psicologia |
Mobbing. Gli Aspetti Deteriori del Lavoro |
Premessa
Il termine Mobbing è usato per definire il complesso di azioni- e
reazioni che ha luogo in una situazione di terrorismo psicologico esercitato
sul posto di lavoro.
Questo termine è mutuato dall' etologia. Fu infatti l'etologo Konrad Lorenz ad
utilizzare nel 1971 questo vocabolo per indicare l'attacco di un gruppo di
animali ai danni di un altro animale perpetuato con l'intento di isolarlo ed
espellerlo dal gruppo stesso. .
Nei primi anni '80 il Prof. Heinz Leymann, che coordinava un gruppo di studio
in Sa, utilizzò la parola Mobbing per descrivere, all'interno degli
ambienti di lavoro, situazioni nelle quali sono presenti forme di violenza
psicologica, persecuzioni, aggressioni sia fisiche che verbali, protratte nel
tempo e che si esprimono in un insieme di comportamenti messi in atto ai danni
di colleghi o superiori.
Le forme che il Mobbing può assumere sono molteplici: dalla
semplice emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche
alla sistematica persecuzione, dall'assegnazione di compiti dequalificanti alla
compromissione dell'immagine sociale nei confronti di clienti e superiori.
Nelle azioni più gravi si arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni
illegali. Il Mobbing ha effetti devastanti sulla persona colpita: essa viene
danneggiata psicologicamente e fisicamente, menomata nella sua capacità
lavorativa e nella fiducia in sé stessa.
Il termine Mobbing ha superato in fretta i confini della Regione
scandinava, dove è stata usata per la prima volta, ed è entrata a far parte di
molte lingue e culture.
Soltanto fino ad una decina di anni fa nessuno ne conosceva il significato;
negli ultimi tempi la parola Mobbing ha riempito le ine dei quotidiani,
settimanali e mensili, di riviste specialistiche e non, ed è sa in molti
siti web.
Ha fatto discutere esperti e gente comune, psicologi, medici del lavoro,
economisti, giuslavoristi, direttori del personale, sindacalisti e lavoratori
direttamente interessati da questa sindrome del nuovo millennio.
Gli aspetti psicologici del mobbing
Harald Ege, maggior esperto in Italia di Mobbing, offre spunti
inediti per una visione del fenomeno.
Dopo oltre dieci anni di studi conoscendo direttamente le vittime, i mobber e
situazioni di Mobbing è arrivato a ridefinire questo fenomeno come guerra sul
posto di lavoro.
Secondo Ege molti fattori in una situazione di Mobbing evocano l'immagine di
una guerra: prima di tutto i comportamenti ostili ed aggressivi del mohher, le
ingegnose strategie di attacco, la ricerca delle alleanze influenti. Anche il
mohhizzato, dall'altra parte, nella sua reazione attiva o passiva, si comporta
come una roccaforte assediata, tentando sortite, progettando tattiche difensive
e subendo ingenti perdite. Inoltre ci sono gli spettatori del mobbing, a volte
estranei al conflitto, ma più spesso apparentemente neutrali, impegnati in
realtà a fungere da abili spie al servizio dell' una o dell'altra parte. Ege
sottolinea come il Mobbing non sia in primis un problema medico né
psichiatrico, ma una 'malattia dell'ambiente di lavoro' (Ege 2001,
14).
Il Mobbing, ovvero la guerra sul lavoro, sempre secondo Ege può essere definito
come la routine del conflitto, ossia un conflitto caratterizzato da attacchi
costanti perpetrati con una certa frequenza e durata. Il fenomeno si verifica
infatti soltanto quando alcune situazioni conflittuali agiscono secondo
dinamiche in cui si attivano meccanismi di coazione, sistematicità e fissità, e
in cui l'aggressività del gruppo viene incanalata a senso unico verso un
singolo soggetto.
È importante operare una differenziazione tra il Mobbing
psicosociale ed i conflitti interpersonali. Occorre tener presente che negli
uffici una certa dose di conflitto interpersonale può essere funzionale alle
relazioni tra colleghi.
Leymann ha elaborato un elenco di 45 comportamenti, suddivisi in 5 categorie
denominato LIPT - Leymann Inventory of Psychological Terrorism - che in varia
combinazione tra loro costituiscono un comportamento mobbizzante.
Il Mobbing è quindi un fenomeno complesso, che può esprimersi in vari modi e i
cui attori possono comportarsi secondo canoni diversi; tuttavia, occorre tener
presente che nel Mobbing esiste una costante: la vittima è sempre in una
posizione inferiore rispetto ai suoi avversari.
