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GENETICA E NEUROLOGIA SVELANO I MECCANISMI DEL PENSIERO - Viaggio al centro dell'intelligenza

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GENETICA E NEUROLOGIA SVELANO I MECCANISMI DEL PENSIERO

Viaggio al centro dell'intelligenza


Cosa è l'intelligenza? Dilemma antico su cui si sono confrontati per secoli filosofi e scienziati. Ma su cui oggi arrivano due notizie bomba. La prima viene da Milano, e precisamente dall'Istituto San Raffaele do-
ve il genetista Edoardo Boncinelli ha scovato quello che i giornali hanno chiamato 'il gene del pensiero'. La seconda, invece, la divulga la rivista 'Science' che pubblica un articolo in cui si localizza il luogo del cervello dove secondo i neurofisiologi si trova l'intelligenza.

Proprio a ridosso dell'annuncio di Boncinelli, infatti, 'Science' rivelava la localizzazione della cosiddetta intelligenza generale, o fattore G, come lo chiamò nel 1904 lo psicologo inglese Charles Spearman. L'impresa è opera di un gruppo di ricercatori guidati da John Duncan del Medical Research Council britannico che hanno osservato il cervello di alcuni volontari mentre erano impegnati a rispondere a test di intelligenza. Grazie alla tecnica per immagini denominata tomografia a emissioni di positroni (Pet) è stato possibile fotografare la vita chimica degli organi e dei tessuti del cervello mentre era impegnato in operazioni più o meno complicate. Così gli scienziati hanno potuto vedere che, se alle prese con test impegnativi, la zona maggiormente attivata è quella del lobo frontale. Tanto che in molti hanno parlato del bernoccolo dell'intelligenza, proprio come se tutte le capacità si nascondessero in quel punto preciso. Ma chi ci dice che quello misurato non sia, per esempio, il luogo della concentrazione o dello stress, funzioni ugualmente attivate quando si deve risolvere un test? Senza mettere in dubbio i metodi utilizzati per arrivare a questo risultato, c'è comunque chi lo ridimensiona. «L'attivazione della zona prefrontale sinistra quando il cervello è impegnato era già nota», dice Boncinelli. «È sicuramente l'area delle decisioni: dal movimento di una mano alla convinzione di scegliere una risposta piuttosto che un'altra, tutto parte da lì», aggiunge Alberto Oliverio, direttore dell'Istituto di Psicobiologia del Cnr: «Non esiste una sola intelligenza, ma una pluralità di esse. E pertanto non c'è un luogo specifico dove si annida. Ci sono varie aree coinvolte in ogni operazione: davanti a una persona che parla, per esempio, se comprendo quello che mi dice non utilizzo solo l'emisfero sinistro, legato al linguaggio, ma anche quello destro, dove si analizzano i processi di insieme, come le emozioni». Insomma, sembrano suggerire gli esperti: le immagini aiutano, ma da sole non bastano.

E passano la parola ai genetisti. «Più o meno il 50 per cento di quella che chiamiamo intelligenza dipende dai geni, mentre l'altra metà è modellata dalla storia di ogni individuo, dalla sua biografia», afferma Boncinelli. Anche se, si affretta ad aggiungere: «di fatto non c'è accordo su cosa sia in realtà l'intelligenza. Ma, continua: «Soprattutto nelle persone molto, o molto poco dotate, la genetica pesa in maniera rilevante, mentre per la maggioranza delle persone, genetica ed esperienza hanno la stessa importanza». Senza corteccia cerebrale, infatti, non c'è intelligenza. A gettare nuova luce sul meccanismo di suddivisione e stratificazione di questa zona cruciale del cervello è stato lo stesso Boncinelli con la scoperta dell'Emx2, uno dei quattro geni architetti del cervello. La corteccia umana è divisa in più di 50 aree, ognuna delle quali ha una sua specifica funzione: c'è l'area del linguaggio, quella motoria, quella della memoria, senza contare tutte le aree associative che collegano le varie informazioni dando luogo a un processo mentale complesso, ossia il pensiero. Ebbene Emx2 si assicura che ognuna di queste aree sia al posto giusto. «Se il gene fallisce non c'è intelligenza, se compie il suo lavoro allora inizia un processo molto complesso che non dipende più dal gene stesso», spiega Boncinelli.

