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INDICE
PSICOLOGIA SCIENTIFICA . . . . . . . . . . . " 10
Psicologia: breve excursus storico . . . . . . . .. " 10
Psicologia come disciplina autonoma . . . . . . . " 18
Psicologia come scienza . . . . . . . . . . . .. " 28
1.3.1. L'indagine in Psicologia " 34
1.3.2. Metodi non sperimentali " 43
1.3.3. Metodi sperimentali " 50
IL SISTEMA NERVOSO: CENNI SULL'ORGANIZZAZIONE MORFOFUNZIONALE . . . . . . . . . . . . . " 62
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . 62
Studi sul cervello e sulla localizzazione
delle sue funzioni . . . . . . . . . . . . . " 64
2.3. Anatomia del sistema nervoso . . . . . . . . . . " 70
2.3.1. La cellula nervosa " 70
2.3.2. Sistema nervoso centrale e
sistema nervoso periferico " 71
2.4. Studi sugli effetti delle lesioni cerebrali . . . . . " 77
2.4.1. Lesioni ai lobi occipitali-parietali " 78
2.4.2. Lesioni ai lobi temporali . . . . . . . . .. " 81
2.4.3. Lesioni ai lobi frontali . . . . . . . . . .. " 84
Studi sul cervello diviso . . . . . . . . . . . . " 87
ASIMMETRIE MORFOFUNZIONALI NEI VERTEBRATI INFERIORI E SUPERIORI . . . . . . . . . . . . . " 100
3.1. Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . .. " 100
3.2. Pesci, anfibi e rettili . . . . . . . . . . . . . " 104
. Uccelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . " 110
. Topi e ratti . . . . . . . . . . . . . . . . " 117
Altri mammiferi . . . . . . . . . . . . . . . " 125
. Primati non-umani . . . . . . . . . . . . . " 130
3.6.1. Asimmetrie morfofunzionali
nei primati non-umani " 132
3.6.2. Asimmetrie morfofunzionali
nei primati umani " 136
3.6.3. L'uomo e i suoi progenitori diretti " 140
3.7. Teorie sulla lateralizzazione . . . . . . . . . . " 145
PSICOLOGIA SCIENTIFICA.
1.1. Psicologia: breve excursus storico.
Tutto ciò faceva già pensare ad un eccelso sviluppo delle scienze incentrate sullo studio dell'essere umano, ma il periodo romano e, ancora di più, il Medioevo bloccarono sul nascere gli interessi attorno all'uomo. Secondo le concezioni del tempo, infatti, alla testa del mondo vi era Dio e da lui discendevano direttamente l'uomo e tutte le sue componenti; inutile appariva, dunque, uno studio dell'anima o delle forme di vita sociale. Soltanto sul finire del XIV secolo lo scenario incominciava a mutare: s'imponevano dei concetti, caratteristici del periodo rinascimentale, che rivalutavano l'uomo inteso come membro attivo della natura; certo si era ancora lontani dal farne un oggetto di studio, visti gli interessi che circolavano per magie, alchimie e costellazioni, ma le barriere erette dal pensiero cristiano cominciavano a sgretolarsi. Sulla scena rinascimentale operavano ancora maghi ed astrologi, ma vicino era il trapasso da questi ai moderni scienziati.
Un primo passo verso tale cambiamento si ebbe grazie a sectiunesio (1596-l650); le idee del filosofo francese rappresentano, infatti, una pietra miliare per la nascita di una scienza dell'uomo. René Dessectiunes sviluppò i temi fondamentali del Rinascimento, (il riconoscimento della soggettività umana e l'esigenza di approfondirla e chiarirla con un ritorno a se stessa, il riconoscimento del rapporto dell'uomo col mondo e l'esigenza di risolverlo in favore dell'uomo) e li pose come nuovi problemi in cui fossero coinvolti assieme l'uomo come soggetto e il mondo oggettivo. In sintesi, ciò che è fondamentale ricordare della sua teoria, è, in primo luogo, la distinzione tra res cogitans e res extensa, in altre parole tra anima pensante e corpo, inteso come macchina e, in secondo luogo, la dottrina delle idee innate.
Il dualismo sectiunesiano, ponendo l'accento sulla separazione tra materia e spirito, che comunque interagiscono a livello della ghiandola pineale, spazzò via problemi religiosi che potevano riguardare la res cogitans ma non la res extensa. Il corpo fu inteso come una macchina perfetta che funziona autonomamente; quest'idea diede un impulso notevole alle ricerche anatomiche e fisiologiche e demolì le barriere che impedivano di studiare l'uomo con gli strumenti della scienza.
Tutto ciò si consolida con la dottrina delle idee innate: per il filosofo francese, oltre le idee dei sensi, della memoria che nascono dal rapporto mente-realtà, e oltre quelle costruite direttamente dalla mente, vi sono le idee innate che nascono all'interno dell'uomo. Proprio grazie a loro è possibile, ancora di più, una totale indipendenza tra il corpo e la mente; infatti, la mente non ha bisogno del corpo per esplicare la sua azione, visto che essa possiede già, in modo innato, i principi che le permettono di funzionare.
Manca ancora molto, è evidente, perché si abbia una scienza dell'uomo, con le caratteristiche che oggi le riconosciamo, ma tanti furono i cambiamenti che fornirono il loro prezioso contributo al formarsi di detta scienza.
Il pensiero sectiunesiano si diffuse rapidamente e variegate furono le reazioni tra gli studiosi. Nacquero, così, correnti di pensiero che approvavano o rifiutavano parti della teoria di sectiunesio: in Inghilterra, gli empiristi, con Locke (1632-l704), si opposero fermamente alla dottrina delle idee innate, contrapponendovi l'intelletto, termine adoperato per la prima volta; esso rappresentava, nell'uomo, la facoltà di cogliere l'ambiente attorno. Importantissimo tale concetto, dal momento che la discussione non s'incentrava più sull'essenza della mente, ma sui suoi processi, eliminando così vecchie dispute metafisiche strettamente legate alla natura della mente. ivano, allora, nuovi orizzonti: interessi rivolti sia verso i processi propri dell'intelletto, sia verso i rapporti mente-corpo. Un esempio significativo di tali indagini, lo abbiamo con Hume (1711-l776) che descrisse le associazioni tra le idee come processi fondamentali dell'intelletto, ossia "una dolce forza che comunemente s'impone facendo che la mente venga trasportata da un'idea all'altra."
Un medico, Hartley (1705-l756), s'interessò dei rapporti mente-corpo, rifacendosi alle idee dei suoi contemporanei. La sua teoria in particolare, derivava le associazioni mentali da vibrazioni, che gli oggetti esterni provocavano al sistema nervoso attraverso gli organi di senso. Molti altri furono gli associazionisti di quel periodo che diedero il loro contributo per la nascita di una psicologia scientifica. Naturalmente, anche altre nazioni svilupparono teorie, analoghe o contrastanti di enorme importanza.
In Francia, Condillac (1715-l780) abbandonò deliberatamente il problema metafisico dell'essenza dell'uomo per dedicarsi ad uno studio scientifico dei processi psicologici, paragonando l'uomo agli animali. Fu Buffon (1707-l788) ad inserire concretamente l'uomo nel cosiddetto regno animale, proponendo una storia naturale dell'uomo che vedeva l'essere umano parte integrante della natura, da studiare in toto al di là delle implicazioni metafisiche sulla sua essenza. Ed ancora si debbono menzionare i contributi di La Mettrie (1709-l751) per il quale "il cervello ha i suoi muscoli per pensare come le gambe hanno i loro per camminare", e l'anima non è altro che la molla principale di tutta la macchina, ma che si governa per volontà del corpo; di Cabanis (1757-l808), per il quale, invece, non vi è dipendenza del corpo dall'anima: fisico e morale sono collegati strettamente, ma poli opposti di un'unica dimensione. Da menzionare è l'importanza che in questa teoria si attribuisce al sistema nervoso: il morale è funzione del cervello ed è principio regolatore del fisico. Anche se non si possono certo considerare irrilevanti queste teorie, fu la Germania del settecento a rappresentare il luogo adatto per colmare le distanze esistenti tra le varie correnti di pensiero, sia in campo filosofico che scientifico. Fondamentale fu il contributo di Kant (1724-l804), nel dare un impulso decisivo agli studi psicologici, e decisivo quello del suo successore, Herbart (1766-l841); mentre Kant favorì il superamento della disputa tra razionalisti ed empiristi e della distinzione tra psicologia razionale ed empirica, proposta da C. Wolff (1679-l754), assertore dell'esistenza di una psicologia propriamente detta, Herbart fu il primo ad affermare che la psicologia è scienza. Questi parlò di una scienza metafisica e non sperimentale in quanto una scienza sperimentale è necessariamente analitica mentre la mente per natura è unitaria; una scienza autonoma, dunque, non subordinata né alla filosofia né alla fisiologia. La sua psicologia si fondava soprattutto sulla matematica e da ciò derivava la necessità di una misurazione dei fatti psichici; entrava così in scena l'aspetto quantitativo, che, se non ebbe una trattazione soddisfacente da parte di Herbart, si propose come nuovo elemento da considerare successivamente. L'uomo giusto per tale approfondimento fu un fisico, Fechner (1801-l887), grazie al quale si aggiunse un tassello importante per la fondazione di una psicologia scientifica; partendo dall'assunto dell'identità tra spirito e materia, s'impegnò a ricavare una legge che stabilisse il rapporto tra gli aumenti di energia corporea e gli aumenti di energia mentale e riuscì nel suo intento con la formulazione della legge di Weber e lo sviluppo di tre metodi di misurazione, che si rivelarono essenzialmente psicologici ma atti ad esprimere quantitativamente fenomeni psichici. Nasceva, dunque, la psicofisica. Appare evidente quanto fu determinante in quel periodo l'apporto di altre scienze alla nascita della psicologia scientifica: la fisiologia fu sicuramente quella che vi contribuì maggiormente, basta infatti ricordare i tributi di Bell (1811) e Magendie (1822), che dimostrarono l'indipendenza delle vie sensorie dalle vie motorie; di Muller (1834) che con la legge dell'energia nervosa specifica derivò la qualità delle sensazioni non già dal tipo di stimolazione che si esercita sugli organi di senso, ma dal tipo di organi di senso che vengono stimolati; ed infine del fisiologo Helmholtz (1821-l894), che approfondì la distinzione di Muller, suo maestro, eliminando definitivamente la confusione tra soggetto che percepisce e cosa percepita.
I tempi erano maturi e questo percorso avviatosi dall'antica Grecia e sviluppatosi nel corso degli anni, portò alfine alla nascita dello studio specifico dei processi psichici: a Lipsia, nel 1879, ad opera di W. Wundt (1832-l920), veniva fondato il primo Istituto di psicologia.
Questo scienziato è ricordato in tutti i manuali di psicologia come colui che scorporò la psicologia dalle altre discipline, in modo particolare dalla filosofia, conferendole un proprio statuto teorico e definendone sia oggetto d'indagine sia metodologia. Certo Wundt non inventò dal nulla tutto ciò, ma ebbe il gran merito di saper sintetizzare mirabilmente gli sforzi e i risultati che l'avevano preceduto, sì da costituire la psicologia come scienza indipendente.
1.2. Psicologia come disciplina autonoma
Wundt è considerato il primo psicologo, il primo maestro di questa nuova disciplina; riuscì a superare tutti gli ostacoli che per anni avevano impedito l'istituzione di una dottrina scientifica svincolata dalle altre ed a portare a compimento un lungo e faticoso percorso che si era sviluppato, negli anni, tra tante controversie. Secondo Marhaba (1976) il principale metodo di Wundt fu quello di aver codificato "con estremo rigore il metodo sperimentale nell'ambito dell'indagine psicologica, insistendo per primo sull'importanza dell'accurata identificazione, dello stretto controllo e della precisa quantificazione delle variabili psichiche e polemizzando con chi trovava un'incompatibilità di fondo fra ricerca psicologica e sperimentazione in laboratorio"(Legrenzi, 1982). Tutto ciò era sempre mancato alla psicologia, a causa della complessità del proprio oggetto di studio: la coscienza umana, e quindi l'anima, da sempre considerate manifestazioni della vita spirituale e, come tali, non sottomesse alle stesse leggi che regolavano la materia; non si poteva, dunque, avvicinarsi ad esse con l'interpretazione causale tipica della ricerca scientifica; solo l'autosservazione e l'introspezione potevano descrivere le espressioni di un mondo particolare, lontano dal mondo materiale, queste erano, però, incapaci di fornire una descrizione oggettiva e scientifica.
Per questo motivo, si era delineata una divisione in due campi della psicologia: la psicologia scientifica, naturale in grado di studiare le cause dei processi psichici inferiori e di fissarne le leggi oggettive, e la psicologia descrittiva o soggettiva, incentrata sulle forme superiori della vita cosciente dell'uomo, ossia le manifestazioni del suo spirito (Luria, 1985). Furono prodotti più e più tentativi per risolvere questa dualità, cercando di applicare allo studio dei processi psichici la metodologia scientifica propria delle scienze naturali. Durante i suoi primi passi di vita, la psicologia è ancora contraddistinta dall'approccio dualistico; lo stesso Wundt vive le contraddittorietà di tale impostazione, da un lato contrapponendosi alla tradizionale psicologia dell'introspezione, definendo gli eventi mentali oggettivamente conoscibili e misurabili, dall'altro conferendo all'introspezione lo status di metodo psicologico privilegiato.
La lezione wundtiana fu appresa e sviluppata, soprattutto dal suo allievo Titchener (1867-l927), il quale elaborò un sistema rigoroso e coerente, lo strutturalismo, per il quale la psicologia è al pari della fisica; la sola differenza risiede nel fatto che l'esperienza studiata dalla prima disciplina dipende dal soggetto, mentre quella studiata dalla seconda è totalmente indipendente. Questo non impediva, ad ogni modo, all'indagine psicologica di descrivere gli elementi della coscienza e di formulare le leggi che li regolano; mentre, infatti, la fisica procedeva per mezzo dell'ispezione, la psicologia adoperava l'introspezione, che non era più quella del passato, essendo ora sottoposta "alle ferree regole del controllo sistematico sperimentale" (Marhaba, 1982).
Vi furono naturalmente anche delle reazioni agli insegnamenti che giungevano da Lipsia, le quali realizzarono teorie diverse: alla psicologia del contenuto, quella wundtiana, appunto, si oppose la psicologia dell'atto, ideata da Brentano (1883-l917), che pose all'origine l'attività dello spirito. Altra reazione fu una corrente di pensiero, la Psicologia della Gestalt (1912), che è considerata la risposta tedesca a Wundt, proprio per il tema distintivo che adottò, ossia un radicale antielementismo; esso rappresentò chiaramente un'opposizione alla procedura metodologica wundtiana che prevedeva la scomposizione di ogni fenomeno in unità semplici, preferendo al contrario, la forma totale, la struttura, l'entità organizzata. Non solo la Germania produsse effetti diversi attorno al laboratorio di Lipsia: in Russia molti studiosi seguirono le impostazioni sperimentali tedesche, affiancandovi una corrente materialistica che intendeva ridurre i processi psichici a processi fisiologici. Ci riferiamo al fisiologo Secenov (1829-l905), che considerava i processi psichici più complessi materiali e, dunque, da studiare come i fenomeni naturali; ed a Bechterev (1857-l927), fondatore della scuola di riflessologia, che poneva alla base di tutti i processi i riflessi e credeva in una psicologia oggettiva e sperimentale, scevra da riferimenti introspettivi e spiritualistici. Sempre in terra russa, non si possono certo tralasciare le teorie di Pavlov (1849-l936) sui riflessi condizionati, e l'importante influenza che esse ebbero sui successivi sviluppi della psicologia. Dagli esperimenti, infatti, che il fisiologo svolse sui cani, giunsero indicazioni ben apprezzate dagli americani: era plausibile fare delle ricerche sugli animali, visto che si potevano controllare meglio alcune variabili concomitanti, si poteva tenere in considerazione l'influenza dell'esperienza passata, vi era libertà nelle procedure e si riusciva a manipolare l'organismo con maggiore facilità. L'animale cominciava così ad essere considerato cavia da laboratorio, ottimo esemplare per giungere anche alla conoscenza psicologica dell'uomo. In America molti studiosi si dedicarono a tali ricerche, fra questi viene ricordato Thorndike (1874-l949), per i suoi esperimenti condotti sui ratti posti in labirinti. Fra tutti, emerse l'opera di Yerkes (1876-l956), che lavorò con tartarughe, rane, scimmie, corvi, maiali; tale tipo di psicologia comparata aprì la strada ad un nuovo indirizzo psicologico, che rappresentò una vera e propria rivoluzione per le concezioni del tempo, il comportamentismo.
Nel 1913 un articolo di J. B. Watson (1878-l958), in America, portò alla ribalta nuove concezioni che modificarono, in modo efficace, la psicologia ed il suo oggetto di studio. Lo studioso americano si accorse sia che, nella psicologia animale, non si affrontavano difficoltà grosse come quelle che si riscontravano utilizzando l'introspezione, sia che quei metodi ben si adattavano alla psicologia del bambino, e pose, dunque, l'accento sui limiti della vecchia metodologia e sulla validità, al contrario, dell'osservazione dall'esterno. Certo questo implicò il cambiamento dell'oggetto della psicologia; da sempre tale disciplina si era interessata allo studio dell'anima, della coscienza, ora Watson affermava che essa non poteva cogliere i dati della coscienza e doveva, per questo, concentrarsi sui comportamenti umani osservabili dall'esterno, così da porsi finalmente tra le scienze biologiche. Non veniva negata l'esistenza della coscienza, cosa che alcuni erroneamente attribuivano a tale scienziato, ma questa era considerata un concetto soggettivo non accessibile all'analisi scientifica; e per tale motivo Watson si scagliò principalmente contro il metodo introspettivo, ritenendolo non scientifico, sia perché l'osservatore s'identificava con l'osservato, sia perché le cose di cui parlava l'introspezione non potevano esser viste direttamente dagli altri. E' chiaro che prendere come oggetto di studio della psicologia il comportamento, anziché la coscienza, significò poter usare dei metodi più oggettivi, sempre sottoposti al controllo.