Il Mobbing, per quanto esteso possa essere, è un duello, ossia una contesa tra
due avversari principali: il mobber o aggressore e il mobbizzato, la vittima.
Nel Mobbing, come in guerra, se per mantenere la pace è necessaria
la cooperazione di entrambe le parti, per fare la guerra basta l'intenzione di
una sola delle due. Di conseguenza può succedere che uno dei due contendenti
non si accorga di essere 'in guerra'. La vittima è spesso all'oscuro
delle macchinazioni ai suoi danni perché le strategie mobbizzanti sono
indirette e subdole. La persona che le subisce ha un'enorme difficoltà nel
comprendere ciò che le sta accadendo.
Le azioni possono essere palesi e violente, quando ci sono aggressioni verbali
e fisiche, urla, commenti palesi alla sfera sessuale o privata; sottili e
silenziose quando si verifica l'isolamento della vittima e l'esclusione dal
gruppo; disciplinari se la vittima riceve lettere di richiamo ingiustificate;
logistiche quando il lavoratore è trasferito in una sede periferica, lontana,
scomoda e lontana dai suoi affetti; mansionali quando alla vittima si danno
compiti da svolgere al di sotto delle sue mansioni lavorative; paradossali,
quando alla vittima si danno da svolgere compiti al di sopra delle sue
competenze e in questo caso è ipotizzabile che la vittima non lo sappia fare e
sia quindi messa in una condizione oggettiva di sbagliare (Gilioli e Gilioli,
2000).
Chiunque siano le persone e le strategie, nel Mobbing come in guerra, ci sono
essenzialmente due parti in disaccordo che si fronteggiano. Come in guerra così
anche nel Mobbing un ruolo fondamentale è ricoperto dalle terze persone che
assistono al fenomeno: i cosiddetti spettatori.
Nessuna situazione di Mobbing può restare inavvertita da questi cosiddetti
spettatori: la sua portata è troppo pregnante perché non venga in qualche modo
percepita. Di conseguenza, anche gli spettatori del Mobbing ne sono coinvolti:
possono fare da semplice sfondo oppure parteggiare apertamente per una delle
due parti. Questi personaggi vengono identificati rispettivamente con gli
appellativi di co-mobber (coloro i quali sostengono e rafforzano le azioni dei
mobber) e di side-mobber che sono persone più creative e non si limitano ad
appoggiare le azioni mobbizzanti, ma ne attuano a loro volta di nuove.
I motivi per cui un mobber decide di iniziare una guerra sul lavoro sono
praticamente infiniti: per ambizione, per sete di carriera, per invidia, per
incompatibilità di carattere, per divertimento; e molti altri ancora.
Proseguendo nell'analogia con la guerra, si può individuare un denominatore
comune tra tutte le possibili motivazioni del Mobbing: rendere l'altro
inoffensivo, ossia costringerlo in una posizione di debolezza e inoffensività.
Di fronte ad una persona privata di ogni possibilità di difesa l'aggressore può
permettersi di agire e di comportarsi come preferisce. Nella guerra sul lavoro
la posizione peggiore è la completa incapacità di difendersi e reagire.
Raggiunto questo stadio il mobbizzato è preda della più profonda disperazione e
normalmente è già soggetto a malattie psicosomatiche e crisi depressive. Il
mobber ottiene la sua vittoria: la vittima si dimette dal posto di lavoro.
Anche il Mobbing come la guerra vera, non nasce dal nulla, non è
mai un evento isolato, slegato dal contesto, ha sempre una sua storia di
precedenti.
Il Mobbing deriva da un contesto di incertezza e di instabilità oppure da una
serie di azioni negative che durano da parecchio tempo e si ripetono con una
certa frequenza.
Esiste un' altra caratteristica comune tra la guerra vera e la guerra sul
lavoro: entrambe non consistono solo di azioni, ma anche di pause e di
intervalli. Nel Mobbing le interruzioni sono molto frequenti perché consentono
al mobber di accertarsi degli effetti dei suoi attacchi.
Le fasi del mobbing
Il Mobbing non è una situazione stabile, ma. un processo in
continua evoluzione: sulla base di ciò, gli esperti tedeschi e svedesi hanno
cercato di definire gli stadi che il mobbing attraversa, per cercare di capire
i metodi e le prerogative.