All'inizio fu il topo

Era il 1997 quando Robert Plomin, genetista all'Istituto di Psichiatria di Londra, annunciava di aver scoperto un gene sul cromosoma 6 in grado di influenzare l'intelligenza almeno del 2 per cento. Nei piani dello scienziato inglese il gene scoperto era solo uno degli almeno 100 che intervenivano nello sviluppo delle abilità umane. La sua ricerca fu criticata da molti, prima di tutto per le sue fragili basi scientifiche. Ma gli studi per scoprire la base genetica dell'intelligenza non si arrestarono di certo. Così a settembre dell'anno scorso la rivista 'Nature' riportava la notizia della creazione di topi super-intelligenti, animali che modificati geneticamente mostravano abilità sorprendenti. Il loro studio, annunciarono i ricercatori americani, dimostrava che gli attributi mentali e cognitivi possono migliorare grazie a un intervento genetico. Ma sarà vero?

Cerchiamola nel genoma

La genetica è importante, sottolinea Oliverio: «perché ci fa capire, per esempio, come si separa la corteccia e per così dire si specializza. Ma i nostri risultati si applicano al topo, mentre il sistema nervoso dell'uomo è molto più complesso per quanto gli stessi geni codifichino per le stesse sostanze». Studiare i geni, allora, aiuta gli scienziati a comprendere le regole che sottostanno allo sviluppo di particolari capacità. Insomma, conclude Oliverio, «il gene ci dà la regola di massima, ma poi è l'ambiente a fare il resto. L'abbiamo visto anche nei topi: quelli che vivono in ambienti poveri di stimoli sono meno 'intelligenti' di altri».

Proprio allo sviluppo infantile delle capacità intellettive si rivolgono oggi molti scienziati a caccia del mistero dell'intelligenza. Dai primi nessi causali colti dal neonato, osservati attraverso il movimento degli occhi, all'attenzione, all'anticipazione degli eventi. Tutte facoltà che si sviluppano fin dai primi giorni e che ci aiutano a capire gli schemi intelligenti, gli stessi utilizzati dagli adulti. Già, perché «la mente di un infante è ricca, astratta, complessa e potente tanto quanto la nostra». Parola di Alison Gopnik, Andrew N. Meltzoff e Patricia K. Kuhl, tre psicologi dell'età evolutiva autori di 'Tuo lio è un genio' (Baldini&Castoldi, 35 mila lire). Secondo loro, ogni bambino è una sorta di computer molto speciale: composto da neuroni anziché da microchip e programmato dall'evoluzione piuttosto che da qualche giovane informatico. E molto più potente di qualsiasi prodotto di Bill Gates, grazie anche al miglior sistema al mondo di supporto tecnologico: le madri. Il 'sistema computazionale' di un bimbo, scrivono i ricercatori è «una vera rete, tenuta insieme dal linguaggio e dall'amore anziché da fibre ottiche». La chiave della genialità infantile sarebbe il gioco, attraverso cui i piccoli verificano le loro idee.

Nessun neonato è stupido

Il cervello umano non sarebbe quindi una scatola da riempire con il passare del tempo. Non esiste, secondo gli autori, una grande catena della conoscenza che trasforma neonati 'stupidi' in adulti intelligenti. Studiare i bambini equivale a capire come ogni singola esperienza venga registrata, catalogata, ricostruita nei circuiti del cervello, e come i vari tipi di funzioni si coordinino fra loro. Il metodo giusto per svelare il mistero dell'intelligenza potrebbe essere quindi un misto di tutte le tecniche, un metodo complesso per uno studio complicato che può trovare nella prospettiva dello sviluppo delle abilità la chiave di volta. Come indicano i tre psicologi autori di 'Tuo lio è un genio': «Andate al piano di sopra, aprite la porta e chinatevi sulla culla. Cosa vedete? La maggior parte di voi vede l'immagine stessa dell'innocenza, un essere inerme, una 'tabula rasa'. Ma in realtà quel che vedete è la mente più grande che sia mai esistita, la più potente macchina d'apprendimento dell'universo».








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