Il comportamentismo s'impose così a livello mondiale, anche se, ben presto, sorsero delle fratture, direttamente collegate alla spiegazione meccanicista dei fenomeni. Tenendo conto, infatti, della sola osservazione dall'esterno e, dunque, di una descrizione meccanicistica, gran parte delle forme complesse, tipiche dell'uomo, sarebbero rimaste fuori dal campo d'indagine. Si sentì il bisogno di analizzare anche i processi psichici complessi, con una psicologia scientifica che adoperasse metodi scientifici. Contemporaneamente, sorsero delle altre scuole che curavano aspetti diversi; Freud (1856-l939) approfondì il campo della psicologia clinica, segnando la nascita della psicoanalisi, che rappresentò, e rappresenta ancor oggi, sia una tecnica esplorativa con scopi terapeutici, sia un modello interpretativo e teorico della vita psichica umana. Si presentò come la psicologia del profondo, con un impianto teorico autonomo rispetto alle scienze naturali, capace di comprendere e spiegare i fenomeni psichici. Altro personaggio di gran rilievo fu certamente Piaget (1896-l980), il cui merito maggiore fu quello di volere reintrodurre la problematica psicologica in un quadro filosofico, sì da renderla indipendente dal metodo sperimentale dei comportamentisti; a Piaget si deve lo studio della psicologia dell'infanzia, che si poteva realizzare soltanto nella prospettiva di una psicologia genetica, ovvero delle tappe successive attraverso le quali si verifica il passaggio dalle forme più elementari a quelle più complesse del comportamento. Piaget adoperò un metodo osservativo e descrittivo, il colloquio clinico, che gli permise di cogliere aspetti importanti del ragionamento infantile. Frattanto si cercavano delle soluzioni ai problemi posti dalle angustie del modello stimolo-risposta. In che modo unire lo studio dei processi psichici al metodo oggettivo della psicologia scientifica? Per un grande psicologo russo, di quei tempi, Vygotskij (1896-l934) "gli oggetti della ricerca psicologica dovevano essere le forme superiori dell'attività cosciente, la definizione del loro nascere e l'individuazione delle leggi oggettive alle quali loro sono sottomesse, ma affrontandole dal punto di vista dell'analisi scientifica" (Luria, 1985).
L'unica via per dare una spiegazione delle funzioni psichiche dell'uomo era rappresentata necessariamente dal superamento dei limiti posti dall'organismo, e dal cercare le loro vere origini nella storia sociale dell'umanità. Si può, dunque, mettere in risalto il gran fervore culturale presente in quegli anni, che, in realtà, celava quello che sarebbe avvenuto di lì a poco, la rivoluzione cognitivista.
Il cognitivismo è oramai considerato una diretta filiazione del comportamentismo, poiché i suoi esponenti più importanti si ritennero sin dall'inizio, dei comportamentisti, che vivevano, però, una nuova fase detta ceno-comportamentismo. Le prime avvisaglie di cambiamento radicale si ebbero con Hebb (1947-l972), il quale presentò un nuovo modo di concepire il rapporto tra sistema nervoso e comportamento. Alcune strutture interne che permettevano al soggetto di non associare subito ad uno stimolo S una reazione R, ma di comportarsi disponendo di stimoli e risposte interne, avrebbero dato una nuova interpretazione al ruolo svolto dal cervello, che la tradizione comportamentista concepiva appena come un modello logico, lontano da una struttura neurofisiologica. Per la prima volta, l'attenzione si rivolse ai processi realizzati all'interno dell'individuo, visti in base ad un modello logico di svolgimento dei processi mentali. La preoccupazione di questa corrente di pensiero, non fu quella di identificare gli elementi del modello, ma di possedere uno schema valido sul piano logico. I modelli si sostituirono così alle ampie teorizzazioni, "incapaci di rendere giustizia alla complessità del comportamento" (Luccio, 1982). I cognitivisti ritennero che i modelli fossero una rappresentazione semplificata della realtà, in grado di spiegare ogni singolo comportamento, in ogni minimo dettaglio. Oltre a queste caratteristiche peculiari del cognitivismo, bisogna ricordare che non fu mai una scuola, non ebbe un vero e proprio manifesto che ne sancì la nascita. Molti ritengono che la storia del cognitivismo può dirsi incominciata con gli esperimenti di Craik (1947) che concepiva l'uomo come servo-meccanismo. Da tali esperimenti, risultò che l'uomo poteva essere concepito come un elaboratore di informazioni: l'uomo aveva un tipo di funzionamento discreto, il meccanismo decisore era unico, e non potevano essere eseguite più cose alla volta (Luccio, 1982). A conferma di ciò, nel 1956, un articolo di Miller dimostrava l'esistenza di un limite severo al funzionamento dei processi cognitivi dell'uomo, ossia nella quantità di informazioni che si possono elaborare per volta. Miller fissò tale limite in sette pezzi di informazioni alla volta, più o meno due, secondo il compito eseguito. Da quegli anni molto tempo è passato e fu lo stesso Neisser (1967) a muovere delle critiche al cognitivismo, ritenendo che l'attenzione cognitivista si era eccessivamente concentrata sugli esperimenti di laboratorio, lasciando poco spazio allo studio della vita di tutti i giorni; ed in più credette che il miglioramento delle ricerche, dal punto di vista della modernità e dell'ingegno, fosse fine a se stesso, in quanto esse erano sempre meno rivolte a comprendere il funzionamento dell'uomo. Si assistette così ad un'ennesima crisi che significò disgregazione all'interno del cognitivismo; sulla scia delle critiche di Neisser, si sviluppò una nuova linea, detta ecologica, alla quale si oppose la cosiddetta scienza cognitiva; gli esponenti dell'indirizzo ecologico si caratterizzano per un netto rifiuto dell'analogia uomo-calcolatore, i sostenitori della scienza cognitiva accentuano l'importanza dell'intelligenza artificiale. Un dato comune ai due approcci si riscontra, sicuramente, in un più ampio respiro teorico e in un maggiore interesse per gli aspetti più abituali dell'uomo e del suo comportamento.
Psicologia come scienza.
Seguendo lo sviluppo e il successivo affermarsi della psicologia come scienza, ci si rende conto di come tale processo sia stato complesso e caratterizzato da varie sfaccettature. La spiegazione di ciò, risiede nel fatto che seppure la scienza in sé ha delle caratteristiche chiare e definite, essa è, in ogni caso, un fenomeno variamente articolato, difficile da definire. Per chiarire il concetto di psicologia come scienza, appare necessario ricordare le caratteristiche basilari di una disciplina scientifica.
La scienza è empirica, fa, in altre parole, assegnamento sull'esperienza e non su metodi non-empirici quali l'autorità, la logica o il senso comune; conseguentemente a ciò, possiamo affermare che la scienza si autocorregge, essendo, infatti, un'attività empirica, emergono continuamente dati che correggono quelli precedenti e questa disposizione è indice del fatto che essa è in continuo progresso ed anche che è possibilista: non afferma mai di conoscere la verità assoluta, perché è sempre possibile che intervenga qualche informazione a modificare lo stato di cose precedenti. Quello che, ad ogni modo, risulta essere certamente l'attributo determinante tra ciò che è scienza e ciò che non lo è, è l'oggettività. La scienza è obiettiva: alla base di una disciplina scientifica vi debbono essere delle osservazioni obiettive, fatte in modo che persone, con percezione normale, poste nello stesso tempo e nello stesso luogo, possano giungere allo stesso risultato; essa tratta, infatti, fenomeni che sono a disposizione di tutti e possono essere osservati da tutti.
Vi è, dunque, una differenza sostanziale tra una raccolta scientifica di informazioni ed una raccolta che ciascuno di noi potrebbe compiere: sia l'uomo comune che lo scienziato si pongono dei problemi cui cercano risposta, ma mentre l'uomo comune è, solitamente, inconsapevole dei processi attraverso i quali giunge alla conclusione, lo scienziato sa, già in partenza, quali saranno le procedure che lo porteranno alla soluzione. La sua ricerca, dunque, è caratterizzata dalla sistematicità e può essere definita come "un'osservazione deliberata e controllata" (Ka, 1964). Lo scienziato usa per questi fini delle procedure, dette metodi, che generalmente consistono di diversi stadi che comprendono la definizione del problema, la formulazione di un'ipotesi, la raccolta di dati e l'elaborazione delle conclusioni.
La definizione del problema, in una ricerca scientifica, non è generalmente legata ad esigenze pratiche, come di solito, invece, avviene per l'uomo comune. Lo scienziato, infatti, pone un determinato problema in relazione allo stato di sviluppo teorico ed empirico della disciplina, ai particolari interessi nell'ambito della stessa disciplina ed alle osservazioni casuali che rivelano una lacuna nelle conoscenze disponibili.
Una di queste circostanze può far nascere un problema che deve essere formulato in modo sistematico e consapevole da parte del ricercatore che per tale obiettivo utilizza, o costruisce, una teoria di riferimento e con questa base formula delle ipotesi che possano portarlo alla soluzione del problema.
Il concetto di teoria è fondamentale all'interno di un'indagine scientifica, proprio perché sorregge il sistema che lo scienziato adopera per giungere alla spiegazione del problema. Esattamente, la teoria è "un insieme interrelato di concetti, definizioni e proposizioni che forniscono una visione sistematica dei fenomeni specificando le relazioni tra le variabili (leggi), con lo scopo di spiegare e prevedere i fenomeni stessi." (Kerlinger, 1964, citato in Ercolani, 1990). La formazione di una nuova teoria ha come scopi principali l'organizzazione delle conoscenze, la spiegazione delle leggi e la previsione di nuove leggi.
La teoria collega, infatti, tutte le conoscenze, le descrizioni e le leggi di un dato fenomeno, in un contesto unificato; fornisce spiegazioni delle leggi trovate e diventa migliore più è precisa e specifica nella spiegazione. L'ultimo e non meno importante ruolo è suggerire nuove leggi, funzione questa che si associa al guidare la ricerca aiutando i ricercatori a scegliere nuovi esperimenti e vie alternative per realizzarli. Ciò che è parte integrante della teoria è l'ipotesi, ossia un'asserzione ritenuta vera al fine di vagliarne la validità.
L'ipotesi scientifica deve mettere in collegamento i concetti della teoria, per definizione non osservabili, ad eventi comportamentali osservabili. In breve deve essere operazionalizzabile, non deve, cioè, utilizzare le definizioni concettuali delle variabili fra le quali afferma che esiste una relazione, ma le loro definizioni operative. Queste ultime indicano "ciò che il ricercatore deve fare per misurare, attraverso manifestazioni osservabili, quella determinata variabile concettuale" (Ercolani, 1990).
La scelta della definizione operativa è un passo delicato per il ricercatore, dal momento che ve ne possono essere diverse, seppur della stessa variabile.
Oltre a ciò, si può aggiungere che una buona ipotesi scientifica deve essere contraddistinta da due requisiti, la parsimonia e un livello intermedio di generalità. Essere parsimoniosa significa proporre la spiegazione più semplice possibile; il livello di generalità è determinante dal momento che ipotesi oltremodo generalizzate non possono essere operazionalizzate, mentre ipotesi troppo ristrette possono distruggere il significato del fenomeno studiato. Il ricercatore utilizza queste precise indicazioni quando decide di descrivere e spiegare un fenomeno; naturalmente tale fenomeno può essere più o meno complesso e, quindi, più o meno difficoltoso da analizzare scientificamente; affinché l'evento sia semplice e facile da indagare, il ricercatore lo trasforma in una o più variabili.
Una variabile è una delle proprietà dell'evento reale da studiare, che è stata misurata; è un attributo del fenomeno e pertanto appartiene alla realtà.
Vi sono vari tipi di variabili: indipendenti e dipendenti; quantitative e qualitative; continue e discontinue; fisiche e non-fisiche.
Fra tutte queste "coppie", la più importante è sicuramente la prima: la variabile dipendente è una misura del comportamento del soggetto, ossia la sua risposta; è così denominata proprio perché dipende da un'altra variabile, quella indipendente, lo stimolo che causa delle modificazioni. Lo sperimentatore manipola quest'ultima per formulare diversi valori o livelli di essa, così da ottenere diverse risposte. Per gli altri tipi di variabili, le caratteristiche sono già implicite nell'attributo che le qualifica: quelle quantitative variano in grandezza, mentre quelle qualitative in genere; le variabili continue non sono limitate a certi valori quali, ad esempio, categorie separate, mentre quelle discontinue rientrano in categorie distinte. Così pure per la distinzione tra variabili fisiche e non fisiche. Non è, ad ogni modo, facilissimo applicarle, come potrebbe sembrare, soprattutto in casi particolari.
1.3.1. L'indagine in Psicologia.
L'indagine psicologica può essere condotta a tre diversi livelli: indagine descrittiva, correzionale e sperimentale a seconda degli obiettivi perseguiti.
L'indagine descrittiva ha lo scopo di fornire una rappresentazione quanto più possibile accurata di ciò che avviene a livello di comportamenti, vissuti emotivi, cognizioni.
Quest'approccio costituisce, di solito, il primo stadio della ricerca, visto che procura elementi d'informazione e suggerimenti utili per approfondire l'indagine. La ricerca correzionale ha il fine di descrivere come ciò che accade a livello comportamentale sia in relazione con altri fattori e condizioni (dimensioni, variabili). Con questo livello lo sperimentatore coglie il rapporto, ma non è ancora in grado di conoscere le cause di detto rapporto; questo è l'obiettivo del terzo livello. L'indagine sperimentale, infatti, produce indicazioni circa le relazioni causali. Lo sperimentatore manipola la variabile indipendente, così da osservare le modifiche della variabile dipendente: se occorreranno le potrà attribuire alla stessa manipolazione. Dopo aver distinto questi tre livelli, occorre rimarcare come, in realtà, non si riscontrino mai degli esempi di ricerca che corrispondono ai tipi "puri" appena descritti, essendo più frequente l'uso di ricerche miste che affiancano almeno due dei livelli considerati. Le più diffuse, nella ricerca attuale, sono quelle correzionali-sperimentali. Comunque sia, queste indagini hanno uno scopo che le accomuna, ossia quello di giungere a delle conclusioni circa la relazione di causa ed effetto tra le variabili. Non è semplice, poiché la verità raggiunta è minacciata dal pericolo di non validità.
La validità è fondamentale per una ricerca e vi sono molti fattori che la mettono a rischio. Cook e Campbell (1976), parlano di quattro tipi di validità: interna, di costrutto, esterna e statistica.
La prima è quella fondamentale, visto che riguarda la logica della relazione tra variabile dipendente e indipendente; perché vi sia validità interna si deve poter stabilire che esiste una relazione causale tra le due variabili; se è intervenuta una terza variabile a causare delle modifiche, allora cade la validità interna. Questa terza variabile potrebbe essere, ad esempio, un evento accaduto al soggetto o la stessa maturazione del soggetto. Altra minaccia potrebbe venire dalle stesse procedure di osservazione, motivo di qualche cambiamento sull'effetto supposto. ½ è poi, una serie di possibili effetti confondenti legati alle caratteristiche proprie dell'uomo; vi potrebbero essere, infatti, delle reazioni non considerate in partenza, frutto di elaborazioni dei soggetti, scaturite dalla situazione in cui si trovano.
La validità di costrutto consiste, invece, nella conformità tra i risultati e la teoria, che sta alla base della ricerca. La principale minaccia potrebbe venire dall'esistenza di un'altra teoria capace di giungere agli stessi risultati. Per salvaguardare tale validità, bisogna escludere altre possibili spiegazioni teoriche dei risultati. La validità esterna riguarda l'applicabilità dei risultati raggiunti ad un'altra situazione: soggetti, luoghi, tempi diversi. In sintesi, la possibilità di generalizzare i risultati. Essa dipende, soprattutto dal modo in cui viene scelto il campione d'indagine; se l'obiettivo della ricerca è, infatti, quello di riscontrare conclusioni generalizzabili, il mezzo più efficace è un campionamento rappresentativo anziché uno finalizzato all'eterogeneità o a casi tipici.
La validità statistica, infine, consiste nella verifica della significatività statistica di una relazione tra due variabili, che risulta dalle differenze tra le medie. Il primo fattore di minaccia per tale validità è la bassa potenza statistica, che è determinata dalle dimensioni del campionamento utilizzato e dalla sua variabilità interna. Tanti altri sono i fattori, quali quelli che incrementano la varianza d'errore: l'affidabilità ridotta delle tecniche adoperate per misurare le variabili, ad esempio; ed ancora, la presenza di fattori di disturbo nel contesto sperimentale e/o l'eterogeneità casuale dei soggetti.
Considerate le principali minacce alla validità di una ricerca sperimentale, uno sperimentatore segue, poi, l'orientamento generale per attuare la propria raccolta dati.
Vi sono varie strategie di ricerca che presentano, complessivamente, sia punti deboli sia punti di forza: studi ed esperimenti sul campo, esperimenti di laboratorio ed indagini campionarie. Occorre premettere che la scelta della strategia è strettamente collegata all'indirizzo teorico che dirige una ricerca. Adottare il primo tipo di strategia significa condurre osservazioni sistematiche di fenomeni naturali, così come essi si manifestano. Lo studioso che segue, ad esempio, le teorie etologiche, predilige tale genere di ricerca e questo perché, per definizione l'etologia è "lo studio del comportamento di una specie nel suo ambiente naturale, che risulti significativo dal punto di vista evoluzionistico" (Miller, 1994). I maggiori esponenti di questa scuola sono stati Lorenz e Tinbergen, zoologi che osservavano gli animali in relazione ad una particolare nicchia ecologica. Le teorie dominanti in quegli anni erano, però, quelle dei comportamentisti con i loro esperimenti di laboratorio; l'osservazione naturalistica non fu tenuta in grande considerazione fino agli anni sessanta, quando si capì l'importanza dell'integrazione del dato di laboratorio con quelli rilevati dalle osservazioni su campo, specialmente nella descrizione dei comportamenti innati o specie-specifici. E' opportuno che la descrizione naturalistica, in molti casi, preceda l'analisi di laboratorio.
E' facile comprendere il grande contributo dato dall'etologia negli studi psicologici specie nell'osservazione di comportamenti adattivi degli animali che compaiono anche negli esseri umani, quali, ad esempio, l'alimentazione, la comunicazione, l'interazione madre-bambino, la riproduzione. Basta menzionare gli studi di Bolwby, sull'attaccamento madre- bambino; e ancora le osservazioni di Lorenz sulla corrispondenza tra aspetto infantile e sentimenti materni, in molte specie, specialmente mammiferi.
La strategia etologica è costituita da diverse fasi: dapprima, l'etologo sviluppa un etogramma, ossia una descrizione dettagliata ed estesa del comportamento dell'animale e delle caratteristiche dell'ambiente; questo inventario non tiene conto di ciò che ha prodotto quel comportamento (motivazioni, intenzioni o emozioni). Successivamente, classifica tali comportamenti secondo la loro funzione, per poi effettuare un confronto tra le varie specie e solo alla fine ricorre al laboratorio per determinare le cause immediate del comportamento osservato. E' evidente che in tale tipo di indagine il soggetto è completamente spontaneo, minima la strutturazione dell'ambiente e nulla la partecipazione dello sperimentatore; ciò è reso possibile soprattutto dall'utilizzo di tecniche quali la registrazione su nastro audio o la ripresa visiva.
La strategia che sembra essere più distante dalla precedente è quella che prevede esperimenti di laboratorio. Abbiamo già accennato alla corrente comportamentista ed al suo privilegiare la pura sperimentazione di laboratorio. Il ricercatore che adotta tale strategia è interessato, soprattutto, a determinati processi comportamentali e cognitivi, e tralascia le influenze che specifici contesti potrebbero esercitare sul soggetto. Perfettamente in linea, dunque, con il paradigma del comportamentismo S-R, l'esperimento si svolge in un ambiente fortemente strutturato con l'osservatore che presenta uno stimolo al soggetto e assolve ad una funzione di pura registrazione delle risposte. Il soggetto, in tale contesto, è quindi indotto dallo sperimentatore.