Il modello più famoso è quello a 4 fasi elaborato da Leymann che riflette una
percezione del mobbing prettamente applicato alla realtà lavorativa svedese, in
cui egli lavorava con una valida integrazione derivata dalle sue radici
culturali tedesche; per questo il modello di Leymann oltre che nell'area
scandinava si presta in modo eccezionale all'applicazione anche all'interno di
studi condotti in Germania.
Harald Ege, a cui si deve l'introduzione di questa tematica in Italia, ha
apportato degli aggiustamenti al modello base di Leymann per renderlo adatto
all'applicazione alla realtà lavorativa italiana.
Questa correzione si è resa necessaria non perché il modello base fosse
inesatto ma perchè erano le caratteristiche stesse della realtà sociale
italiana troppo distanti e non confrontabili con quella germanica o nordeuropea
all'interno della quale il modello era stato elaborato.
Il modello italiano di Ege si compone di 6 fasi di mobbing vero e proprio,
legate logicamente tra loro e precedute da una sorta di pre-fase detta 'condizione
zero' che non è ancora Mobbing ma ne costituisce l'indispensabile
presupposto.
La 'condizione zero'.
Si tratta di una pre-fase normalmente presente in Italia ma sconosciuta nella
cultura nordeuropea: il conflitto fisiologico, normale ed accettato. Una tipica
azienda italiana è conflittuale. Si tratta di conflitto generalizzato, che vede
tutti contro tutti e non ha una vittima definita: diverbi d'opinione,
discussioni e piccole accuse reciproche.
La prima fase: il conflitto mirato.
Si individua una vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale.
Il conflitto fisiologico prende una direzione, l'obiettivo è quello di
distruggere l'avversario, il conflitto non è più oggettivo e limitato al lavoro
ma si sposta verso argomenti privati.
La seconda fase: l'inizio del mobbing.
La vittima inizia ad avere un senso di disagio e fastidio, percepisce un
inasprimento delle relazioni con i colleghi ed è portata ad interrogarsi su
tale mutamento.
La terza fase: primi sintomi psico-somatici.
La vittima manifesta i primi problemi di salute e questa situazione può
protrarsi per lungo tempo. Questi primi sintomi riguardano in genere un senso
di insicurezza, l'insorgere dell'insonnia e problemi digestivi.
La quarta fase: errori ed abusi dell'Amministrazione del
Personale.
Il caso Mobbing diventa pubblico e spesso viene favorito dagli errori di
valutazione da parte dell'ufficio del Personale. Diventano più frequenti le
assenze per malattia, l'Amministrazione del Personale si insospettisce, inizia
ad indagare invia richiami disciplinari alla vittima.
La quinta fase: serio aggravamento della salute psico-fisica della
vittima.
Il mobbizzato entra in una situazione di vera disperazione, di solito soffre di
forme depressive più o meno gravi e si cura con psicofarmaci e terapie, che
hanno solo un effetto palliativo in quanto il problema sul lavoro non solo
resta, ma tende ad aggravarsi. Gli errori da parte dell'amministrazione sono di
solito dovuti alla mancanza di conoscenza del fenomeno Mobbing e delle sue
caratteristiche; infatti, i provvedimenti adottati sono pericolosi per la
vittima, poichési convincerà di essere essa stessa la causa di tutto e di
vivere in un mondo di ingiustizie dove non può far nulla precipitando ancora di
più nella depressione.
La sesta fase: esclusione dal mondo del lavoro .
Questa fase implica l'uscita della vittima dal mondo del lavoro tramite
dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al pre-pensionamento e anche ad
esiti traumatici quali il suicidio, lo sviluppo di manie ossessive, l'omicidio
o la vendetta sul mobber
Il doppio mobbing
Il doppio Mobbing è una situazione che Ege ha riscontrato in
Italia, ma di cui non si trova traccia nella ricerca europea. Questo fenomeno è
legato al ruolo particolare che la famiglia ricopre nella società italiana.
In Italia il legame tra individuo e famiglia è molto forte: la famiglia
partecipa attivamente alla definizione sociale e personale dei suoi membri, si
interessa del loro lavoro, della loro realizzazione e dei loro problemi.
La vittima di una situazione di Mobbing tende a cercare aiuto e consiglio a
casa. Qui sfogherà la rabbia, l'insoddisfazione o la depressione che ha
accumulato durante la giornata lavorativa. E la famiglia assorbirà
inevitabilmente tutta questa negatività, cercando di dispensare al suo
componente in crisi, aiuto, comprensione, rifugio dai problemi: la crisi
porterà necessariamente a uno squilibrio dei rapporti, ma la famiglia ha più
risorse del singolo e riuscirà a tamponare la falla. Il Mobbing non è un
normale conflitto, un periodo di crisi che si concluderà presto.
