale (ad es. provvedimenti di rescissione, risoluzione unilaterale del contratto, esecuzione in danno; cfr. Cons. St., V, 28 dicembre 2001 n. 6443; IV, 29 novembre 2000 n. 6325; Cass. S.U., 30 marzo 2000 n. 72).
La questione si pone in questi termini segnatamente per gli appalti di lavori e forniture. Quanto alla materia dei servizi pubblici essa è attratta integralmente ('le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale rese nell'espletamento dei servizi pubblici') nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con l'eccezione dei 'rapporti individuali di utenza con i soggetti privati' (oltre che di talune questione di carattere risarcitorio), la cui cognizione resta riservata all'A.G.O. (art. 33, comma 2, lett. f, d.lgs. cit. 80/98, modif. art. 7, l. 205/00 cit,).
Il profilo della tutela giurisdizionale relativa all'esecuzione dei rapporti negoziali rientranti latu sensu nell'espletamento di un servizio pubblico presuppone dunque l'individuazione della linea di demarcazione tra attività negoziali ascrivibili al servizio pubblico (soggetti alla giurisdizione amministrativa) e rapporti individuali di utenza (devoluti alla giurisdizione ordinaria).
Sul punto, si ritrova una giurisprudenza ancora molto incerta (cfr. TAR Toscana, sez. I, 18 aprile 2000 n. 724; TAR Lazio, sez. III, 3 maggio 2002 n. 3843), che tende ad identificare i rapporti individuali di utenza, come le relazioni di diritto privato intercorrenti tra un gestore privato di un servizio pubblico ed consumatore e la marca" class="text">il consumatore finale del medesimo servizio.
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