Questa situazione sperimentale ha ricevuto, nel tempo, molte critiche che hanno, soprattutto, posto l'accento sul ruolo del contesto sociale nel condizionare i processi cognitivi, ruolo che lo sperimentatore comportamentista trascura. Alcuni studiosi, convinti sostenitori di tale critica, mettono addirittura in dubbio che esistano dei processi generali, ossia propri e caratteristici della natura umana.
Nell'ambito di questa trattazione su come gli orientamenti teorici influenzino la ricerca, possiamo accennare anche all'approccio psicoanalitico e a quello adottato da Piaget; entrambe le prospettive, nell'affrontare il tema dello sviluppo del soggetto, considerano l'osservazione un elemento fondamentale per l'intera ricerca: la psicoanalisi l'associa al metodo analitico, con l'intento di cogliere anche ciò che emerge a livello emotivo, mentre, al contrario e avvicinandosi in ciò all'etologia, il modello piagetiano registra solamente i comportamenti.
Il carattere delle osservazioni dell'epistemologia genetica è quasi-sperimentale, nel senso che esse partono da un'ipotesi di base ben precisa, che conferisce loro carattere di sistematicità e continuità; ciò che gli impedisce di essere completamente sperimentale è l'atteggiamento dell'osservatore, il quale non svolge una semplice funzione di registrazione dati, ma partecipa nella situazione osservativa, introducendovi delle variazioni. Ciò che accomuna questi metodi non-sperimentali, differenziandoli da quelli sperimentali, è la mancanza di controllo sulle variabili: lo psicologo non le manipola intenzionalmente e può accadere che alcuni effetti osservati non siano determinati dalla variabile indipendente, ma da altre variabili estranee, incontrollate, che possono intervenire durante lo studio. Ecco perché le conclusioni cui giunge la sperimentazione vera e propria sono prese in maggiore considerazione.
In generale, sono molti i metodi che possono esser definiti non-sperimentali, ad esempio, la ricerca osservazionale, la ricerca d'archivio, lo studio su casi singoli e l'inchiesta.
1.3.2. Metodi non-sperimentali.
Abbiamo già parlato delle differenze che intercorrono tra i veri esperimenti e le indagini non-sperimentali (maggiore grado di controllo che il ricercatore sperimentale ha sui soggetti, sulle condizioni della ricerca e sulla raccolta dei dati), vediamo, ora, più da vicino le varie categorie che si caratterizzano come non-sperimentali.
La ricerca osservazionale viene utilizzata quando lo studioso concentra la sua attenzione sull'osservazione del comportamento, in assenza di tentativi di influenzarlo. ½ sono due tipi di questo metodo: l'osservazione naturalistica e l'osservazione partecipante.
Il primo tipo di indagine, denominato pure ricerca non intrusiva, è condotto in modo che il comportamento osservato sia influenzato il meno possibile da ciò che lo circonda.
Abbiamo già sottolineato l'importanza di tale metodologia per l'etologia e per la psicologia comparata, secondo Miller (1977) l'osservazione naturalistica "non è assolutamente una metodologia ingenua, ateorica e asperimentale, poiché può integrarsi con l'osservazione svolta in laboratorio, in una sorta di circolarità metodologica."
Nonostante le considerazioni di Miller bisogna evidenziare il limite di questa tipologia osservativa, che risiede nell'impossibilità di evitare qualsiasi influenza da parte dell'osservatore, visto che la prima difficoltà è data proprio dalla sua presenza.
Con la ricerca partecipante si elimina il problema del disturbo dell'osservatore, dal momento che essa prevede il maggior coinvolgimento possibile all'interno del gruppo posto sotto osservazione. L'utilità di tale metodologia è limitata a situazioni particolari, ossia quando si desidera, per esempio, studiare un piccolo gruppo, separato dal resto della popolazione, in questo caso è necessario uno sforzo notevole da parte del ricercatore che deve "vedere" un'attività comportamentale dal punto di vista di un elemento del gruppo. La metodologia è, per questo, flessibile, aperta ed opportunistica.
Il problema maggiore di questa tecnica è rappresentato dalla possibilità d'invasione della sfera privata, si tratta quindi di un problema etico molto delicato.
Altro tipo di ricerca osservazionale è quella d'archivio in cui il ricercatore utilizza dei dati che non sono stati raccolti da lui stesso, ma che sono disponibili in registri o archivi pubblici; tale tipologia d'indagine è utile quando il ricercatore è interessato a fenomeni per i quali non è più possibile reperire dati (ad esempio sui suicidi) oppure quando sono già utilizzabili i dati per la sua ipotesi. I limiti di questa ricerca sono chiari: la maggior parte delle volte i dati che lo studioso decide di adoperare non sono stati raccolti per fini scientifici e possono non rivelarsi adatti per giungere a conclusioni esatte; altra minaccia costante è rappresentata da tutti i possibili errori intervenuti durante la raccolta dati avvenuta precedentemente.
Alla ricerca d'archivio si avvicina lo studio di casi singoli, tanto che la distinzione tra tali tipologie osservazionali non è chiara. Nonostante questo si può affermare che lo studio di casi singoli si presenta "come un'indagine empirica che indaga su un fenomeno attuale nel suo contesto naturale, quando i confini tra il fenomeno e il contesto non sono chiaramente evidenti, e nel caso in cui sono usate forme molteplici di dati empirici" (Yin, 1989, citato in McBurney, 1996).
Questo tipo d'indagine viene usato in situazioni del tutto particolari nelle quali si sviluppano dei fenomeni singolari, è un esempio lo studio "dell'isterismo da catena di montaggio" o della "patologia psicogena di massa"; in entrambi i casi si verificano improvvisamente sintomi fisici come la cefalea, la nausea e l'offuscamento della vista, fenomeni causati generalmente da un odore particolare che provoca disturbo, ma circa il quale le indagini non rilevano alcuna sostanza che possa esserne responsabile.
Caratteristica peculiare, dunque, di tale indagine è che è difficile generalizzare su di essa.
Per tutti i metodi passati in rassegna occorre rilevare l'impossibilità di fornire un quadro preciso delle tecniche di registrazione utilizzate.
Per quanto riguarda le metodologie dell'osservazione e degli studi su casi singoli, risulta fondamentale l'annotazione di ciò che si osserva, la riduzione dei particolari da osservare con la creazione di alcuni campioni di comportamento, e l'uso di mezzi elettronici per registrare le osservazioni.
Per la ricerca d'archivio è basilare la cernita del materiale da usare: si può procedere con un'analisi del contenuto manifesto o di quello latente, il problema è, ad ogni modo, l'affidabilità; un sistema per evitare tale difficoltà è la presenza di almeno due persone che effettuino l'esame di codifica.
Un altro tipo di indagine non-sperimentale è rappresentato dall'inchiesta, metodo molto usato per raccogliere informazioni scientifiche. Intraprendere questo tipo di studio significa affrontare una serie considerevole di dettagli che non possono essere trascurati. Innanzitutto vi è la necessità di formulare il questionario da somministrare e già per far questo devono essere osservati dei canoni ben precisi. La prima considerazione riguarda lo scopo effettivo del questionario: "Che cosa si vuole stabilire?", la seconda riguarda la struttura che esso deve assumere. Soltanto dopo aver stabilito che cosa si vuole ricavare dalla somministrazione, si può decidere la struttura del questionario; esso può essere a domanda aperta o a domanda chiusa: con la prima forma il soggetto può rispondere in modo più completo e può fornire alcune spiegazioni che la seconda forma, invece, non permette; d'altro canto, le risposte aperte sono più difficili da interpretare e richiedono maggiori difficoltà, soprattutto, da parte di chi ha scarse abilità linguistiche.
Oltre a tali elementi, ve ne sono altri che bisogna tenere in conto: la cosa più importante è che gli item non siano ambigui, devono, in pratica, affrontare una sola questione e farlo in modo chiaro; si devono, poi, comporre le domande senza influenzare i soggetti e, nel caso in cui il questionario presenti risposte chiuse, queste devono proporre scelte diverse le une dalle altre. In ultimo, bisogna stabilire a priori come attribuire punteggio al questionario e come analizzarlo.
Superate tutte queste che possono essere considerate le fasi preliminari di un'inchiesta, si procederà alla somministrazione; vi sono quattro modi per farlo: faccia a faccia, per iscritto, attraverso il computer e per telefono. Ognuno dei metodi citati ha i propri pregi e difetti e ciò che orienta la scelta è, solitamente, la circostanza in cui avviene la somministrazione.
Nel primo caso il vantaggio risiede nel fatto che l'intervistatore entra in diretto contatto con l'intervistato, "spingendolo" così a rispondere accuratamente, mentre lo svantaggio è rappresentato dal fatto che la presenza dell'intervistatore può influenzare il soggetto.
La distribuzione scritta presenta varie modalità (invio per posta, ad un gruppo, in un luogo frequentato) e ciò rappresenta il principale vantaggio, considerando il basso costo di tali operazioni; il problema è, invece, l'incognita "percentuale di risposta", ma non solo: non si può intervenire in circostanze che necessitano chiarimenti o precisazioni e non si può sapere con quanta importanza è stato, effettivamente, considerato il questionario.
La scelta del computer offre notevoli garanzie atte ad assicurare il successo dell'indagine, lasciando come unico dubbio la percentuale di risposta. Anche l'inchiesta telefonica presenta molti vantaggi, soprattutto nel caso in cui le viene affiancato l'uso del computer, utile per sveltire le operazioni; ciò che non bisogna sottovalutare è, comunque, che "in alcuni stati è stato proposto di considerare illegale il fatto di comporre casualmente i numeri telefonici" (McBurney, 1996).
1.3.3. Metodi sperimentali.
Abbiamo più volte sottolineato le differenze che intercorrono tra le metodologie sperimentali e quelle non-sperimentali, poniamo ancora una volta l'accento su quella che è la caratteristica specifica del metodo sperimentale: l'assegnazione casuale dei partecipanti ai gruppi. Mentre, infatti, con il metodo sperimentale si studiano gruppi già formati e si inferiscono relazioni causali, con quello sperimentale si ha il controllo sull'assegnazione dei soggetti alle condizioni sperimentali, e ciò consente di concludere che tutte le altre variabili possono confondersi con la variabile indipendente, solo ed esclusivamente per caso.
E', dunque, il controllo completo sull'esperimento che detta la differenza tra i metodi. Uno sperimentatore che ha assoluto controllo può registrare le precise condizioni in cui avviene l'evento, così che lo stesso esperimento può esser ripetuto anche da altri. Inoltre, "le condizioni sperimentali e di controllo possono essere modificate sistematicamente in modo da poter determinare se esiste una variazione sistematica anche delle misure della variabile dipendente" (McGuigan, 1997).
Con l'assunzione di un metodo sperimentale non si deve, perciò, attendere la manifestazione spontanea, per esempio, del comportamento da studiare, essendo lo sperimentatore in grado di manipolare le variabili, secondo le esigenze dell'esperimento.
In sostanza si può affermare che, anche se non esiste l'esperimento perfetto, sono due gli elementi fondamentali che consentono di controllare tanti fattori che minacciano la validità dell'esperimento:
l'esistenza di un gruppo di controllo o di una condizione di controllo;
l'assegnazione casuale dei soggetti alle varie condizioni.
Si capisce bene, dunque, l'importanza di insistere su tale concetto. Il controllo si può definire come "qualsiasi mezzo impiegato per eliminare le possibili minacce alla validità di una ricerca" (McBurney, 1996).
Quando parliamo di gruppo di controllo intendiamo un gruppo che serve da confronto per il gruppo sperimentale: mentre il gruppo A (sperimentale) riceve il trattamento, questo non avviene per il gruppo B (di controllo); qualsiasi differenza fra i due gruppi può essere attribuita al trattamento. Quando invece di assegnare soggetti diversi a ciascuna condizione, si assegna ciascun soggetto a tutte le condizioni, allora abbiamo una condizione di controllo, ossia è il soggetto stesso ad essere controllo di se stesso. Da tutto ciò scaturisce una diversa denominazione degli esperimenti essendo i primi definiti esperimenti fra i soggetti, i secondi entro i soggetti. Passando al secondo punto, vediamo come l'assegnazione casuale dei soggetti rappresenti un potente metodo di controllo: solo in tale circostanza, infatti, ciascun soggetto ha la stessa probabilità di essere assegnato ad ogni condizione, così che la confusione fra le variabili legate al soggetto e quella sperimentale può avvenire soltanto in modo casuale.
Prima di esaminare dei buoni disegni sperimentali prendiamo in considerazione dei disegni che devono essere evitati a causa della loro debolezza nel controllare alcuni fattori che minacciano la validità: disegno sperimentale con un gruppo e una sola prova, disegno sperimentale con una sola prova e gruppo di controllo non equivalente, disegno sperimentale con un gruppo e due prove.
Nel primo caso (un gruppo e una prova) il soggetto è sottoposto ad una sola prova ed è esaminato rispetto a qualche variabile dipendente, cosa questa che lascia senza controllo diversi fattori che potrebbero essere responsabili di qualche effetto che al ricercatore sfugge. Quando, invece, si ha un disegno con un gruppo di controllo non equivalente si è in condizioni migliori rispetto alla precedente, ma non è, comunque, un buon esperimento visto che i soggetti non vengono assegnati casualmente ai gruppi.
Nell'ultimo caso (un gruppo e due prove) anche se vi sono due prove che assicurano un controllo maggiore rispetto ai disegni precedenti, sussistono, ad ogni modo, alcune evenienze possibili che minacciano la validità interna, della quale abbiamo parlato in precedenza: potrebbe, in pratica, essere una variabile non considerata dallo sperimentatore responsabile di un cambiamento all'interno del gruppo. Oltre a questi casi vi sono alcune situazioni che si avvicinano ad un vero esperimento, ma che presentano dei "compromessi" per i quali la ricerca è considerata soltanto un quasi esperimento. Proprio il disegno che abbiamo presentato in ultimo è un tipico quasi-esperimento; si capisce bene che se i gruppi presentano differenze all'avvio della prova, con il confronto finale non si possono attribuire i cambiamenti alle variabili manipolate dallo sperimentatore. E così molti altri disegni che presentano un gruppo di controllo che non si presta utilmente al confronto con il gruppo sperimentale, come, ad esempio, il disegno a serie temporali interrotte, o il disegno con trattamento ripetuto. Entrambi i disegni utilizzano come variabile il tempo e mancano di controllo alle minacce per la validità interna.
Si può comprendere ancora meglio la differenza parlando direttamente dei veri esperimenti. Abbiamo già tracciato chiaramente la distinzione tra esperimento entro e fra i soggetti, esamineremo, ora, un buon disegno sperimentale semplice, quello a due condizioni; un disegno, cioè, che prevede la somministrazione ad ogni soggetto di due condizioni o trattamenti, con il soggetto che serve da controllo di se stesso. Ne diamo una descrizione nella tabella n.1:
|
Assegnazione |
Trattamento |
Prova |
Condizione 1 (sperimentale) |
Tutti i soggetti sono sottoposti a entrambe le condizioni in ordine controbilanciato |
Condizione 1 (trattamento sperimentale) |
SI |
Condizione 2 (di controllo) |
Condizione 2 (trattamento di controllo) |
SI |
Tabella n.1: Disegno con due prove esaminate entro i soggetti.
Da: McBurney, 1996.
Questo tipo di disegno non è, in ogni caso, usato molto spesso perché molti esperimenti comportano più di due condizioni. Stiamo parlando di ricerche a condizioni multiple che permettono di confrontare l'efficacia di diverse variabili o trattamenti.
Eccone un esempio, illustrato dalla tabella n.2:
|
Assegnazione |
Trattamento |
Prova |
Condizione 1 |
Tutti i soggetti sono sottoposti a tutte le condizioni in ordine casuale o controbilanciato |
1 |
Si |
Condizione 2 |
2 |
Si |
|
Condizione 3 |
3 |
Si |
Tabella n.2: Disegno a condizioni multiple studiate entro i soggetti.
Da: McBurney, 1996.
Gli esperimenti, invece, tra i soggetti prevedono due o più gruppi sottoposti ad un diverso quantitativo della variabile indipendente (trattamenti differenti).
La tabella n.3 delinea questo tipo d'esperimento:
|
Assegnazione |
Trattamento |
Prova |
Gruppo 1 |
Assegnazione casuale dei soggetti ai gruppi |
1 |
Si |
Gruppo 2 |
2 |
Si |
|
Gruppo 3 |
3 |
Si |
Tabella n.3: Disegno sperimentale a condizioni multiple studiate tra i soggetti.
Da: McBurney, 1996.
All'inizio dell'esperimento le medie dei gruppi, relative alla variabile dipendente, non differiscono attendibilmente grazie all'assegnazione casuale. Se dovesse risultare "per caso" una differenza tra le medie iniziali, il ricercatore dovrebbe procedere per ristabilire il pareggiamento tra i gruppi, prima di iniziare, aumentando per esempio il numero dei soggetti sottoposti a studio. Nel caso in cui stia lavorando con due gruppi, dovrebbe calcolare i punteggi medi della variabile dipendente dei gruppi.
Si tratta, in pratica, di sottoporre i dati ad analisi statistica per verificare l'effetto della variabile manipolata sui gruppi. Negli ultimi anni, soprattutto, la statistica è stato un elemento indispensabile per la psicologia sperimentale e per i suoi esperimenti. Il test statistico più usato è il t-test, appannaggio, oramai, di molti, visto che può essere eseguito da un computer, programmato per condurre tale analisi statistica. Anche se tutto è reso semplice dalle moderne apparecchiature, è bene conoscere i significati di questi procedimenti, per essere in grado di controllare i vari passaggi e per evitare di comportarsi come un perfetto automa.
Innanzi tutto, bisogna calcolare le medie dei punteggi della variabile dipendente dei due gruppi; l'equazione da eseguire è:
X= aX/n
dove a è il simbolo della sommatoria inteso come "la somma di".
La presenza di questo simbolo indica che si deve sommare tutto ciò che si trova alla sua destra. In questo caso, X indica il punteggio relativo ad ogni soggetto; si dovranno, dunque, sommare tutti i punteggi e successivamente, dividere il risultato per n, dove n rappresenta il numero dei soggetti del gruppo analizzato.
Otterremo, così, la media dei punteggi del gruppo ( X ).
A questo punto sarà necessario, effettuare un controllo sulle differenze tra i due gruppi, per scoprire se esse sono attendibili o prodotte esclusivamente dal caso. L'equazione per ottenere il risultato è:
X1 - X2
t =
SQ1+SQ2 1 + 1
(n1 - 1)+(n2 - 2) n1 n2
dove SQ1 ed SQ2 rappresentano la somma dei quadrati, rispettivamente del primo e del secondo gruppo, quindi:
SQ1 = (aX1)2 aX1)2 n
SQ2= (aX2)2 aX2)2 n
Si può anche praticare un esperimento con più gruppi anziché due; l'uso di tale disegno in psicologia è molto praticato perché con esso si procede selezionando diversi valori della variabile indipendente e con l'assegnazione casuale di ogni gruppo a ciascun valore. E' chiaro il vantaggio che si ottiene da tale procedimento: più valori della variabile indipendente vengono usati, migliore è la valutazione della sua influenza su una data variabile dipendente.