Il Mobbing è uno stillicidio di persecuzioni, attacchi e umiliazioni che perdura nel tempo, e alla lunga è devastante. La vittima trasmette la propria sofferenza al coniuge, ai li, ai genitori il più delle volte per anni. illogorìo attacca la famiglia che resisteràper un certo tempo finchè le risorse saranno esaurite ed anch'essa entra in crisi: la famiglia è satura. Se questo avviene la situazione della vittima di Mobbing crolla. La famiglia protettrice cambia atteggiamento, cessando di sostenere la vittima e cominciando a proteggersi dalla forza distruttiva del Mobbing. La vittima diventa una minaccia per l'integrità e la salute del nucleo familiare, che ora pensa a proteggersi prima, ed a contrattaccare poi. Naturalmente si tratta di un processo inconscio: nessun membro sarà consapevole di non aiutare più il familiare. Il doppio Mobbing è la situazione in cui la vittima è bersagliata sul posto di lavoro e per di più privata della comprensione e dell'aiuto della famiglia.
Le conseguenze del mobbing
Il Mobbing è una pratica dannosa e realmente criminale: le sue
intenzioni sono dettate da sentimenti profondamente distruttivi verso gli altri
e i suoi esiti sono sconvolgenti, i maggiori danni li subiscono il mobbizzato e
l'azienda. Dai dati emersi dalla II Ricerca Europea sulle Condizioni di Lavoro,
condotta sulla base di 16.000 interviste a lavoratori di tutta l'Unione
europea. ogni anno circa 6 milioni di lavoratori (il 14% di tutti i lavoratori)
sono soggetti a violenza fisica, 12 milioni (1'8%) subiscono intimidazioni e
mobbing e 3 milioni (il 2%) sono vittima di molestie sessuali. Le ricerche
condotte all'estero hanno dimostrato che il Mobbing può portare fino
all'invalidità psicologica, e che quindi si può parlare di malauie
professionali o di infortuni sul lavoro.
In Sa un'indagine statistica ha dimostrato che una percentuale stimata tra
il lO ed il 20% del totale dei suicidi in un anno ha avuto come causa
scatenante il Mobbing.
In Sa e Germania centinaia di migliaia di persone sono finite in
prepensionamento o addirittura in clinica psichiatrica.
In casi di questo tipo, i costi non hanno investito solo l'azienda di lavoro ma
anche la società stessa: un lavoratore costretto alla pensione a soli 40 anni costa
alla società 1 miliardo e 200 milioni di lire in più di uno pensionato all'età
prevista.
. Secondo le prime ricerche, in Italia oggi soffrono per Mobbing oltre 1
milione di lavoratori, mentre sui 5 milioni è stimato il numero di persone
coinvolte in qualche modo nel fenomeno, come spettatori o amici e familiari
della vittima (fonti internet).
Il dott. Ege ha fatto i calcoli riguardo un caso di Mobbing in cui si è
imbattuto. In un'azienda due persone erano sistematicamente 'mobbizzate',
dopo sei mesi, una vittima aveva ridotta la sua prestazione lavorativa del 40%,
l'altra del 60% e questo soltanto prendendo in considerazione il rendimento.
Gli stessi in un anno, avevano totalizzato uno otto settimane di malattia e
l'altro dieci.
Sommando il calo delle prestazioni alle assenze retribuite per malattia in un
anno, l'azienda aveva subito in un caso una perdita del 29,2% e nell' altro del
41,5%. A queste cifre il dott. Ege ha aggiunto i costi dei sostituti durante le
assenze delle vittime e la perdita di tempo lavorativo dei mobber (il 5% delle
loro capacità totali erano usate per compiere azioni mobbizzanti).
Alla fine la perdita totale calcolata dell'azienda in un anno era di ben il
190,7%!
Conclusioni
Come si può agire sul versante della prevenzione del Mobbing e del
conflitto sul lavoro? Secondo Ege le direzioni nelle quali è possibile operare
sono due: puntare sull'azienda con una formazione mirata che corregga ed
indirizzi adeguatamente il lavoro dell'Ufficio Risorse umane oltre a creare la
'cultura del litigio-; dedicarsi ai singoli individui, con una formazione
personale che prepari le persone al conflitto insegnando loro le tecniche di
autodifesa verbale.
Entrambi gli interventi mirano ad impedire che un banale conflitto possa
diventare un vero caso di :Mobbing.
Creare all'interno di una azienda la 'cultura del litigio' significa
intervenire sulla politica e sull'atteggiamento direttivo, rivedere determinate
scelte e metodi per arrivare a una migliore gestione delle situazioni critiche
in generale.
Possedere 'la cultura del litigio' non significa avere nuove armi con
cui reagire al conflitto, bensì avere una visione più chiara e definita del
conflitto stesso, a beneficio dell'azienda, ma anche dei dipendenti e delle
loro famiglie.
L'obiettivo principale della cultura del litigio è la trasparenza del
conflitto, vedere un conflitto come una pura e semplice diversità di vedute o
di opinioni. Per giungere a questa visione imparziale ed obiettiva
occorresecondo il dotto Ege de-emozionare il conflitto.
Il conflitto non riconosciuto e adeguatamente affrontato continua a muoversi e
ad espandersi sotto la superficie dell'apparente 'normalità, creando
malumore, scontentezza ed insicurezza'.
Se si ha il coraggio di parlare apertamente dei problemi, dei disagi e delle
incomprensioni, o se si è incoraggiati da determinati atteggiamenti aziendali
di apertura e di ascolto, il conflitto non è più tabù.
In certe aziende tedesche esistono delle vere e proprie Konfliktzimmer, cioè
delle 'stanze del conflitto' in cui i dipendenti possono riunirsi per
discutere e chiarire i problemi; se la discussione si rivela più aspra del
previsto e i contendenti non riescono a trovare un punto di accordo, c'è la
possibilità di far entrare in gioco un Konfliktmanager cioè uno specialista del
conflitto.
In un ambiente privo della cultura del litigio, un conflitto lavorativo consuma
le energie dei due contendenti le une contro le altre. La cultura del litigio
permette di utilizzare insieme le risorse dei due contendenti. Dalla sinergia
possono scaturire nuove e rivoluzionarie prospettive e soluzioni creative ed
efficaci.
Burn-out in Sanità: sindrome da stress o malattia professionale? |
Il termine burn-out che in italiano può essere tradotto come "bruciato",
"scoppiato", "esaurito", ha fatto la sua prima apparizione nel gergo del mondo
dello sport nel 1930 per indicare l'incapacità di un atleta, dopo alcuni
successi, ad ottenere ulteriori risultati e/o mantenere quelli acquisiti.Lo
stesso termine è stato riproposto in
ambito socio-sanitario per la prima
volta nel 1975 dalla psichiatra americana C. Maslach la quale, nel corso di un
convegno, utilizzò questo termine per definire una sindrome i cui sintomi
testimoniano l'evenienza di una patologia comportamentale a carico di tutte le
professioni ad elevata implicazione relazionale.
Alcuni Autori identificano il burn-out con lo stress lavorativo specifico delle
helping professions , le professioni dell'aiuto che comprendono ure
come medici, psicologi, infermieri, insegnanti, assistenti sociali ecc .
La definizione che la Maslach fornisce del burn-out è di "sindrome
caratterizzata da esaurimento emozionale, depersonalizzazione e riduzione delle
capacità personali".
Le cause del fenomeno più frequenti sono: il lavoro in strutture mal gestite,
la scarsa o inadeguata retribuzione, l'organizzazione del lavoro disfunzionale
o patologica, lo svolgimento di mansioni frustranti o inadeguate alle proprie aspettative oltre
all'insufficiente autonomia decisionale e a sovraccarichi di lavoro.
La sindrome si caratterizza per una condizione di nervosismo, irrequietezza,
apatia, indifferenza, cinismo, ostilità degli operatori sociosanitari, sia fra
loro sia verso terzi, che però si
distingue dallo stress, eventuale concausa del burn-out così come si distingue
dalle varie forme di nevrosi, in quanto non disturbo della personalità ma del
ruolo lavorativo.
Queste manifestazioni psicologiche e comportamentali possono essere
raggruppate, come dalla precedente definizione della Maslach, in tre categorie
di disturbi: l'esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la ridotta
realizzazione personale.
L'esaurimento emotivo consiste nel sentimento di essere emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un inaridimento emotivo nel rapporto con gli altri.
La depersonalizzazione si manifesta come un atteggiamento di allontanamento e di rifiuto (risposte comportamentali negative e sgarbate) nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura.
La ridotta realizzazione personale riguarda la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, la caduta dell'autostima e la sensazione di insuccesso nel proprio lavoro.