L'obiettivo di uno psicologo è proprio quello di determinare quali tra un certo numero di variabili indipendenti influenzi una determinata variabile dipendente e anche di stabilire il rapporto quantitativo tra le due. Mentre con un disegno a due gruppi non si è mai sicuri in modo sufficiente che siano stati assunti i valori giusti della variabile indipendente per stabilire se essa è influente, il disegno con più gruppi aumenta la possibilità "sia per determinare accuratamente se una data variabile indipendente è influente, sia per specificare la relazione quantitativa tra la variabile indipendente e dipendente" (McGuigan, 1997).
Andiamo ancora oltre e giungiamo al disegno sperimentale più importante in psicologia, il disegno fattoriale. Abbiamo visto come i precedenti disegni siano ottimi per lo studio di una singola variabile sia quando è modificata solo in due modi (disegno a due gruppi) sia quando è modificata in più modi (disegno a più gruppi), ma nel caso in cui il ricercatore volesse studiare più di una variabile indipendente in un solo esperimento, questi dovrebbe utilizzare il disegno fattoriale.
Il disegno fattoriale completo "è un disegno in cui possono essere usate tutte le possibili combinazioni dei valori selezionati di ogni variabile indipendente" (McGuigan, 1997).
Ecco un tipo di disegno fattoriale semplice illustrato con la tabella n.4:
FATTORE A
| A1 |
A2 |
||
FATTORE B |
A1B1 |
A2B1 |
||
B2 |
A1B2 |
A2B2 |
Tabella n.4: Disegno fattoriale.
Da: McBurney, 1996.
Con esso si possono studiare le interazioni tra le variabili indipendenti considerate. L'interazione tra due variabili indipendenti "si ha quando il valore della variabile dipendente che risulta da una variabile indipendente è determinato dallo specifico valore assunto dall'altra variabile indipendente" (McGuigan, 1997). Questo concetto è fondamentale in psicologia perché le interazioni aiutano a capire il comportamento complesso, visto che le risposte non sono semplicemente determinate da una variabile indipendente ma da un complesso di stimoli che interagiscono in modo intricato. Ecco perché un disegno fattoriale assume un valore inestimabile, considerato, inoltre, il fatto che ne esistono di diversi tipi:
il disegno fattoriale 2 2, che prende in considerazione gli effetti di due variabili indipendenti, ognuna modificata in due modi; quello 3 2 che studia due variabili indipendenti, di cui una variata in tre modi, l'altra in due, e così via di seguito.
IL SISTEMA NERVOSO: CENNI SULL'ORGANIZZAZIONE
MORFOFUNZIONALE.
2.1. Introduzione.
Indagare l'attività mentale significa affrontare uno studio complesso che non può prescindere dalla conoscenza del cervello, l'organo principale del corpo umano. Questa trattazione non sarà corredata da indicazioni specifiche sull'argomento, ma solo dalle informazioni di base per sviluppare il discorso che ci interessa.
Quando la scienza che si occupa, ai nostri giorni, del cervello (neuroscienza), era ancora giovane, circolavano teorie divulgate dalla corrente psicologica dominante, il comportamentismo.
Watson (1878-l958) propugnava la teoria della tabula rasa: tutti i cervelli alla nascita sono più o meno uguali e tale convinzione poggiava sull'assunto che fosse l'interazione con l'ambiente a strutturare il sistema nervoso. In quel periodo gli studiosi si accontentavano di indicare un'analogia tra il cervello ed una serie di dispositivi che rispondevano passivamente, il cui funzionamento era completamente determinato dall'esperienza passata; il cervello veniva rappresentato come un gruppo di schemi elementari, che raccoglievano gli stimoli provenienti dal mondo esterno per elaborarne le risposte. Ma questa visione di "passività" del cervello, nel corso degli anni, venne abbandonata; si prese coscienza sia della grande "plasticità" della massa cerebrale, in grado di "adattarsi" alle diverse esigenze, che alla sua capacità "predittiva" delle situazioni future, anche se l'esperienza maturata e la memoria degli avvenimenti accaduti rappresentavano sempre la base di partenza di queste altre funzioni di cui i primi comportamentisti non avevano tenuto conto.
Diretta conseguenza di tali considerazioni fu la necessità di inglobare il nuovo modello entro la sfera della conoscenza scientifica, in altre parole, di renderlo oggetto dell'analisi deterministica e della spiegazione scientifica, come tutti gli altri fenomeni del mondo oggettivo. Il cervello umano incominciava ad essere considerato come un sistema funzionale assai complesso ed unico che operava su nuovi principi, e per conoscerli erano necessari nuovi approcci di studio. Diversi furono i contributi in questa direzione che permisero di raccogliere, progressivamente, informazioni importanti per la costruzione delle basi di una scienza che si interessasse del cervello, inteso come organo dell'attività mentale concreta.
2.2. Studi sul cervello e sulla localizzazione delle sue funzioni.
L'interrogativo principale che, in quegli anni, indirizzava i maggiori studiosi riguardava, dunque, la comprensione del funzionamento dell'organo più importante del corpo umano. Conclusioni e risposte attorno tale oggetto di studio sono state possibili grazie, soprattutto, allo studio di cervelli umani affetti da malattie, che avevano disgregato le normali relazioni fra le diverse unità morfofunzionali del cervello e potevano così fornire informazioni circa l'organizzazione normale del sistema cognitivo.
L'indagine del disturbo dei processi mentali può farsi risalire al 1861, quando Paul Broca scoprì in suo paziente corrispondenza tra un disturbo del linguaggio espressivo e un danno cerebrale in un'area ben localizzata del cervello (il terzo posteriore del giro frontale inferiore sinistro), che da allora venne associata al linguaggio. Una lesione in questa zona, l'area di Broca, causava un tipo di perdita del linguaggio espressivo, che oggi è detta afasia (originariamente afemia). Per la prima volta Broca propose una differenza radicale tra le funzioni dei due emisferi cerebrali, destro e sinistro, considerando quest'ultimo, dominante, interessato alle funzioni linguistiche superiori. Dieci anni dopo appena, fu Carl Wernicke a rilevare che una lesione, questa volta però, al terzo posteriore del giro temporale superiore sinistro, comportava la perdita dell'abilità a comprendere il linguaggio senza, invece, provocare disturbi della parola. Gli studi dello psichiatra tedesco confermarono la localizzazione di funzioni in aree circoscritte della corteccia cerebrale.
L'entusiasmo in quegli anni fu generale e si continuò l'osservazione su pazienti con lesioni cerebrali locali per scovare altre localizzazioni di funzioni. I neurologi e gli psichiatri di quel tempo, si dedicarono così, alla formulazione di vere e proprie mappe funzionali della corteccia cerebrale che dovevano rappresentare la localizzazione di complessi processi psicologici in aree precise della corteccia cerebrale. Durante gli anni settanta, numerose furono le scoperte che interessavano altri centri della corteccia cerebrale: un centro per i concetti, ad esempio, nella regione parietale inferiore sinistra, ed un centro per la scrittura, nella parte posteriore del giro frontale mediano sinistro, e la lista potrebbe continuare molto a lungo. Tra tutte le mappe funzionali che furono elaborate, quelle più chiare furono formulate da uno psichiatra tedesco, Kleist (1934), il quale, dopo aver analizzato tante ferite causate da arma da fuoco, localizzò in zone definite della corteccia varie funzioni.
Certo non mancarono le critiche a questi studiosi, definiti locazionisti rigorosi, e ci fu chi elaborò altre ipotesi.
Huglings Jackson (1834-l911), famoso neurologo inglese, considerò fondamentale non tanto la localizzazione della funzione, quanto il livello del costrutto di tali funzioni. Propose, dunque, una differenziazione tra i processi fisiologici semplici e le forme più complesse dell'attività mentale. La sua ipotesi fu presa in considerazione soltanto cinquanta anni più tardi, quando alcuni neurologi, Monakow (1914), Head (1926), Goldstein (1927) avanzarono dubbi sul fatto che sia le funzioni elementari che quelle complesse potessero essere circoscritte in aree specifiche della corteccia cerebrale, e proposero l'assunto che i fenomeni complessi fossero il risultato di attività dell'intero cervello, anziché frutto del lavoro di aree locali. Per cui le forme superiori dei processi mentali si dovevano pensare organizzate in sistemi di zone che lavorano in sincronia, svolgendo ognuna il proprio ruolo, ma integrate in un sistema funzionale complesso. Partendo da tale assunto, apparve chiaro che la lesione di una qualsiasi di queste zone poteva portare all'alterazione dell'intero sistema funzionale; di conseguenza, la perdita di una determinata funzione non poteva dire nulla circa la sua localizzazione, ma era necessario prima uno studio approfondito sulla perdita riscontrata. Gli anni successivi sono quindi stati caratterizzati dall'ampia controversia, ancora in atto, tra due tesi opposte: l'una sosteneva che tutte le funzioni fossero ben localizzate, all'interno del cervello; l'altra che ogni funzione dipendesse dall'organizzazione globale del cervello (teoria equipotenziale). Evidenze sperimentali a favore della prima tesi sono i disturbi funzionali conseguenti a lesioni in specifiche e limitate aree corticali, quali l'afasia. C'è comunque da specificare che queste aree non sono nettamente distinte e separate dalle altre: i contorni sono spesso indefiniti, si sovrappongono e sfumano gli uni negli altri. Fu forse Luria (1966) a trattare il problema in modo diverso, dal momento che introdusse delle specificazioni al termine di funzione, in quanto lo si poteva riferire all'attività di una piccola unità, per questo facilmente localizzabile, ma anche ad attività complesse, quali la percezione, l'intelligenza, la memoria e tutte le altre funzioni cognitive superiori che si trovavano in dipendenza da funzioni più semplici. Il "sistema funzionale complesso", per Luria, non poteva essere localizzato in ristrette e circoscritte aree del cervello, poiché si realizzava con "la partecipazione di gruppi di strutture cerebrali funzionanti in sincronia, ciascuno dei quali dà il proprio contributo particolare all'organizzazione di questo sistema funzionale" (Luria, 1977). Gli studi di questi ultimi anni si sono proprio incentrati sull'analisi dell'organizzazione cerebrale e sull'individuazione del contributo dato da ciascun'area a questo sistema funzionale complesso. I primi studi che dettero notevoli indicazioni precise a tal proposito, furono quelli che presero in considerazione pazienti che avevano subito dei danni cerebrali locali e la conseguente analisi delle modificazioni insorte nei processi mentali.
Tuttavia una lesione cerebrale non colpisce, di solito, un'area circoscritta costituita da cellule nervose con le stesse caratteristiche funzionali, e questo complica notevolmente la situazione dal momento che si possono verificare casi in cui si è avuta solo una distruzione parziale del centro deputato a quella determinata funzione, oltre ad aver potuto compromettere anche parti di zone limitrofe.
Un'altra difficoltà nella ricerca della localizzazione di una funzione cerebrale consiste nel fatto che venendo a mancare le cellule specifiche preposte al suo svolgimento, cellule indifferenziate, o addirittura aree con funzione già ben determinata, possono assumere ruolo vicariante della parte mancante e questo rientra nel quadro più vasto della "plasticità cerebrale".
2.3. Anatomia del sistema nervoso.
2.3.1. La cellula nervosa.
L'unità morfofunzionale del sistema nervoso è il neurone, o cellula nervosa. Nel nostro cervello ve ne sono più di cento miliardi, di svariate forme (stellata, piramidale, granulare, fusata), costituiti da un corpo cellulare o pirenoforo che contiene il nucleo, e da un certo numero di fibre che originano da essi con funzione afferente o efferente nella conduzione dell'impulso nervoso. I dendriti di solito sono i prolungamenti che intercettano gli impulsi elettrici e li convogliano al pirenoforo. Il neurone da quel momento diviene un sistema trasmittente, in quanto comunica con tutti gli altri neuroni ai quali è collegato, attraverso un lungo circuito d'uscita, di norma l'assone. Al termine di questo circuito, il messaggio elettrico libera nello spazio sinaptico un neurotrasmettitore, ossia una sostanza chimica che attiverà le membrane dei neuroni adiacenti, di solito a livello delle terminazioni denditriche, in maniera da continuare la trasmissione dell'impulso. Tale processo è ininterrotto.
Ciò che emerge è un'immagine del cervello come un mosaico di centri neurali, in contatto chimico che agiscono in delicata e dinamica interrelazione.
2.3.2. Sistema nervoso centrale e sistema nervoso periferico.
E' molto difficile fornire una breve ed esauriente descrizione del sistema nervoso, vista la complessa struttura che lo caratterizza; primariamente può essere considerato diviso in sistema nervoso centrale (SNC) e sistema nervoso periferico (SNP).
Il SNC risulta costituito dall'encefalo e dal midollo spinale che sono racchiusi rispettivamente nel cranio e nella colonna vertebrale.
L'encefalo è formato da varie regioni tra cui il cervello propriamente detto, le cui strutture costituiscono il tronco dell'encefalo.
La parte inferiore del tronco è denominata midollo allungato mentre sopra quest'ultimo si trova il ponte che è ricoperto, nella parte posteriore dal cervelletto.
La parte superiore del tronco è nominata mesencefalo; dorsalmente e anteriormente a tale struttura sono situati il talamo, l'ipotalamo, la corteccia cerebrale, i gangli di base ed il sistema limbico.
Tra l'encefalo ed il midollo spinale vi è il midollo allungato da cui dipartono i nervi del SNP responsabili della regolazione dell'attività respiratoria, cardiaca e gastrointestinale; il ponte connette il tronco dell'encefalo al cervelletto, quest'ultimo è addetto in primo luogo alla regolazione della coordinazione motoria e allo svolgimento di un ruolo importante nell'apprendimento. Superiormente al tronco dell'encefalo si trova il mesencefalo che contiene nuclei importanti per il controllo dei movimenti oculari e che si fonde, anteriormente, con il talamo e l'ipotalamo; il primo rappresenta la stazione d'arrivo dei maggiori sistemi sensitivi che si portano alla corteccia cerebrale, mentre il secondo è connesso con numerose regioni encefaliche: molti anatomisti ritengono che una parte di queste strutture (alcune porzioni del sistema olfattivo, l'ippocampo, l'area del setto, l'amigdala e lo stesso ipotalamo) sia una componente di una rete integrata di strutture nervose, il sistema limbico.
L'ipotalamo agisce in collaborazione con l'ipofisi, la più importante delle ghiandole endocrine che secernono gli ormoni direttamente nel circolo sanguigno. La collaborazione consiste nella secrezione di ormoni che influenzano la secrezione ormonale delle altre ghiandole endocrine. Tale struttura sembra inoltre essere il centro coordinatore delle emozioni. Per quanto riguarda il sistema limbico si può affermare che, nel corso dell'evoluzione, sembra aver perduto la sua funzione specifica, ossia il controllo del sistema olfattivo, e sembra aver assunto altre funzioni, che lo vedono coinvolto nei processi di apprendimento e di memoria. Abbiamo anche parlato dei gangli di base, strutture poste nella regione degli emisferi cerebrali, che svolgono un ruolo importante nel controllo del movimento.
Gli emisferi cerebrali sono segnati da incisioni simili a fenditure denominate solchi ed i rilievi compresi fra i solchi si chiamano giri. Gli emisferi sono separati l'uno dall'altro lungo la linea mediana dalla fessura longitudinale. Ogni emisfero viene suddiviso convenzionalmente in sei lobi: frontale, parietale, occipitale, temporale, centrale e limbico.
I lobi sono delimitati da alcuni solchi maggiori, ossia dalla scissura laterale di Silvio, dalla scissura centrale di Rolando, e dalle scissure cingolata e parieto-occipitale.
Nella parte posteriore si trova la regione occipitale che riceve l'informazione visiva, in quella centrale la regione parietale che raccoglie le notizie provenienti dalla cute e dal corpo. Tra i lobi parietali e frontali, presso la scissura centrale che li separa, è situata la corteccia motoria o precentrale, preposta al controllo del movimento. Il lobo temporale è separato dal resto della corteccia dalla scissura di Silvio, nella cui profondità è situata la corteccia acustica, che raccoglie l'informazione acustica.
Il quadro fornito non deve essere inteso in modo eccessivamente schematico, visto che il cervello non è semplicemente un insieme di strutture speciali ma un vasto sistema di elaborazione dell'informazione.
Secondo Luria (1977) l'attività mentale è suddivisibile in tre principali unità funzionali; la prima unità è delegata alla regolazione del tono corticale e della veglia; la seconda unità è preposta all'analisi ed all'immagazzinamento dell'informazione proveniente dal mondo esterno; la terza unità programma, regola e verifica l'attività mentale.
Lo stato di veglia è essenziale affinché i processi umani seguano il loro corso naturale: soltanto in condizioni ottimali di veglia, infatti, riusciamo a ricevere e ad analizzare l'informazione, a programmare la nostra attività mentale e a correggere i nostri errori. Tutto ciò dipende dal mantenimento di un livello ottimale del tono corticale; le strutture che regolano e modificano il tono corticale sono situate appena sotto la corteccia cerebrale, nei nuclei sottocorticali e nel tronco cerebrale, e comunque sempre in stretta collaborazione con i livelli più alti della corteccia.
La seconda unità funzionale del cervello è localizzata nelle regioni laterali del neocortex, sulla superficie convessa degli emisferi, dei quali occupa le regioni posteriori, che includono le regioni visive (occipitali), uditive (temporali) e sensitivo generali (parietali). Queste zone sono preposte, come già detto, alla ricezione, all'analisi e all'immagazzinamento dell'informazione che arriva dal mondo esterno.
La terza unità è quella che organizza l'attività cosciente dell'uomo, essendo responsabile della programmazione, regolazione e verifica dell'azione. Tale sistema è composto da strutture localizzate nelle regioni anteriori degli emisferi, che hanno la parte più importante nei lobi frontali; essi giocano un ruolo fondamentale nella regolazione degli stati di attività che sono la base del comportamento dell'uomo, in quanto formulano complesse intenzioni e piani umani. Bisogna inoltre porre l'accento sul fatto che tale regolazione avviene in stretta collaborazione con il linguaggio.
Sperry nel 1965 con i suoi esperimenti, divenuti ormai classici, dimostrò che erano le intricate reti neurali a governare e regolare le estremità del corpo, e che esse si formavano durante lo sviluppo sotto il controllo di meccanismi genetici, assumendo, già dai primi tempi di vita, le forme e le capacità in modo definito. Era, dunque, l'architettura innata, costituita dall'organizzazione neurale di base, geneticamente preordinata, a disporre il carattere psicologico del cervello.
2.4. Studi sugli effetti delle lesioni cerebrali.
La maggior parte delle conoscenze inerenti la localizzazione delle funzioni cerebrali deriva da studi effettuati su pazienti che avevano subito danni cerebrali o in seguito a traumi (incidenti), ad operazioni chirurgiche o a malattie (tumori).
In seguito ad una lesione cerebrale il sistema nervoso resta fondamentalmente diverso da come era prima del danno, anche se mette in atto una parziale riorganizzazione. Le indicazioni provenienti da studi su pazienti cerebrolesi, immediatamente dopo l'avvenuto danno cerebrale, hanno rappresentato per lo studioso delle basi nervose dei processi cognitivi una sorta di experimentum naturae in grado di fornire informazioni riguardo ai meccanismi cognitivi normali, proprio tramite l'osservazione del sistema danneggiato.
Ad ogni modo è bene rammentare che qualsiasi forma di attività cosciente si realizza sempre con il funzionamento combinato di tutte e tre le unità cerebrali, ciascuna delle quali fornisce il proprio prezioso contributo.
Passiamo ora in rassegna i disturbi che si possono verificare quando una lesione danneggia le regioni di cui abbiamo precedentemente argomentato.
2.4.1. Lesioni ai lobi occipitali-parietali.
Avendo già considerato che le regioni cerebrali occipitali, localizzate nelle zone posteriori del cervello, costituiscono il centro corticale del sistema visivo, appare evidente che lesioni a tali regioni diano origine a deficit nell'elaborazione dell'informazione visiva.
In questa sede, per ovvi motivi, non è possibile presentare una trattazione esauriente e minuziosa, ci dedicheremo perciò alle disfunzioni più comuni. Parlare dei difetti al campo visivo, significa affrontare una varietà di disordini che interessano la percezione visiva: vi sono, infatti, disturbi che derivano da difetti di campo, ad esempio, studiati da Tueber e Bender (1949) che rilevarono due fenomeni riguardanti la percezione distorta degli oggetti, ovvero il completamento e l'estinzione.
Il primo fenomeno si ha quando il soggetto percepisce un quadrato completo, anziché la forma intera che è stata privata di una porzione. Nel caso, invece, dell'estinzione, avviene l'opposto. Un altro disturbo è riscontrato nella visione strutturata: i soggetti sono incapaci di localizzare correttamente gli oggetti mostrati. Un altro sintomo fu evidenziato grazie al test del disegno dei cubi di Koh: il soggetto doveva riprodurre il disegno proposto dallo sperimentatore utilizzando cubetti di diversi colori su ogni lato. Fu notato che la riproduzione era ruotata rispetto all'originale: Shapiro et al. (1962) dimostrarono che tali disturbi erano collegati a lesioni dei lobi occipitali-parietali.
Ciò che ci interessa sottolineare è, soprattutto, che alcuni studi rilevarono una differenza tra le zone dell'emisfero destro e quelle dell'emisfero sinistro, per quanto riguarda la loro attività. Secondo la legge della progressiva lateralizzazione delle funzioni (Luria, 1977), che traccia una differenza di organizzazione tra le aree corticali, si riscontravano dei deficit diversi a secondo che la lesione interessava un emisfero o l'altro. Una lesione, infatti, alle zone secondarie di tale regione, nell'emisfero sinistro, causava un disturbo nel riconoscimento di lettere e un conseguente disturbo nella lettura, mentre una lesione alle zone corrispondenti dell'emisfero destro originava un quadro diverso: mentre il disturbo nella lettura era molto meno marcato, risultava invece gravemente disturbata la percezione visiva diretta degli oggetti o addirittura delle facce (agnosia per gli oggetti; agnosia per le facce) che impediva al paziente di riconoscere anche facce molto familiari. Oltre a disordini visivi, con le lesioni ai lobi occipitali-parietali, si osservarono dei disturbi sensoriali e percettivi, come l'incapacità di mantenere certe posizioni in assenza di un feedback visivo, dimostrata da Wyke (1966). Lo studioso sottopose i pazienti ad un test che prevedeva la tensione delle braccia in avanti, con gli occhi chiusi. I pazienti affetti dalle stesse lesioni effettuavano gli stessi movimenti ed in più si osservava la diretta corrispondenza tra la lesione cerebrale destra e movimento del braccio sinistro. Weinstein et al. (1958), riscontrarono una minore abilità tattile, sottoponendo ai soggetti cerebrolesi un compito che prevedeva la ricostruzione di un foglio di carta vetrata con l'uso del solo tatto. Lo stesso autore rilevò anche un danno nella capacità di valutare il peso e la grandezza di oggetti afferrati con la mano.
La teoria maggiormente verificata dagli esperimenti era quella per la quale lesioni ai lobi parieto-occipitali implicavano problemi nell'orientamento spaziale: i pazienti che le subivano non "riuscivano più ad orientarsi entro un sistema di coordinate spaziali, e, in particolare, non potevano più distinguere correttamente tra destra e sinistra" (Luria, 1977). Questi deficit sfociavano nella grossa difficoltà di disegnare le lettere, perché i soggetti non erano in grado di conservare la giusta posizione delle linee che formano la lettera; in questo caso non si riscontrarono differenze marcate tra i due emisferi.
2.4.2. Lesioni ai lobi temporali.
Lesioni ai lobi temporali provocano invece danni relativi alla memoria ed al comportamento emotivo. I soggetti avevano subito l'asportazione delle porzioni anteriori dei lobi temporali, o addirittura un intervento chirurgico bilaterale sugli stessi. Milner (1957) studiò un paziente, sottoposto alla rimozione di tessuto da entrambi i lobi per curare le sue crisi epilettiche, non si verificò in lui un calo di QI ma un'impressionante forma di amnesia. Il soggetto era caratterizzato, soprattutto, dal non ricordare gli eventi accaduti dopo l'operazione (amnesia anterograda); ciò comportava il fatto che nuove informazioni non potevano passare dalla memoria a breve termine, del tutto integra, a quella a lungo termine, in pratica inesistente. Interessante risultò pure, lo studio di pazienti sottoposti a lobotomia temporale anteriore, utilizzata per alleviare l'epilessia. Il problema di questi pazienti era rappresentato dal fatto che erano presenti altri disturbi oltre l'epilessia, riferiti all'intelligenza, alla memoria e ad altre forme di comportamento. Subito dopo l'operazione, infatti, il soggetto risultava disfatico, con difficoltà temporanee e non permanenti; ciò che ci preme sottolineare è che emergevano differenze significative secondo l'emisfero cerebrale interessato dalla lesione: quando era il lobo sinistro ad essere sottoposto ad operazione, si registrava un calo di intelligenza verbale, mentre si riscontravano cambiamenti meno marcati quando la lesione interessava il lobo destro. Si può, dunque, mettere in evidenza che i deficit associati alle lesioni destre non erano ben definiti come quelli che si verificavano con lesioni al lobo temporale sinistro.
Luria (1977) ha, invece, posto l'attenzione sui disturbi che si riscontravano nella percezione uditiva, quando erano le zone temporali ad essere danneggiate. Sintetizzando le sue ricerche possiamo affermare che "le zone secondarie della corteccia uditiva, che occupano le porzioni laterali della regione temporale cerebrale, svolgono un ruolo decisivo nella discriminazione di gruppi di stimoli acustici, presentati simultaneamente, ed anche di serie consecutive di suoni di altezza o di struttura ritmica acustica differenti" (Luria, 1977).
Inoltre, a causa di simili lesioni, il paziente perde la capacità di distinguere nettamente i suoni linguistici, e conseguentemente ha delle difficoltà nella comprensione del linguaggio parlato, nella denominazione degli oggetti, nell'esposizione del proprio linguaggio. Caratteristica specifica dei soggetti con lesioni all'emisfero sinistro risultava, in più, la perdita dell'abilità a scrivere, e se la lesione riguardava le zone posteriori di questa regione, il disturbo interessava l'abilità di evocare immagini visive in risposta a parole date. E' importante notare che le anomalie di cui abbiamo argomentato si manifestavano in seguito a lesioni della regione temporale sinistra (dominante), mentre pochissimo si conosce dei sintomi che comparivano quando la lesione colpiva l'altra metà del cervello.
2.4.3. Lesioni ai lobi frontali.
Le aree cerebrali che costituiscono i lobi frontali rappresentano le zone più enigmatiche del cervello; sono le più giovani dal punto di vista filogenetico, tanto che appaiono appena visibili negli animali inferiori, notevolmente più ampie nei primati, nei quali giungono a completa maturazione tra i quattro e i sette anni di vita, e raggiungono la loro massima estensione nell'uomo. Ciò ha portato a credere che proprio in queste regioni risiedono le più elevate facoltà di pensiero e di intelligenza dell'uomo. Studi sperimentali condotti dalla Milner (1964) su soggetti umani fornirono interessanti indicazioni sulle funzioni di questi lobi. I soggetti con lesioni al lobo frontale sinistro presentavano difficoltà in compiti verbali rispetto ai soggetti con lesioni frontali destre; anche se successive ricerche non riscontrarono alcun deterioramento nelle funzioni intellettive in soggetti con lesioni a tali strutture, e questo probabilmente perché, nel secondo caso, si trattava di deficit non molto marcati e spesso temporanei (Miller, 1973).
Dai risultati emerse comunque l'accertata discrepanza funzionale tra lobo destro e sinistro. A queste stesse conclusioni giunsero anche gli esperimenti di Luria (1977) che confermarono la relazione tra lesione al lobo frontale sinistro e disturbo nel ruolo regolativo del linguaggio: non furono riscontrati problemi fonetico-lessicali o logico-grammaticali (problemi che emergono a causa di altre lesioni già indagate), ma veniva a mancare il controllo che il linguaggio esercita sul comportamento motorio. Questi esperimenti indicarono anche che tali strutture sono responsabili della regolazione dei processi di attivazione che stanno alla base dell'attenzione volontaria, che svolgono, in altre parole, un ruolo fondamentale nel mantenimento del tono corticale richiesto e nella modifica dello stato di veglia in base ai compiti immediati del soggetto. Ciò significa che "costituiscono un apparato con la funzione di formare piani e intenzioni stabili, capaci di controllare il successivo comportamento cosciente del soggetto" (Luria, 1977), anche sulla base delle osservazioni che si manifestano in seguito a lesioni in queste zone: i soggetti con lesioni lobo-frontali giacciono in modo passivo, non formulando alcun genere di richiesta o di domanda, e non completano, di solito, i loro compiti; perdono non solo il controllo sulle proprie azioni, ma anche l'abilità di verificare i loro risultati. Oltre ai disturbi elencati se ne evidenziano altri inerenti all'attività mnesica, del tutto particolari, in quanto non turbano le basi primarie della memoria, bensì la complessa attività mnesica nel suo insieme e ciò implica un'incapacità di aumentare il livello di memorizzazione degli elementi di una serie presentati a ripetizione, il paziente, infatti, ricorda sempre un massimo di cinque elementi. Quando poi le lesioni sono più massive lo stesso deficit si riscontra anche nella produzione di frasi.
2.5. Studi sul cervello diviso.
Oggi l'indagine sulle funzioni cerebrali è basata sull'utilizzo di moderne tecniche di imagining cerebrale (EEG, TAC, PET, SPECT, RMN, FMRI) in grado di visualizzare in vivo l'attività della massa cerebrale, ed in maniera "non invasiva". I primi studi sulle funzioni cerebrali e sulla loro localizzazione, che ancora oggi continuano a fornire indicazioni precise a tal proposito, furono effettuati su individui split-brain, ossia col cervello diviso a causa di traumi o operazioni chirurgiche (nel caso di soggetti umani) o di operazioni indotte al solo scopo sperimentale (nel caso di animali). Pionieri in questo campo furono Myers e Sperry che negli anni cinquanta, partendo dalla consapevolezza che il cervello del gatto e della scimmia, così come quello dell'uomo, è organizzato in modo tale che l'informazione, a sinistra del punto fissato, è proiettata nell'emisfero destro e viceversa, pensarono che, recidendo i collegamenti tra i due emisferi, avrebbero isolato le vie nervose attraverso le quali le informazioni di un emisfero si integrano con quelle dell'altro.
Il collegamento tra i due emisferi avviene attraverso il corpo calloso, un enorme fascio di fibre nervose (oltre duecento milioni di neuroni nell'uomo), che ha la funzione di tenere ciascun emisfero al corrente delle attività dell'altro ed è un sistema di comunicazione totalmente efficace; ed inoltre da un'altra formazione minore, la commissura anteriore. Sulla linea mediana è presente anche un'altra struttura, detta chiasma ottico, responsabile della "circolazione" dell'informazione visiva in entrambi gli emisferi.
Dagli studi condotti sugli animali fu scoperto che la commisserectomia totale comportava che le informazioni visive presentate ad un occhio erano del tutto sconosciute alla metà del cervello non direttamente servita dall'occhio in questione. Si pensava già alle implicazioni che questi esperimenti avrebbero portato per l'uomo, e fu superato anche il problema etico, visto che già dal 1940, un neurochirurgo, Van Wagenen aveva operato ventisei pazienti epilettici, recidendo le connessioni interemisferiche.
Nei casi di epilessia indomabile, infatti, quando la localizzazione dell'area malata, coincideva con una regione importante, non essendo possibile l'asportazione, si interveniva con la resezione del corpo calloso; si pensava, in tal modo, di far scatenare l'attività convulsiva solo in un emisfero, lasciando l'altro in grado di controllare il corpo. Akelaitas e alcuni colleghi si chiesero quali fossero le conseguenze di tale intervento sulle altre facoltà cerebrali; con una serie di articoli nel corso degli anni quaranta, giunsero alla conclusione che dopo tale tipo di intervento non erano evidenziabili disturbi prassici o di linguaggio. Questi risultati erano, però, da attribuirsi probabilmente alla mancanza di raffinatezza nelle tecniche sperimentali adoperate (Miller, 1973); gli stessi tipi di esperimenti condotti da Sperry, Gazzaniga e Bogen (1967), portarono, infatti, a risultati completamente diversi.
In particolare Gazzaniga studiò il paziente W. J. che aveva subito una commisserectomia parziale. La mancanza di collegamento tra i due emisferi sembrava non produrre alcun disturbo nella vita di tutti i giorni, ma sottoponendo il paziente ad un esperimento che comportava la sua esposizione a stimoli visivi somministrati per tempi brevissimi (attraverso cioè il tachistoscopio che permette la presentazione dell'informazione visiva in modo tale da non consentire il suo passaggio da un emisfero all'altro), alternativamente nel campo destro o in quello sinistro, fu visto che soltanto l'oggetto che ricadeva nel campo visivo destro, ossia quello collegato all'emisfero sinistro, poteva esser descritto, mentre questo non era possibile quando gli oggetti erano posti nel campo visivo sinistro. Tutto ciò quadrava perfettamente con le relazioni anatomiche fondamentali e si accordava con la tesi per la quale il linguaggio, nella maggior parte degli individui, è localizzato nell'emisfero sinistro.
Gazzaniga continuò i suoi esperimenti, interrogandosi su che cosa sapeva fare l'emisfero destro da solo. Presentò, quindi, al paziente un disegno, chiedendogli di riprodurlo manualmente: il compito fu eseguito perfettamente, con la sinistra, ma presentava enormi difficoltà quando a svolgerlo era la mano destra. La mano sinistra, dunque, controllata dall'emisfero controlaterale, quello destro, eseguiva la prova molto meglio della destra, controllata dall'emisfero sinistro, dove risiede il centro del linguaggio. Se al paziente era chiesto di eseguire il compito esclusivamente con la destra, le difficoltà erano tali che la mano sinistra interveniva in aiuto.
Da questo momento in poi, cominciò ad affermarsi, tra i maggiori studiosi, la convinzione che vi fosse una chiara dicotomia tra i due emisferi: quello sinistro, specializzato per i processi analitici, e quello destro per i processi olistici. Ancora Gazzaniga, in collaborazione con LeDoux (1977), in esperimenti successivi, propose ai soggetti esaminati, un compito che non richiedeva capacità esecutive; gli sperimentatori riscontrarono che le differenze tra i due emisferi, in quelle circostanze, sparivano, quindi giunsero alla conclusione che la superiorità dell'emisfero destro si verificava quando il compito richiedeva la manipolazione di oggetti con la sinistra. Trassero, inoltre, altre indicazioni che li allontanavano dal modello dicotomico tra i due emisferi e li portavano verso alcune nuove conclusioni: all'interno della scatola cranica esiste "quello che si chiama il percorso finale comune, concetto che si riferisce ad un fascio di neuroni che escono dal cervello per innervare le braccia o le gambe" (Gazzaniga, 1989).
L'emisfero sinistro si occupa, quindi, di parlare, mentre quello destro svolge compiti di elaborazione di informazioni tattili, non verbali, per un risultato finale di collaborazione. Le conclusioni a cui giunsero Sperry e Gazzaniga ebbero ripercussioni di notevole rilevanza scientifica specialmente per quanto riguarda il cervello, con l'elaborazione della loro tesi, basata sul concetto di struttura modulare, che rende giustificazione alle differenze osservate tra i cervelli di diversi pazienti; i cervelli non risultano organizzati tutti allo stesso modo, in quanto i moduli che li formano possono disporsi in maniera differente, da un soggetto all'altro. I successivi esperimenti di Gazzaniga partirono proprio da quest'assunto di base e per questo furono presi in esame diversi pazienti che presentavano caratteristiche differenti, come quelli che mostravano competenze linguistiche relegate nell'emisfero destro. Tra i pazienti col cervello diviso, infatti, Gazzaniga riscontrò che nella maggior parte dei casi, l'emisfero sinistro continuava a verbalizzare come prima, mentre l'emisfero destro era muto; queste osservazioni confermavano perfettamente gli studi tradizionali, assertori della dicotomia cervello destro - cervello sinistro. I suoi lavori andarono, però, oltre, cercando di dare delle risposte ad alcuni comportamenti del soggetto che non rientravano nelle osservazioni tradizionali. In un esperimento, condotto con la collaborazione di Le Doux e Wilson (1979), si presentarono al soggetto due problemi concettuali da risolvere: mentre due immagini venivano proposte separatamente, agli emisferi, si chiedeva al soggetto di dare una risposta indicando dei cartoncini, che rappresentavano un collegamento con l'immagine. Naturalmente, la mano destra sceglieva il collegamento con l'immagine osservata dall'emisfero sinistro e quella sinistra il collegamento osservato dall'emisfero destro; quando poi, si chiedeva di spiegare le due scelte, il soggetto attribuiva entrambe a ciò che aveva visto la parte sinistra del cervello, perché essa utilizza il linguaggio ma non è al corrente dell'informazione giunta all'altra metà. La tesi dello studioso in grado di giustificare tale atteggiamento, è che il cervello umano è chiamato ad interpretare e a spiegare fenomeni reali, costruendo una teoria adatta. "Il nostro senso di consapevolezza soggettiva dipende dalla necessità del nostro emisfero sinistro dominante di spiegare le azioni intraprese da uno qualsiasi dei molteplici sistemi mentali che dimorano dentro di noi . Questi sistemi che coesistono con il sistema linguistico, non sono necessariamente in contatto con i processi di linguaggio, prima dell'esecuzione di un'azione. Una volta che vengono intraprese le azioni, l'emisfero sinistro osservando i diversi comportamenti, costruisce una storia relativa al significato, e questo a sua volta diviene parte del sistema di comprensione linguistica di una persona" (Gazzaniga, 1983).