Il soggetto colpito da burn-out manifesta sintomi aspecifici (irrequietezza,
senso di stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, insonnia), sintomi
somatici con insorgenza di vere e proprie patologie (ulcere, cefalee, aumento o
diminuzione ponderale, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali ecc.),
sintomi psicologici (depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione
di fallimento, rabbia, risentimento,
irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno,
indifferenza, negativismo, isolamento, sensazione di immobilismo, sospetto e
paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, difficoltà nelle
relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti
degli utenti e critico nei confronti dei colleghi). Tale situazione di disagio
molto spesso induce il soggetto ad abuso di alcool, di psicofarmaci o fumo.
Dal punto di vista clinico e psicopatologico la sindrome del burn-out va
differenziata dalla già nota sindrome da disadattamento: sociale, lavorativo,
familiare, relazionale. La sua originalità è rappresentata dal fatto che essa
si verifica all'interno del mondo emozionale della persona ed è spesso
scatenata da una vicenda esterna. La sindrome del burn-out potrebbe essere
paragonata ad una sorta di virus dell'anima, perché sottile, invisibile,
penetrante, continua, ingravescente. Se non si interviene determina l'exitus
volitivo ed energetico, non solo lavorativo, della persona.
L'insorgenza della sindrome negli operatori sanitari segue generalmente quattro fasi:
la prima fase (entusiasmo idealistico) è caratterizzata dalle motivazioni che hanno indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale, ovvero motivazioni consapevoli (migliorare il mondo e se stessi, sicurezza di impiego, svolgere un lavoro meno manuale e di maggior prestigio) e motivazioni inconsce (desiderio di approfondire la conoscenza di sé e di esercitare una forma di potere o di controllo sugli altri); tali motivazioni sono spesso accomnate da aspettative di "onnipotenza", di soluzioni semplici, di successo generalizzato e immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status e altre ancora. C'è in tutto questo quasi una difficoltà a leggere in modo adeguato il dato di "realtà": infatti, esiste una logica secondo la quale il venire a capo di una situazione difficile non dipende dalla natura della situazione, ma essenzialmente dalle proprie capacità e dai propri sforzi; se dunque il problema non viene risolto, ciò sta a significare che non si è stati all'altezza .
Nella seconda fase (stagnazione) l'operatore continua a lavorare ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni. I risultati del forte impegno iniziale sono via via sempre più inconsistenti. Si passa così da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno dove il sentimento di profonda delusione avanza determinando nell'operatore una chiusura verso l'ambiente di lavoro ed i colleghi.
La fase più critica del burn-out è la terza (frustrazione). Il pensiero dominante dell'operatore è di non essere più in grado di aiutare nessuno, con profonda sensazione di inutilità e di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell'utenza. Il vissuto dell'operatore è un vissuto di perdita, di svuotamento, di crisi di emozioni creative e di valori considerati fondamentali fino a quel momento. Come fattori di frustrazione aggiuntivi intervengono lo scarso apprezzamento sia da parte dei superiori sia da parte degli utenti, nonché la convinzione di una inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto. Il soggetto frustrato può assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri) e spesso mette in atto comportamenti di fuga (quali allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate, frequenti assenze per malattia).
Il graduale disimpegno emozionale conseguente alla frustrazione, con passaggio dalla empatia all'apatia, costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste a una vera e propria morte professionale.
Questo progressivo susseguirsi di fasi da un livello molto
alto di motivazione ed aspettative ad un livello di demotivazione e di
vissuti di profonda infelicità e
frustrazione, è riconducibile ad una visione del lavoro sociale fortemente
influenzata da una ideologia di tipo assistenziale, per la quale medici,
psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori, ecc. sono ancora
considerati come professionisti di un tipo di lavoro inadeguatamente retribuito
e di beneficenza.
I servizi sanitari, sociali e culturali sono considerati una prova della
munificenza statale. L'utente non è un cliente, ma un postulante cui viene fatta l'elemosina di una
prestazione d'aiuto (G. Contessa, 1995).
Questa ideologia, ancora molto diffusa in Italia, ha condotto gli operatori del
sociale a sviluppare un forte spirito salvifico e sentimenti di onnipotenza nei
riguardi degli utenti che non hanno poteri e sono identificati come
"rappresentanti della malattia", coloro che devono chiedere aiuto perché si
trovano in uno stato d'inferiorità.