Questi studi con soggetti dal cervello diviso servirono all'elaborazione di una teoria sul cervello normale, organizzato, quindi, in sistemi di elaborazione modulari, i quali si esprimono solo attraverso l'azione e non mediante la comunicazione verbale. L'emisfero sinistro, dominante, dunque, doveva interpretare i comportamenti manifesti e le risposte emotive, che scaturivano da questi moduli mentali separati. Per sostenere questa teoria, Gazzaniga eseguì alcuni esperimenti con dei pazienti normali, cui però veniva addormentato un emisfero. Tutto ciò era reso possibile dal test di Wada, tecnica inventata da Juin Wada (1962), neurochirurgo canadese, che attraverso l'iniezione, nelle arterie cerebrali, di un anestetico (l'Amytal sodico) ad azione breve, permette di addormentare l'emisfero sinistro, "addormentando" conseguentemente anche la metà controlaterale del corpo; si capisce bene che da tale situazione si possono trarre importanti indicazioni circa l'organizzazione cerebrale. Ponendo, infatti, un cucchiaio nella mano sinistra del paziente, e, chiedendogli, dopo l'effetto dell'anestetico, di identificare verbalmente l'oggetto, egli appare oltremodo perplesso e non sa pronunziare parola. Se gli si presenta un gruppo di oggetti, e gli si chiede di indicarlo, egli riconosce immediatamente il cucchiaio (Gazzaniga, 1989). In questo caso, il paziente adopera l'emisfero sinistro per teorizzare sui movimenti avviati dal destro: tutto ciò è possibile perché l'informazione è, comunque, codificata dal cervello, in uno dei moduli mentali che è, però, sprovvisto di linguaggio; essa è pronta, capace di esprimersi nel movimento, anche se inaccessibile al sistema linguistico. L'informazione è, infatti, immagazzinata in moduli: "Questi moduli possono calcolare, ricordare, provare emozioni, agire, in modo da non dovere necessariamente essere in contatto con il linguaggio naturale e coi sistemi cognitivi, che sottendono la privata esperienza cosciente di ciascuno di noi" (Gazzaniga, 1989).
Qualcosa che poteva mutare queste idee di base, avvenne dopo il 1978, quando alcuni pazienti mostrarono l'emisfero destro "capace di funzioni linguistiche." Sottoponendoli, infatti, alla proiezione di una serie di diapositive di parole, quando si chiedeva loro di fare un riassunto circa ciò che avevano letto, le parole presenti nel campo visivo destro erano subito riferite esattamente, mentre quelle del campo sinistro non risultavano esposte in modo chiaro e dettagliato. Alla richiesta di disegnare un oggetto presentato nel campo visivo sinistro, nonostante la risposta verbale fosse stata: "Non ho visto nulla", la mano sinistra disegnava l'oggetto. Tutto ciò dimostrava che anche l'emisfero destro presentava potere di linguaggio, e le sue "mancanze" erano inerenti al fatto che il destro non riusciva a compiere un'inferenza tra due parole presentate o a risolvere semplici problemi matematici. Possedere il sistema linguaggio non significa, dunque, avere una ricca attività cognitiva. ½ sono, in altre parole, diversi sistemi responsabili dello sviluppo di processi che il linguaggio, successivamente, riferisce.
La teoria di Gazzaniga non fu certo esente da critiche, visto che, ad esempio, Shallice (1990) definì inadeguate le sue argomentazioni.
Per il neuropsicologo del Medical Research Council di Cambrige adottando tali convincimenti, bisogna credere che anche per il soggetto normale non ci sono di solito delle informazioni disponibili per il sistema cognitivo sull'antecedente causale di un'azione e in più, non vi sono dati che attestano l'esistenza di un mezzo grazie al quale una parte del sistema potrebbe operare indipendentemente dal resto producendo delle azioni che hanno cause sconosciute al resto del sistema. Tutta la critica mira comunque ad una sola conclusione, ossia che "il comportamento dei pazienti con cervello diviso può essere fuorviante per la comprensione della funzione normale!" (Shallice, 1990).
Gazzaniga continuò tuttavia ad essere un convinto assertore dell'esistenza dei moduli mentali come effettive componenti del cervello anche alla luce delle nuove prove fornite dagli esperimenti condotti; uno di questi, esamina il paziente J. W. cui era stata sezionata la parte posteriore del corpo calloso che collega i due lobi occipitali. Durante l'esperimento venivano presentati, sempre per tempi brevissimi, immagini d'ogni genere all'uno e all'altro emisfero; subito dopo l'operazione, gli stimoli mostrati all'emisfero destro erano descritti con scarsa precisione, mentre col passare del tempo, i risultati miglioravano. Lo sperimentatore si chiedeva cosa fosse successo e giunse alla conclusione che alcuni moduli, che trattavano i vari attributi dello stimolo, erano ancora collegati col cervello sinistro. Prova di ciò era il fatto che il paziente avvertiva la presenza di qualche immagine nella mente anche se non sapeva dare una descrizione precisa di essa; tutto ciò avveniva perché l'emisfero sinistro acquisiva ancora dei frammenti d'informazione per i quali azzardava una congettura. Quando, infatti, fu praticata la completa resezione del corpo calloso, J. W. perse la capacità di assegnare un nome agli stimoli presentati all'emisfero destro: "Era come se i moduli separati che nel cervello destro elaboravano i correlati cognitivi degli stimoli non potessero più accedere ai restanti sistemi di collegamento interemisferico" (Gazzaniga, 1989).
Altra conferma per la sua teoria si riscontrò con un altro esperimento: lo studioso lavorò con un paziente, V. P., che possedeva due parti minime di commissure, una del corpo calloso posteriore ed una di quello anteriore, ancora intatte (informazione, questa, ottenuta grazie alla risonanza magnetica nucleare, RMN). La parte posteriore, coinvolta nelle funzioni visive, avrebbe dovuto fornire le informazioni percettive, raccolte con l'emisfero destro, al sinistro sì da rendere possibile la descrizione dell'oggetto, mentre quella anteriore sarebbe dovuta intervenire per trasmettere l'informazione semantica per giudicare se due parole erano o no collegate fra loro. Il soggetto non era capace di compiere ciò che ci si attendeva, quasi che la parte residua del corpo calloso non fosse sufficiente a sorreggere queste attività. Insistendo però con questo paziente, Gazzaniga ottenne dei risultati che lui stesso definì affascinanti: solo quando era presentata una coppia di parole affini sia visivamente che foneticamente, il soggetto esprimeva il giudizio esatto. La conclusione era che le due parti del corpo calloso erano sufficienti "per integrare l'informazione incrociata", quando entrambi i sistemi lavoravano insieme e in parallelo.
ASIMMETRIE MORFOFUNZIONALI NEI VERTEBRATI INFERIORI E SUPERIORI.
3.1. Introduzione.
Lo studio sinora condotto porta alla conclusione che la dicotomia tra i due emisferi non è così spiccata come era sostenuto dai primi ricercatori. Indubbiamente sono presenti asimmetrie funzionali in stretta correlazione con le asimmetrie morfologiche, ma ciò non implica necessariamente un rapporto dicotomico, che si manifesta con una chiara dominanza della parte sinistra sulla destra, o comunque di una parte su un'altra.
La nozione di dominanza emisferica, proposta per la prima volta da Jackson (1868) e sorta, soprattutto, in considerazione del linguaggio, rimase in auge fino alla fine dei nostri anni sessanta. Le considerazioni iniziali vennero successivamente analizzate criticamente e si adottarono nuovi punti di vista; il linguaggio cominciò ad essere inteso come una funzione tra le altre e si giunse alla conclusione che la relazione tra i due emisferi variava secondo quale particolare funzione si prendeva in considerazione; proprio per questo sembrò più appropriato parlare di asimmetria funzionale anziché di netta dominanza.
Certo gli studi sperimentali diedero evidenza del fatto che l'emisfero sinistro era specializzato in funzioni complesse e nel controllo del linguaggio, mentre quello destro era "addetto" alla percezione di materiale non verbale e alla manipolazione delle relazioni spaziali, ma tutto ciò si intese nel senso di una stretta collaborazione in vista di un fine determinato: la perfetta organizzazione cerebrale.
Il vecchio concetto di dominanza si basava su alcune affermazioni che comprendevano i seguenti punti:
Le asimmetrie cerebrali dell'uomo e quelle degli animali sono equivalenti da un punto di vista anatomico;
Le asimmetrie funzionali sono una caratteristica specie-specifica dell'uomo. Gli emisferi cerebrali dell'uomo, a differenza di quelli degli altri animali, svolgono funzioni differenziate.
Nei soggetti destrimani, la diversità funzionale dei due emisferi è da ricondurre al fatto che l'emisfero di sinistra svolge tutte le funzioni cognitive e prassiche di ordine superiore, e viene pertanto chiamato emisfero dominante. Gli emisferi cerebrali sono invece equivalenti per quanto riguarda le funzioni elementari di senso e di moto;
Nei mancini l'organizzazione corticale delle funzioni superiori è esattamente speculare a quella osservata nei destrimani;
(Umiltà, 1995).
Le tendenze attuali hanno posto in discussione tutti gli enunciati delle prime teorie, primo fra tutti, la negazione di asimmetrie morfofunzionali in specie non-umane.
Numerose evidenze sperimentali supportano tali affermazioni; la più antica asimmetria morfologica documentata risale a ben seicento milioni di anni fa; infatti, i precursori dei Cordati, i calcicordati del periodo Cambriano, appaiono essere molto asimmetrici nella regione della testa (Jefferies e Lewis, 1978 citato in Vallortigara, 1994). Anche la più antica asimmetria comportamentale di cui abbiamo notizia risale allo stesso periodo, i fossili di trilobiti (antichi crostacei, oggi estinti, imparentati alla lontana coi moderni limuli) presentano tracce di ferite sanate, nella maggioranza dei casi (oltre il 70%), sulla parte inferiore destra del corpo (Babcock e Robinson, 1989 citato in Vallortigara, 1994). Tutto ciò suggerirebbe la tendenza ad affrontare il predatore girandosi verso sinistra, oppure l'attitudine da parte del predatore di attaccare la vittima prevalentemente dal suo lato destro, forse in relazione all'occhio adoperato per fissare la preda.
Oggi sappiamo che sia uccelli che mammiferi manifestano il fenomeno delle asimmetrie cerebrali e comportamentali; forse pressioni evolutive simili ne hanno determinato la comparsa, in modo indipendente in ogni specie ma è più verosimile pensare che potrebbero essere state ereditate da comuni antenati rettiliani.
Le più recenti ricerche di tipo comparativo sulle lateralizzazioni cerebrali hanno pertanto come fine l'accertamento di asimmetrie nelle specie appartenenti alle classi di vertebrati inferiori (pesci, anfibi, rettili).
L'importanza dello studio comparativo risiede non tanto nel fatto che grazie ad esso si sono ricavate preziose informazioni che per ovvie ragioni etiche non sarebbero potute essere tratte dal solo studio del cervello umano (con sperimentazioni di tipo invasivo, ad esempio), quanto nel fatto che si è potuto capire perché nel corso dell'evoluzione sia comparso il fenomeno della lateralizzazione cerebrale, quali siano state le pressioni evolutive che ne hanno consentito l'emergere, perché talune funzioni possono coesistere in un emisfero e altre no.
A questi interrogativi, infatti, non possono rispondere le teorie che si basano solo sullo studio dell'uomo e che partono dal presupposto che le asimmetrie cerebrali siano una conseguenza del linguaggio verbale.
3.2. Pesci, anfibi e rettili.
La valutazione di comportamenti lateralizzati nei pesci si avvale di tecniche particolari in grado di verificare l'atteggiamento dei soggetti in un comportamento abituale, la fuga. Importanti considerazioni si sono tratte, ad esempio, dall'osservazione delle cicatrici esterne, che rappresentano un indice dei colpi inferti dai predatori. Nei Coregoni (Coregonus nasus e Coregonus clupeaformis) le cicatrici riscontrate erano di tre tipi: piccole e rotonde, causate probabilmente da parassiti marini; larghe e rotonde, causate probabilmente da tentativi di cattura nelle reti, e, infine, cicatrici da taglio. Tali ferite comparivano sempre sul lato sinistro e sotto la linea laterale, fatto questo indicativo della presenza di lateralizzazione nel comportamento di fuga in questa specie. Cantalupo, Bisazza e Vallortigara (1995) hanno osservato l'atteggiamento di un pesciolino d'acqua dolce, il Girardinus falcatus, in una situazione di deviazione di fronte ad un falso predatore. In quell'occasione venne utilizzata un'attrezzatura sperimentale consistente in un serbatoio bianco di plexiglas con un lato trasparente (tale che i pesci potessero vedere i predatori) e con il lato superiore chiuso. Il falso predatore, una forma ellissoidale bianca, con tre zone scure a rappresentare un paio di occhi e la bocca, era fissato nell'estremità inferiore del plexiglas con un perno, in modo da poter essere rapidamente alzato e presentato al pesciolino. L'apparizione improvvisa della sagoma produceva un brusco scatto laterale seguito dalla fuga. I risultati furono i seguenti: i piccoli esemplari mostravano una tendenza, a livello di popolazione, a fuggire verso destra durante le prime presentazioni dello stimolo; la tendenza a mano a mano diminuiva per giungere a rovesciarsi: dopo quattro sessioni di una sessantina di prove ciascuna, infatti, i pesci fuggivano verso sinistra. Gli esemplari adulti mostravano simili asimmetrie con la differenza che quella iniziale era meno pronunciata (probabilmente l'esperienza dei soggetti con veri predatori determinava ciò). Difficile era trarre delle conclusioni circa il tipo di asimmetria, ossia motorio o sensoriale, ma ciò che interessava era documentare tali fenomeni e condurre, su queste prime indicazioni, nuovi esperimenti per confermarle e spiegarle.
A tal fine, altri tipi di pesci sono stati osservati: il pesce zebra (Brachidanio rerio) usa preferenzialmente l'occhio sinistro per fissare stimoli nuovi; il pesce gatto (Ictalurus punctatus) adopera la pinna pettorale sinistra per produrre i suoni stridulatori tipici della sua specie: negli esemplari di questa specie è, infatti, presente il canale dell'apparato "stridulatore" dove avviene un processo di allargamento del primo muscolo pettorale sulla colonna vertebrale, per produrre i suoni caratteristici. Su venti esemplari di questa specie nove usavano la pinna sinistra, uno solo la destra e gli altri usavano indifferentemente l'una o l'altra: ciò significa che il 50% della popolazione risultava lateralizzato (Fine et al., citato in Vallortigara e Bisazza, 1997).
Vallortigara e Bisazza hanno studiato la preferenza di rotazione, durante il nuoto nei Mosquitofish osservando che le femmine ruotavano in senso orario durante la mattinata ed in senso antiorario nel pomeriggio. Tali preferenze sembrano derivare da meccanismi di orientamento, visto che, questi soggetti, nel loro ambiente naturale, sfruttano la posizione del sole per capire la loro distanza dalla costa, e quindi la profondità delle acque, per sfuggire ad eventuali predatori. I pesci osservati mantenevano quelle posizioni che variavano dal mattino al pomeriggio, proprio per osservare il sole. Oltre ai meccanismi di orientamento, però, alla base di un simile comportamento risiede anche una lateralizzazione a livello individuale che deriva da un'asimmetria neurale.
Anche nei rettili e negli anfibi sono state riscontrate delle chiare forme di lateralizzazione. Interessanti sono state le osservazioni condotte presso l'Università del Connecticut sul camaleonte americano (Anolis). Questi animali affrontano spesso gli altri maschi in scontri aggressivi, e durante la ricerca è stato osservato quale era il lato preferito per pararsi dagli attacchi: gli esemplari esaminati prediligevano fissarsi con l'occhio sinistro durante tali scontri (Vallortigara e Bisazza, 1997).
La Rana pipiens, studiata da ricercatori del Tennessee, emette dei suoni caratteristici per comunicare con i propri conspecifici. Se un maschio viene "montato" per sbaglio da un altro maschio, questi si difende emettendo dei vocalizzi, che sembrano esser mediati dai neuroni dell'area pretrigeminale (localizzati anteriormente ai bordi del tetto ottico e del cervelletto). Inducendo quindi la vocalizzazione in gruppo di rane con lesione all'area pretrigeminale, fu notato che l'emissione di vocalizzi era minore quando la lesione interessava l'area sinistra. Gli anfibi dimostravano, dunque, una dominanza delle strutture cerebrali sinistre nel controllo della produzione delle loro vocalizzazioni specie-specifiche (coinvolgimento delle strutture di sinistra in tale funzione, che verificheremo ripetersi anche in altri animali, soprattutto nell'uomo).
Uno degli aspetti che viene preso in considerazione nella ricerca di lateralizzazione nei vertebrati inferiori, è l'uso dell'arto.
Alcune specie di anfibi, in particolar modo, sono stati osservati mentre venivano loro sottoposti due tipi di test. Cantalupo et al. (1996) hanno studiato il rospo comune, Bufo bufo, mentre cercava di liberarsi sia di un palloncino di gomma che gli ricopriva tutta la testa sia di una strisciolina di carta incollata sul muso. I risultati furono molto importanti dal momento che in entrambi i tests, gli esemplari esprimevano una forte preferenza, a livello di popolazione, per la zampa destra. Fu proposta, così, un'ipotesi per la quale tale preferenza doveva esser associata all'asimmetria anatomica che interessa lo stomaco del rospo, ma fu ritenuta improbabile dagli stessi autori visto che un'altra specie (Bufo marinus) non dimostrava asimmetria in questi tests. Ciò non significava che questa specie non fosse lateralizzata; in un test in cui gli animali erano posti con la pancia rivolta verso l'alto, essi utilizzavano prevalentemente la zampa destra per agganciarsi ad un supporto che li aiutasse a rigirarsi. Tale asimmetria risultò, addirittura, quantitativamente più pronunciata rispetto a quella che interessava la specie Bufo bufo.
3.3. Uccelli.
Abbiamo già detto come gli studi del secolo precedente avevano appoggiato la convinzione che le asimmetrie cerebrali negli animali fossero equivalenti da un punto di vista anatomico, ed inoltre che le asimmetrie di funzione fossero specie-specifiche dell'uomo, vale a dire totalmente inesistenti negli animali. A tal proposito, la classe di vertebrati maggiormente studiata è stata quella degli uccelli.
La prima dimostrazione di asimmetria funzionale risale al 1971, quando Fernando Nottebohm rilevò nel canarino domestico come l'ipoglosso di sinistra fosse responsabile del controllo canoro.
Negli uccelli canori la siringe, ossia l'organo periferico che presiede alla produzione del canto, è costituita da due metà simmetriche, le quali possiedono, ognuna per proprio conto, la fonte per la produzione dei suoni, indipendentemente innervata dai nervi ipoglossi. L'autore dimostrò che la sezione dell'ipoglosso di sinistra portava alla perdita completa del canto, che restava, invece, immutato con la sezione dell'ipoglosso di destra. Inoltre Nottebohm notò che la funzione poteva essere assunta dall'ipoglosso di destra nel caso in cui la sezione fosse avvenuta in un periodo anteriore alla completa stabilizzazione del canto (Nottebohm, 1979, citato in Vallortigara, 1994). All'epoca a questa scoperta non fu data particolare importanza, suscitò qualche curiosità ma fu considerata come una sorta di "bizzarria evolutiva".