Ma l'incontro con i bisogni dell'utenza porta l'operatore del sociale a
dimenticare, o meglio a trascurare inconsapevolmente
i propri bisogni profondi e le proprie motivazioni. Questo atteggiamento, come
abbiamo visto nelle quattro fasi precedentemente descritte, si trasforma
gradualmente in un senso di impotenza, di disagio, che rende l'operatore,
precedentemente immerso in una immagine di salute, bontà e potere, vittima del
dolore, del disagio e del bisogno espressi dall'utente. L'impossibilità di
aiutare facilita quindi l'insorgenza del dubbio circa le proprie capacità e
l'operatore, che era partito da una fortissima idealizzazione della
professione, sperimenta la frustrazione prima e il burn-out poi. Nella
concretezza quotidiana le capacità personali giocano un ruolo importantissimo
almeno quanto le capacità tecnico-professionali. Per capacità o abilità
personali in psicologia s'intendono l'empatia, la capacità di adattamento alle
diverse situazioni, l'autocontrollo, l'iniziativa e la fiducia in se stessi, la
competenza nella gestione del lavoro e la capacità nel costruire relazioni in
modo creativo ed efficiente. Ciò che D. Goleman definisce "intelligenza
emotiva" è appunto la capacità delle persone di affrontare in modo efficace ed
ottimale le difficoltà della vita. La possibilità di contattare intimamente le
proprie emozioni è data proprio da questa intelligenza emotiva e consente
all'individuo di sviluppare la propria
personalità in modo flessibile e creativo. Tutto ciò, proiettato all'interno
della relazione medico-paziente consentirebbe al primo di essere empatico e
sensibile alle reali esigenze del secondo.
Nel burn-out esiste la difficoltà di misurarsi con le proprie emozioni e quindi
il non riconoscimento del problema con conseguente sentimento di rassegnazione
rispetto alla vita.
E' questo un modo o meglio un tipo di difesa che consente di attenuare la sofferenza:
spesso si sente dire dagli operatori in burn-out "così è la vita", uno slogan
questo che insinua, a lungo andare, in queste persone l'idea che il modo in cui
vanno le cose in questo tipo di lavoro è il modo in cui vanno le cose in tutti
i lavori! Non c'è soluzione!
Occorre provare ad ascoltarsi, a guardarsi dentro, a recuperare dentro di sé la
propria motivazione e la propria capacità di alimentare desideri. Di fronte
alle macerie dei propri ideali è quasi "normale" sentire il peso del fallimento
delle proprie prospettive di autorealizzazione.
C'è da dire inoltre che il burn-out non è affatto un problema personale che
riguarda solo chi ne è affetto, ma è una "malattia" contagiosa che si proa
in maniera altalenante dall'utenza all'équipe, da un membro dell'équipe
all'altro e dall'équipe agli utenti e riguarda quindi l'intera organizzazione
dei servizi, degli utenti della comunità oltre che il singolo individuo.
Le conseguenze di tutto ciò sono, come precedentemente detto, molto gravi e si possono schematizzare in tre livelli:
il livello degli operatori che ano il burn-out in termini personali, anche attraverso gravi somatizzazioni, ma soprattutto attraverso dispersione di risorse, frustrazioni e sottoutilizzazioni di potenziali;
il livello degli utenti, per i quali un contatto con gli operatori sociali in burn-out risulta frustrante, inefficace e dannoso;
il livello della comunità in generale che vede svanire forti investimenti nei servizi sociali.
Abbiamo quindi visto quali sono i fattori che determinano e nel tempo alimentano la sindrome del burn-out
e abbiamo visto anche quali modelli di difesa vengono messi in atto da chi è
vittima di questa sindrome. Le difese intrapsichiche di evitamento, fuga, negazione
e proiezione persecutoria sono meccanismi che non fanno che alimentare uno
stato di disagio, di perdita di ideali e di "impotenza appresa" (secondo
Seligman una situazione in cui i risultati avvengono indipendentemente da ogni
risposta volontaria dell'individuo o del gruppo) e che possono essere
indicatori di inadeguatezze organizzative e di realtà socio-lavorative carenti
dal punto di vista della gestione delle risorse.
La prevenzione o il superamento di una situazione di burn-out non può
prescindere da un reale cambiamento delle condizioni in cui lavora l'operatore.