La dominanza ipoglossale sinistra fu invece verificata anche in varie altre specie di uccelli: nel fringuello e in diversi passeriformi (Leman, 1973).
Altre indicazioni riguardano un tipo di lateralizzazione per la percezione del canto; una lesione, infatti, al nucleo talamico sinistro in una specie di fringuello (Taeniopygia guttata castanotis) lascia inalterata la capacità di canto ma inibisce la discriminazione tra due canti familiari, diversamente da una lesione al nucleo talamico destro che non produce particolari effetti (Nottebohm et al., 1990 citato in Vallortigara, 1994).
Abbiamo già affermato che il papallo non dimostra lateralità per il canto, eppure si è riscontrata una preferenza per l'arto sinistro, in compiti di manipolazione del cibo, all'interno di questa specie. In uno studio condotto da Friedman e Davis (1983) con venti soggetti di quindici specie differenti, si è rilevato l'uso dell'arto destro soltanto per tre di essi, di tre specie differenti.
Rogers (1980) ha riscontrato che otto sulle nove specie di papalli australiani esaminati mostravano un uso preferenziale per la zampa sinistra nella prensione del cibo, dunque solo una specie sceglieva la destra.
Cannon (1983) ha riscontrato preferenza per l'arto destro in due altre specie appartenenti alla famiglia dei papalli. Purtroppo ancora non sono chiari i motivi per i quali alcune specie privilegiano l'uso dell'arto destro mentre la maggior parte quello dell'arto sinistro. Probabilmente la scelta è collegata al tipo di cibo che mangiano e da come si nutrono; infatti, l'uso preferenziale della zampa è stato riscontrato maggiormente nel caso in cui i papalli si nutrivano mentre stavano appollaiati su un albero rispetto a quando mangiavano a terra (Nos e Camerino, 1984). C'è da dire che nel papallo proprio l'arto destro è da considerarsi il maggior organo manipolatorio, quindi quello sinistro fungerebbe da supporto.
Walker (1980) propose un'ipotesi in base alla quale la preferenza per un arto emerge solo in quelle specie che usano gli arti per compiti manipolativi, come il nutrirsi. I piccioni, ad esempio, non si aiutano con le zampe per cibarsi e allo stesso tempo non manifestano una spiccata preferenza dell'arto: da un esperimento di Gunturkun, Kesch e Delius (1988), emerse l'assenza di preferenza in piccioni impegnati nel tentativo di rimuovere un pezzo di nastro adesivo dal loro becco. Da tale prova, gli autori conclusero che la preferenza non dipende dal tipo di compito ma dalla specie, visto che i papalli osservati nello stesso compito usano il loro arto preferito. D'altro canto in esperimenti differenti condotti da Davies e Green (1991) i piccioni dimostrarono preferenza: erano osservati mentre spiccavano il volo e mentre atterravano, e, soprattutto nella seconda fase, prediligevano una zampa. Gli autori collegarono tale preferenza alla maggiore difficoltà presente nell'atterraggio rispetto a quelle che c'erano nello staccarsi il nastro adesivo dal becco.
Anche i papallini vennero testati con quest'ultima prova perché sono papalli che non usano le zampe per nutrirsi: gli esemplari non diedero prova di preferenza, indice questo che rafforzava l'ipotesi per la quale la lateralità si riscontra solo con specie che manipolano oggetti (Rogers e Workman, citato in Bradshow e Rogers, 1993). Quest'ipotesi non venne però confermata da esperimenti condotti con una specie che non usa le zampe per manipolare direttamente gli oggetti, ossia il pollo (Gallus gallus) cosi come il pulcino. La ricerca si svolse osservando i polli mentre raspavano il terreno in cerca di cibo ed emerse una chiara tendenza a preferire la zampa destra (68%); successivamente vennero sottoposti al "compito del nastro adesivo" e la tendenza già osservata si rilevò rafforzata (84%) (Rogers, 1989). Questa preferenza fu subito correlata alla migliore abilità dell'occhio destro riscontrata da Parson e Rogers. I due autori avevano indagato il ruolo di alcune strutture cerebrali per alcune funzioni lateralizzate osservando polli con la commissura del tetto ottico e posteriore sezionata; venivano presentati loro dei chicchi tra i quali ve ne era uno rosso e i polli che agivano con un sol occhio si comportavano nel modo seguente: con quello destro lo beccavano ogni volta, diversamente che con quello sinistro. Sicuramente simili atteggiamenti dipendono da funzioni visive presidiate da sistemi strutturali che purtroppo non sono ancora ben delineati (Bradshow e Rogers, 1993). Anche il pulcino evidenziò una forte preferenza sia nel test del nastro adesivo sia nel raspamento del terreno, e questo venne attribuito alla differente specializzazione dei due emisferi: il sinistro predisposto alla localizzazione spaziale del cibo o di altri oggetti, il destro alla categorizzazione degli oggetti come cibo o non-cibo.
Interessanti si dimostrarono i risultati prodotti grazie ad un compito conosciuto come "pebble floor task", con cui Lesley Rogers, negli anni settanta, scoprì l'asimmetria nel cervello del pulcino. Durante il test si osservavano gli effetti della somministrazione di un inibitore della sintesi delle proteine, la cicloesammide che iniettato in un emisfero ne causava la completa disattivazione (Vallortigara, 1997). L'esperimento prevedeva la discriminazione di sassolini dal cibo, capacità che il pulcino acquisiva dopo poche beccate, ma che perdeva se la somministrazione dell'inibitore riguardava l'emisfero sinistro. I pulcini trattati rispondevano in modo del tutto casuale, incapaci di discriminare i sassolini dai granelli di cibo.
Le stesse conclusioni si ottenevano occludendo temporaneamente un occhio: i pulcini che usavano quello sinistro erano incapaci di beccare solo i granellini di cibo. Ci si chiese allora da cosa derivasse questa asimmetria nel cervello del pulcino, e si pensò, dapprima, ai soli fattori genetici, per poi prendere in maggiore considerazione i fattori ambientali. Si osservò, infatti, che l'embrione del pulcino è orientato nell'uovo in modo tale che il suo occhio sinistro è coperto dal corpo, poiché il capo risulta reclinato sul lato sinistro ed è, dunque, quello destro a ricevere più luce. ando uova incubate alla luce lasciandole all'aperto rispetto ad altre tenute al buio durante il periodo critico in cui la luce sembra promuovere la crescita delle fibre nervose delle vie visive, Rogers dimostrò che pulcini nati dal secondo tipo di uova non presentavano asimmetrie nel test già descritto (citato in Vallortigara, 1997). La conclusione era dunque che l'asimmetrica disposizione alla luce all'interno dell'uovo produceva l'identica asimmetria nella maggioranza degli individui; infatti, rovesciando sperimentalmente la direzione dell'asimmetria nelle uova, i pulcini eseguivano meglio il pebble floor task utilizzando l'occhio sinistro anziché il destro.
Anche gli studi con i piccioni hanno fornito indicazioni importanti. Sono state, infatti, riscontrate asimmetrie strutturali negli strati più profondi del tetto ottico, le cui cellule erano più larghe e con più dendriti, la cui superficie neurale si delineava più estesa del 10% sul lato destro rispetto al sinistro. Al contrario gli strati meno profondi del tetto ottico avevano cellule più larghe sul lato sinistro. Gli autori dedussero che il tetto ottico sinistro avrebbe inibito quello destro e per verificare tali ipotesi condussero alcuni esperimenti con piccioni addestrati a svolgere determinati compiti, in condizioni di visione binoculare; i risultati confermarono l'ipotesi: gli esemplari che si muovevano con l'ausilio del solo occhio destro effettuavano un numero maggiore di beccate rispetto a quelli che vedevano solo con l'occhio sinistro (Gunturkun et al., 1992).
Si riscontrò così una diretta correlazione tra asimmetria anatomica ed asimmetria di funzione, presente sia per le femmine che per i maschi.
3.4. Topi e ratti.
Molte sono le asimmetrie anatomiche riscontrate sia nel cervello dei topi che dei ratti. I lavori più importanti sono stati eseguiti con l'intenzione di far emergere le differenze tra i due emisferi, e per far ciò Diamond et al. (1982; 1983) hanno diviso gli emisferi cerebrali in diverse sezioni e hanno misurato lo spessore della corteccia in vari punti. Seguendo tale procedimento è emersa una notevole asimmetria risultando, infatti, la parte destra più larga del 7% rispetto a quella sinistra. Ponendo in relazione livelli di androgeni plasmatici e misura di alcune strutture cellulari, in esemplari più vecchi (900 giorni di età) e che quindi avevano bassissimi livelli androgeni, questa asimmetria non era più presente, e lo stesso si manifestava anche in topi castrati; esattamente il contrario di quanto avveniva nei maschi con normali livelli di testosterone plasmatico.
Altro interessante elemento si dimostrò la conurazione morfologica delle femmine rispetto ai maschi, poiché queste presentavano asimmetria nella corteccia ma era l'emisfero sinistro ad essere più largo del destro. Come conseguenze di simili osservazioni gli autori postularono che gli estrogeni potevano inibire la crescita della corteccia destra ed, infatti, riscontrarono una più cospicua presenza di ormoni proprio nella parte destra.
Ancora altre misurazioni di parti cerebrali hanno indicato in pieno accordo che l'intero emisfero sinistro è notevolmente più largo e più pesante del destro, in particolar modo nei maschi della specie (Kolb et al., 1982; Sherman e Galaburda, 1984). In molti esemplari si è riscontrata asimmetria morfologica nell'ippocampo, indicazione importante questa, viste le molte funzioni attribuite a tale struttura (formazione della memoria, comportamento emotivo, orientamento spaziale). Lo stadio degli studi non ci permette di legare chiaramente le asimmetrie anatomiche alle funzioni, ma ci consente di evidenziare quelle che sono le asimmetrie funzionali in queste specie e di azzardare qualche particolare collegamento, che deve essere verificato con ulteriori esperimenti.
Sia i topi che i ratti mostrano una preferenza per l'uso di un arto che viene comunemente detta "pawedness" (preferenza della zampa), verificata già nel 1975 da Collins, grazie ad un test particolare; tale preferenza non era estesa a livello di popolazione ma caratterizzava fortemente i singoli esemplari. Signore et al. (1991) hanno ripetuto il precedente esperimento ed hanno ottenuto gli stessi risultati, evidenziando una maggiore lateralizzazione nelle femmine rispetto ai maschi.
Successivamente altri studiosi hanno riscontrato una relazione tra la direzione della pawedness e le dimensioni del corpo calloso: la preferenza per la zampa sinistra si riscontrava in esemplari dal corpo calloso molto piccolo, a livello di popolazione (Schmidt, Manhaes e de Moraes, 1991). Un esperimento (Gruber et al., 1992) con due gruppi di topi, uno dal corpo calloso mancante l'altro normale, ha messo in luce una maggiore lateralizzazione per il gruppo normale e ciò ha supportato l'ipotesi per la quale proprio il corpo calloso media l'inibizione di un emisfero da parte dell'altro e, così facendo genera lateralizzazione (Denenberg, 1981). Chiaramente tale struttura gioca un ruolo importante nella preferenza di arto, ma non è la sola; misurazioni di parti cerebrali hanno evidenziato che individui con una forte lateralizzazione erano caratterizzati da una più larga asimmetria in quattro zone della corteccia (Lipp, Collins e Nauta, 1984).
Ward e Collins (1985) hanno indicato, inoltre, che esemplari con il cervello più pesante presentavano una lateralizzazione maggiore, e questi risultati sono stati confermati da Cassells et al. (1990), i quali hanno osservato, in più, che il gruppo maggiormente lateralizzato presentava l'area centrale del corpo calloso più larga, ma che quando essa era espressa in relazione al peso del cervello, non risultava determinante per una più marcata lateralizzazione. La conclusione era dunque, che "la differenza nel peso del cervello tra i gruppi fortemente e debolmente lateralizzati, è un importante termine di correlazione della differenza nella forza di pawedness, ma non della differenza nella misura del corpo calloso per sé" (Bradshaw e Rogers, 1993).
Oltre a tale forma di lateralizzazione è stato osservato il movimento in circolo di ratti, che si manifesta con una marcata preferenza di lato a livello individuale e non di popolazione. Metà della popolazione, infatti, predilige girare in senso antiorario e metà in senso orario, e tale atteggiamento sembra esser collegato al livello di dopamina presente nella regione nigrostriatale; un danno unilaterale a tale zona porta il topo a ruotare verso il lato colpito dalla lesione ed un'iniezione di anfetamina, per esempio, potenzia tale atteggiamento (Jerussi e Glik, 1976). Da queste osservazioni gli autori conclusero che la direzione del movimento rotatorio nei soggetti normali è determinata da un più basso livello dell'attività dopaminergica nello stesso lato, verso il quale il ratto gira. E' stato inoltre riscontrato che l'asimmetria nella regione nigrostriatale è presente per il 90-95% dei ratti (Glick, Jerussi e Zimmerberg, 1977). L'asimmetria nel movimento rotatorio risulta persistente, visto che sebbene i soggetti vengono addestrati a ruotare nel verso opposto al loro preferito, essi ritornano al loro movimento spontaneo (Zimmerberg, Stumpf e Glick, 1978).
Ciò che comunque merita maggiore attenzione è lo studio di quei comportamenti che risultano lateralizzati a livello di popolazione, perché essi permettono al ricercatore di porsi in una prospettiva comparativa con l'uomo, migliore dal momento che la natura dei comportamenti lateralizzati (linguaggio, uso manuale), nella specie umana, è caratterizzata dall'essere estesa alla popolazione e non limitata al singolo individuo.
Un comportamento che è risultato lateralizzato a livello di popolazione, è il controllo del livello di attività. Durante gli esperimenti si procedeva ostruendo l'arteria cerebrale di una delle due parti emisferiche, oppure lesionando la regione corticale frontale di un emisfero. Se uno dei due procedimenti veniva eseguito sul lato destro del cervello si riscontrava iperattività nel soggetto, mentre se veniva applicato all'emisfero sinistro non si notava alcun effetto (Robinson, 1979; Pearlson e Robinson, 1981).
Inoltre tale asimmetria non era presente né in soggetti maschi in fase prepubertale o castrati, né nelle femmine: gli sperimentatori conclusero dunque che, probabilmente, ciò era dovuto agli effetti dell'ormone testosterone sullo sviluppo del cervello.
Un trattamento, infatti, con tale ormone in maschi castrati ristabiliva l'asimmetria (Starkstein et al., 1989).
Questi dati raccolti circa il livello di attività dimostra chiaramente che il controllo di tale aspetto comportamentale è presente nel cervello dei ratti e che lo sviluppo dell'asimmetria è influenzato, oltre che dalle prime esperienze, anche dalle condizioni ormonali.
Altre indicazioni importanti sono state ricavate da Sherman et al. (1980) con esperimenti che prevedevano gruppi sottoposti a trattamento nei primi giorni di vita e gruppi non trattati, al fine di indagare il controllo delle abilità spaziali. Gli autori hanno indagato la preferenza direzionale che gli esemplari mostravano svoltando ad un angolo: questa appariva lateralizzata ed influenzata dal trattamento. Il gruppo trattato e con gli emisferi intatti dimostrava una netta dominanza dell'emisfero destro (svolta a sinistra), a differenza dell'altro gruppo che non mostrava alcuna preferenza. Avveniva inoltre che l'asportazione dell'emisfero destro, in soggetti non trattati, provocava una preferenza per la svolta a destra che era, però, molto debole. La conclusione era, dunque, che l'emisfero destro detiene, nei ratti, il controllo del livello di attività spaziali.
Altri lavori di cui non forniamo, per ovvi motivi, una descrizione dettagliata, sono giunti alla conclusione che l'emisfero destro è specializzato nel controllo di comportamenti spaziali ed affettivi, e che il sinistro può sopprimere quello destro attraverso i collegamenti interemisferici (Bradshaw e Rogers, 1993).
L'emisfero sinistro è comunque specializzato nel processo di riconoscimento delle vocalizzazioni specie-specifiche (Ehret, 1987) e questa indicazione risulta di fondamentale importanza dal momento che tale funzione dell'emisfero sinistro potrebbe essere alla base di un eventuale processo di evoluzione, al cui termine si pone il processo di linguaggio nell'uomo (localizzato proprio nell'emisfero sinistro). Anche la divisione dei compiti tra i due emisferi sembra essere simile a quella che riscontriamo nell'uomo: una serie di importanti esperimenti ha rilevato, infatti, che l'emisfero sinistro è specializzato nello svolgimento di processi per trattare le informazioni sequenziali mentre quello sinistro di processi che riguardano informazioni simultanee o parallele (Bianki, 1988). Tale divisione tra gli emisferi non è, naturalmente, assoluta e bisogna considerare che la lateralizzazione cerebrale può esser modificata, per esempio, da stimolazioni ambientali. Emerge, dunque, la necessità di verificare la correlazione, se esiste, tra la lateralizzazione funzionale e le asimmetrie strutturali alterate da fattori quali la stimolazione ambientale.
3.5. Altri mammiferi.
Per quanto riguarda altre specie di mammiferi esistono, tutt'oggi, informazioni meno importanti rispetto ai topi ed ai ratti, e il motivo risiede nel fatto che questi ultimi sono più studiati. Il cervello di tutte le specie mammifere, tranne i marsupiali, è caratterizzato da un corpo calloso ben sviluppato che collega i due emisferi e che gioca un ruolo fondamentale nelle asimmetrie cerebrali; la commissura anteriore e quella ippocampale sono pure responsabili, probabilmente, dell'asimmetria cerebrale, ma purtroppo, non conosciamo molto circa la loro specifica funzione, a causa dei pochi studi che li riguardano.
Ciò che potrebbe rivestire veramente una posizione importante per lo studio delle asimmetrie è lo studio del cervello dei marsupiali, visto che presenta caratteristiche particolari. Il loro cervello manca, infatti, del corpo calloso; inoltre le commissure già menzionate sono più larghe e, addirittura, in un ordine, i Diprotodonta, è presente un'altra connessione interemisferica, il fasciculus aberrans. Considerato inoltre il differente metodo di riproduzione dei marsupiali, si pensa che questa specie potrebbe rappresentare il soggetto ideale per indagare fattori che influenzano lo sviluppo delle connessioni interemisferiche e il loro ruolo potenziale nella lateralizzazione.
Specie più studiate sono, invece, i gatti, i cani ed i conigli; si è osservato che, nei loro cervelli, l'emisfero destro è più largo e più pesante del sinistro (Kolb et al., 1982). Sono state riscontrate molte asimmetrie anatomiche relative alle fessure emisferiche, soprattutto nella regione anteriore, in modo specifico nei gatti. Tali asimmetrie anatomiche non erano, però, correlate alla preferenza di zampa, visto che il loro significato funzionale è oscuro; vale a dire che esse potrebbero comparire anche per caso nel corso dello sviluppo del cervello.