L'organizzazione del lavoro d'aiuto deve pertanto prevedere innanzitutto la
creazione di un clima lavorativo (cioè lo stato d'animo del sistema) positivo
attraverso l'analisi e il confronto delle motivazioni e delle prestazioni
dell'équipe lavorativa contemporaneamente ad un attento esame che tenga
presenti realtà quali la legislazione, i cambiamenti culturali e strutturali
organizzativi dei servizi, le gerarchie e i relativi ruoli, i poteri e le
responsabilità, le competenze e la formazione professionale.
Garantire un clima che sia gratificante per l'operatore significa gestire il
suo carico emotivo personale a favore della promozione del benessere
psicofisico e prevenire problematiche relative a stress lavorativo.
Occorre quindi richiamare l'attenzione sull'importanza fondamentale della prevenzione e della terapia di una sindrome
come quella del burn-out, che rappresenta senz'altro la patologia di
un'organizzazione lavorativa (la cosiddetta "organizzazione disorganizzata"), con
conseguenti ripercussioni negative sia sulla salute dell' operatore sia sulla
qualità dei servizi forniti alla collettività degli utenti.
A qualsiasi livello agisca l'operatore delle helping professions esistono
strategie di intervento (identificate da Cherniss) per prevenire il burn-out.
Esse sono indicate nella tabella seguente e possono rappresentare un utile
contributo per la pianificazione di un programma mirato alla risoluzione di
questo problema.
Strategie per la Prevenzione del Burn-Out
Sviluppo dello Staff
Ridurre le richieste imposte agli operatori da loro stessi attraverso l'incoraggiamento ad adottare obiettivi più realistici.
Incoraggiare gli operatori ad adottare nuovi obiettivi che possano fornire alternative di gratificazione.
Aiutare gli operatori a sviluppare ed utilizzare meccanismi di controllo e di feed-back sensibili a vantaggi a breve termine.
Fornire frequenti possibilità di training per incrementare l'efficienza del ruolo.
Insegnare allo staff a difendersi mediante strategie quali lo studio del tempo e le tecniche di strutturazione del tempo.
Orientare il nuovo staff fornendo un libretto che descriva realisticamente le frustrazioni e difficoltà tipiche che insorgono sul lavoro.
Fornire periodici "controlli del burn-out" a tutto lo staff.
Fornire consulenza centrata sul lavoro o incontri per lo staff che sta sperimentando elevati livelli di stress nel proprio lavoro.
Incoraggiare lo sviluppo di gruppi di sostegno e/o sistemi di scambio di risorse.
Cambiamenti di Lavoro e delle Strutture di Ruolo
Limitare il numero di pazienti di cui lo staff è responsabile in un determinato periodo.
Distribuire tra i membri dello staff i compiti più difficili e meno gratificanti ed esigere dallo staff che lavori in più di un ruolo e programma.
Pianificare ogni giorno in modo che le attività gratificanti e quelle non gratificanti siano alternate.
Strutturare i ruoli in modo da permettere agli operatori di prendersi "periodi di riposo" quando è necessario.
Utilizzare personale ausiliario (e volontari) per fornire allo staff ordinario possibilità di riposo.
Incoraggiare gli operatori a prendersi frequenti vacanze, anche con un breve preavviso se necessario.
Limitare il numero di ore di lavoro di ogni membro dello staff.
Non incoraggiare il lavoro part-time.
Dare ad ogni membro dello staff la possibilità di creare nuovi programmi.
Costituire varie fasi di carriera per tutto lo staff.
Sviluppo della Gestione
Creare programmi di training e sviluppo per il personale attuale e futuro che si dedica alla supervisione, accentuando quegli aspetti del ruolo che gli amministratori hanno già difficoltà ad affrontare.
Creare sistemi di controllo per i supervisori, quali indagini tra lo staff, e fornire al personale della supervisione un feed-back regolare sulle loro prestazioni.
Controllare la tensione di ruolo nei supervisori e intervenire quando essa diventa eccessiva.
Soluzione del Problema Organizzativo e Momento Decisionale
Creare meccanismi formali di gruppo per la soluzione del problema organizzativo e la risoluzione del conflitto.
Organizzare training per la risoluzione del conflitto e la soluzione dei problemi di gruppo per tutto lo staff.
Accentuare l'autonomia dello staff e la partecipazione alle decisioni.
Obiettivi del Centro e Modelli di Gestione
Rendere gli obiettivi chiari e compatibili per quanto possibile.
Sviluppare un forte ed originale modello di gestione.
Rendere la formazione e la ricerca i maggiori obiettivi del programma.
Condividere la responsabilità delle cure e della terapia con i pazienti, le loro famiglie e la comunità sociale.
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