Per i conigli, il discorso sembra essere diverso dal momento che la loro corteccia motoria e visiva nell'emisfero destro contiene molte più zone di contatto sinaptico rispetto all'emisfero sinistro (Vrensen e De Groot, 1974) e questo indica che differenti processi nel trattamento delle informazioni sono correlati alla maggiore ampiezza che caratterizza l'emisfero destro.
Nei cani, non è stata riscontrata alcuna correlazione tra la maggiore larghezza del loro emisfero destro e la maggiore pesantezza del sinistro, come per i gatti, tra preferenza per una zampa e asimmetrie strutturali (Tan e Caliskan, 1987).
In questi animali è stata verificata la preferenza per l'uso di una zampa anteriore: tra i gatti veniva prescelta quella sinistra, in diversi compiti che prevedevano ricerca di cibo (Cole, 1955). Risultati diversi furono ottenuti successivamente visto che i soggetti adoperavano la zampa destra (Tan, Yaprak e Kutlu, 1990). Si condussero, perciò, ulteriori esperimenti che evidenziarono l'uso di una zampa a livello individuale, ma senza significativa proporzione a favore di un unico arto; solo nel caso in cui i soggetti venivano divisi in maschi e femmine, emergeva una preferenza (54%) per la zampa destra nei soli esemplari femminili. Per quanto riguarda i cani si è osservata una preponderante preferenza per la destra (57%) rispetto alla sinistra (18%) (Tan, 1987).
I fattori che influenzano lo stabilizzarsi della preferenza per la zampa, in questi animali, sono stati poco studiati, e ciò che si sa certamente è che quando avviene la stabilizzazione, questa viene mantenuta e rimane invariata anche innanzi a compiti più complessi.
PRIMATI
PROSCIMMIE
Lemuridi Indridi Lorisidi Tarsidi
SCIMMIE ANTROPOIDI
Scimmie Scimmie Scimmie
Nuovo Mondo Vecchio Mondo Antropomorfe
Callitrichidi Cebidi Cercopitecidi Ilobatidi Pongidi Ominidi
Oranghi Homo
Scimpanzé
Gorilla
3.6. Primati non-umani.
I primati non-umani hanno sempre avuto un posto privilegiato negli studi comparativi perché rappresentano lo stadio filogeneticamente più vicino all'uomo, per cui tutto ciò che li riguarda è strettamente inferibile alla specie umana nel contesto di una visione evoluzionistica. Alla luce di ciò l'alta specializzazione raggiunta dall'arto umano parrebbe derivare da una graduale evoluzione dell'arto anteriore che già nelle proscimmie assume funzioni più specifiche che non negli altri mammiferi ancorati ad una vita terricola. Come ulteriore specializzazione, già nelle proscimmie i due arti assumono funzioni diversificate: l'arto sinistro è usato in situazioni di caccia e il destro funge da supporto posturale.
Tutto ciò si sviluppò ulteriormente in seguito, grazie forse "al più straordinario mutamento anatomico" (Lovejoy, 1988) avvenuto durante il processo evolutivo: il bipedismo. Su tale evento si sono concentrate le più recenti teorie considerando, in particolar modo, gli importanti cambiamenti della morfologia di ossa e muscoli, ed inoltre la meccanica del movimento degli arti. Un confronto, per esempio, tra la pelvi umana e quella dello scimpanzé ha evidenziato che nell'uomo l'osso dell'anca è espanso trasversalmente, mentre nello scimpanzé è espanso verticalmente. I maggiori studiosi sostengono per tale ragione che il passaggio al bipedismo, permettendo all'arto superiore di liberarsi e di divenire, dunque, strumento di manipolazione, porta in sé "un tale potenziale evolutivo da far meritare a chi lo adottò il riconoscimento di una distinzione terminologica" (Leakey, 1995).
Ancora oggi persiste l'interrogativo che interessa il "perchè" si sia sviluppato il bipedismo e varie sono le ipotesi che vengono proposte a risposta di tale domanda: c'è chi sostiene che sia emerso soltanto per la necessità del trasporto di oggetti e non per la comodità di locomozione in sé; c'è chi invece lo considera un cambiamento vantaggioso in sé per affrontare condizioni ambientali in via di trasformazione o come necessità per guardare oltre l'erba alta tenendosi così pronti dinanzi ad attacchi di predatori. La risposta non è ancora emersa con certezza, e per tentare di scovarla sono necessari ulteriori studi sui resti fossili che possediamo e che potrebbero emergere da nuove ricerche.
3.6.1. Asimmetrie morfofunzionali nei primati non-umani.
Le strutture anatomiche del cervello dei primati non-umani già a livello delle Scimmie del Vecchio Mondo presentano molte affinità con quelle dell'uomo. Ciò, assieme a numerose altre evidenze evolutive, sembra presumere l'esistenza di un antenato comune a scimmie ed esseri umani. I resti fossili di questo antenato ancestrale mostrano la fessura di Silvio in posizione quasi verticale, che assume, negli stadi evolutivi successivi, posizione orizzontale, come è riscontrabile nell'uomo. Questa traslazione potrebbe esser derivata dallo sviluppo del lobo parietale inferiore, specialmente nell'emisfero sinistro, che nell'uomo serve a favorire lo sviluppo del linguaggio, come conclusione di un processo di pre-adattamento (Bradshaw, 1993). Nello specifico, molte sono le asimmetrie anatomiche osservate nei cervelli dei Lemuridi, dei gorilla, dei babbuini.
Tra i Lemuri si riscontra, nei due terzi delle specie prese in considerazione, che la corteccia retrocalcarina è la parte più asimmetrica, che comporta un maggior vantaggio per la parte sinistra del corpo (De LaCoste, Horvath e Woodward, 1988).
Graves e Humprey (1973) hanno studiato i crani di gorilla di costa comparandoli a quelli di montagna. In questi ultimi risulta che il lato sinistro è significativamente più lungo, asimmetria considerata però secondaria rispetto a quella relativa alla masticazione, tendenzialmente operata sul lato sinistro. La specie di costa, che possiede una struttura masticatoria meno sviluppata, probabilmente legata alle diverse condizioni alimentari condizionate dal tipo di ambiente, non presenta tale asimmetria.
Uno studio condotto su sette esemplari di babbuini ha evidenziato asimmetria nei lobi frontali; in sei esemplari il lobo destro risultava più lungo del sinistro.
Fra le scimmie propriamente dette si trovano asimmetrie cerebrali molto più simili a quelle umane, e le similarità aumentano chiaramente dalle scimmie del Vecchio Mondo alle scimmie antropomorfe (ad esempio l'aumento della prominenza del lobo frontale destro e di quello occipitale sinistro negli scimpanzé). Falk et al. (1990) hanno misurato la lunghezza dei solchi corticali, in 335 esemplari di Resi, grazie ad una moderna tecnologia tridimensionale che ha permesso di modificare le osservazioni precedenti. Si è infatti riscontrata una direzione asimmetrica dei lobi frontali con un significativo elongamento del destro in senso orbitale e dorsolaterale; inoltre una sostanziale predominanza di una parte del frontale sinistro. Questi studi rivestono particolare importanza perché ripercorrono le tappe evolutive che portano alle strutture definitive raggiunte nell'uomo.
Altre indicazioni riguardano la corteccia prefrontale e il suo coinvolgimento, soprattutto, in asimmetrie motorie riscontrato sia nell'uomo che nei primati non-umani. Importanti sono le informazioni ricavate sempre attraverso la misurazione della fessura di Silvio: negli scimpanzé, negli oranghi, nei babbuini tale struttura è più lunga nell'emisfero sinistro sebbene la differenza è minima (Yeni-Komshian e Benson, 1976) e l'estremità, come per gli umani, è più grande nell'emisfero destro (Cunningham, 1892).
Particolarmente discussa è stata la questione circa la presenza o meno delle asimmetrie già evidenziate per le scimmie antropomorfe già esaminate; utilizzando la tecnologia tridimensionale Falk et al. (1986) hanno rilevato queste asimmetrie anche in Macaco reso e in Macaco mulatta, ma misurazioni successive non hanno dato gli stessi risultati. Inoltre Heilbroner e Holloway (1988) hanno affermato che Macaco mulatta non presenta asimmetrie nella parte della fessura di Silvio che nell'uomo risulta più larga spiegando ciò col fatto che tale asimmetria nell'uomo è legata alla funzione linguistica. Gli stessi autori hanno, comunque, riscontrato asimmetrie emisferiche nella corteccia frontale, parietale e temporale in sessanta esemplari della specie già citata. Tali asimmetrie non riguardano né solchi coinvolti in aree visive, né adiacenti alla regione citoarchitettonica omologa all'area umana coinvolta nel linguaggio, ma solchi del lobo parietale di conformazione maggiore nell'emisfero sinistro.
STRUTTURE |
S > |
S=D |
D > |
SPECIE |
Lunghezza della Fessura di Silvio |
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Scimpanzé |
Misura del punto finale Fessura di Silvio |
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Orango |
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Scimpanzé |
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Gorilla |
Lobo frontale |
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Babbuini |
Lobo temporale |
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Scimmie V. Mondo |
La tabella n.5 illustra alcune asimmetrie anatomiche in cervelli di specie non umane. D = Destra; S = Sinistra.
Da: Geschwind e Galaburda, 1985.
3.6.2. Asimmetrie morfofunzionali nei primati umani
Solo di recente si sono tratte conclusioni significative circa le asimmetrie morfologiche presenti nel cervello umano: ancora nel 1962 Bonin concludeva, infatti, che le asimmetrie morfologiche delle aree cerebrali umane erano così lievi da non poter essere correlate ad asimmetrie funzionali. Solo un decennio più tardi nuove ricerche furono intraprese per indagare sulla variabilità tra gli individui e l'ontogenesi delle funzioni corticali (Bianki, 1988). L'attenzione degli studiosi si focalizzò sullo studio della fessura di Silvio e delle strutture ad essa adiacenti, proprio perché tale conformazione sembrava collegarsi direttamente all'asimmetria verificata tanti anni addietro tra l'emisfero destro e sinistro per la funzione linguistica da Broca. E' per questo che gli studi seguenti cercarono di rintracciare il correlato morfologico dell'asimmetria linguistica.
Nel 1968 Geschwind e Levytky mostrarono l'esistenza di asimmetria che interessava i lobi temporali superiori, in modo particolare il piano temporale. Da una ricerca su cento cervelli umani emerse che nel 65%di essi il piano temporale era più largo nell'emisfero sinistro ed inoltre che la direzione e la lunghezza della fessura di Silvio erano differenti tra i due lati del cervello. Le conclusioni di tali indagini erano considerate importanti dal momento che la struttura osservata era stata già descritta come parte dei processi linguistici trovandosi nell'area di Wernicke (Meyer, 1950). Geschwind e Levytky argomentarono inoltre che le differenze morfologiche interemisferiche evidenziate erano tali da essere compatibili con le asimmetrie del linguaggio e ciò dette le direttive alle indagini successive. J. Wada (1969) prese in considerazione la prevalenza del piano temporale sinistro già presente in cervelli di bambini o addirittura a livello fetale, da ciò si dedusse che tale asimmetria non derivava sicuramente dallo sviluppo dell'attività linguistica, ma poteva esser basata su peculiarità morfologiche.
Più specifici furono gli studi di Witelson e Pallie (1973) che comparando cervelli adulti e di bambini in base alla misura degli emisferi, videro che non c'erano differenze sostanziali tra le lunghezze dei piani temporali dei bambini rispetto agli adulti, restandone immutate le proporzioni. LeMay (1976), grazie all'impiego di moderne tecniche, stabilì che nei destrimani il lobo temporale e occipitale sinistro sono spesso più larghi (quasi di quattro volte), mentre il lobo frontale risulta più ampio e/o più lungo nell'emisfero destro (quasi di nove volte); inoltre, la terminazione della fessura di Silvo (punto silviano) è più bassa a sinistra. Nei mancini, invece, la distribuzione è più simmetrica dal momento che la differenza tra le strutture delle due parti è minima.
Una ristretta area coinvolta nelle funzioni linguistiche e collocata sul piano temporale (TPT) è più larga a sinistra; questa è considerata la struttura che maggiormente contribuisce all'asimmetria dell'intero piano temporale ed è una parte importante del substrato anatomico della lateralizzazione linguistica (Galaburda et al., 1978); così pure la regione sensoriale multimodale connessa alle regioni frontali del linguaggio (PG) risulta più estesa a sinistra e riflette le asimmetrie presenti a livello del lobo parietale inferiore (Galaburda, 1984).
Kertesz et al. (1990) hanno utilizzato la Magnetic Resonance Imaging (MRI) per la misurazione di linee ed aree delle regioni frontali, temporali, parietali di soggetti destri e sinistri (cinquantadue per gruppo): le immagini mostrarono che tutte le regioni dell'emisfero destro erano più larghe tra i gruppi, sebbene nei mancini la larghezza del lobo frontale sinistro era più estesa. I destri mostravano il lobo frontale anteriore destro, quello parietale ed occipitale sinistro più larghi rispetto ai controlaterali.
La tabella che segue riunisce alcune significative asimmetrie riscontrate nel cervello umano, con distinzione tra destri e mancini:
DESTRI MANCINI
STRUTTURE |
N |
S > |
S=D |
D > |
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N |
S > |
S=D |
D > |
Lobo frontale (larghezza) LeMay, 1976 |
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Lobo frontale LeMay, 1976 |
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Lobo frontale Chui, 1980 |
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Lobo occipitale (larghezza) LeMay, 1976 |
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Lobo occipitale LeMay, 1976 |
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Lobo occipitale Chui, 1980 |
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Lobo occipitale (lunghezza) McRae, 1968 |
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Fessura Silvana LeMay, 1972 |
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Fessura Silvana Ratcliff, 1980 |
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Fessura Silvana Ratcliff, 1980 |
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La tabella n.6 illustra alcuni studi condotti per rilevare asimmetrie anatomiche in cervelli umani, con la differenza tra soggetti destri e mancini. D si riferisce alla parte destra del cervello, S a quella sinistra, mentre N indica il numero dei soggetti esaminati.
Da: Geschwind e Galaburda, 1985.
3.6.3. L'uomo e i suoi progenitori diretti.
Ciò che emerge da tutti questi studi è, evidentemente, la voglia di rintracciare il vero progenitore della nostra specie attraverso l'esame delle affinità anatomiche. Per giungere a conclusioni certe i moderni studiosi si interrogano principalmente sulle caratteristiche specifiche che "ad un tratto" comparvero ad indicare il genere Homo.
I tratti distintivi delle scimmie antropomorfe si possono indicare sommariamente in encefalo piccolo, molari grandi, prognatismo, nutrizione basata su cibo di origine vegetale ed andatura bipede. Dal ritrovamento, avvenuto circa trent'anni fa, dei primi fossili di Homo habilis, vissuto secondo le ricostruzioni più attendibili, 2,5 milioni di anni or sono (Leakey, 1995), sono emersi i primi aspetti distintivi dell'uomo: maggiori dimensioni encefaliche e differente architettura dentaria.
"Il valore endocranico medio di una scimmia antropomorfa appena nata è di circa 200 cm3, la metà del valore che essa raggiungerà da adulta. L'encefalo di un neonato umano, al contrario, ha un volume di circa un terzo di ciò che sarà da adulto (1000 cm3 circa), e si triplicherà con una crescita rapida e precoce" (Leakey, 1995). Si capisce bene che se il volume encefalico dovesse raddoppiarsi (come succede per le scimmie antropomorfe) il valore alla nascita dovrebbe essere già alto, e questo procurerebbe non pochi problemi alla donna che sta per darlo alla luce. L'uomo iniziò dunque a discostarsi dalle caratteristiche encefaliche delle scimmie antropomorfe quando il volume degli individui adulti superò i 770 cm3 (Homo habilis= 800 cm3) e conseguentemente l'apertura delle pelvi si ingrandì, nel corso dell'evoluzione, proprio per far fronte a queste nuove caratteristiche.
Lo studio dei denti evidenziò delle altre novità evolutive: i molari si discostavano dalla conformazione riscontrata presso le scimmie antropomorfe. Ricordando che l'alimentazione di queste ultime era caratterizzata da cibi vegetali e, dunque, da alimenti teneri si comprende bene la presenza di cuspidi appuntite non presenti tra i primi membri della famiglia umana. Questi presentano, infatti, superfici masticatorie più ampie e piatte, adatte ad una diversa alimentazione costituita da cibi più duri, come la frutta protetta da un involucro resistente, (le noci ad esempio), e quasi certamente dal consumo di carne.
Altri cambiamenti sono stati osservati, ai quali abbiamo già accennato, come il bipedismo. E' già stato detto che le scimmie antropomorfe presentavano un'andatura bipede ma, probabilmente, la loro agilità era limitata. Il bipedismo incominciò la sua evoluzione come modo di locomozione più efficiente in un ambiente fisico in trasformazione (abbiamo già detto che non vi è, comunque, unanimità su tale evoluzione), così che una scimmia antropomorfa potesse sopravvivere in un habitat diverso dal precedente: essa aveva, infatti, la possibilità di attraversare spazi molto più estesi per la ricerca del cibo; successivamente il genere Homo sviluppò "una nuova forma di locomozione bipede che presupponeva una maggiore agilità e una più intensa abilità fisica. Un'efficiente e sicura deambulazione rappresentò un adattamento cruciale per l'evoluzione degli ominidi" (Leakey, 1995). Tutto ciò fu concluso grazie all'osservazione della posizione del foro occipitale (apertura alla base del cranio che consente il passaggio del midollo allungato e il suo prolungamento nel midollo spinale): la posizione arretrata riscontrata nelle scimmie antropomorfe riflette la loro postura con la testa protesa in avanti, mentre la posizione al centro del basicranio "giustifica" la postura eretta dell'uomo che tiene la testa in equilibrio sulla colonna vertebrale.
Ognuno di questi aspetti segna un passo in avanti nella catena evolutiva, atto a caratterizzare la famiglia umana nella sua unicità; ma ciò che rappresenta la reale svolta nel processo evolutivo e che è considerato vero e proprio sinonimo di uomo è il linguaggio. Da sempre gli studiosi, tra i quali annoveriamo soprattutto filosofi e psicologi, si interrogano sulla capacità umana di linguaggio e infinite sono le domande che la riguardano. Innanzi tutto si indaga la sua origine: caratteristica peculiare dell'uomo o abilità cognitiva scaturita da selezione naturale? Secondo la prima interpretazione, il linguaggio si sarebbe sviluppato rapidamente e in tempi recenti, mentre per la seconda esso sarebbe emerso gradualmente a partire dall'evoluzione del genere Homo. Tale divergenza di ipotesi bene rappresenta la forte contrapposizione che esiste tutt'oggi tra coloro i quali considerano l'uomo come un organismo particolare e separato dal resto della natura e coloro che, al contrario, ne accettano la stretta correlazione con il mondo naturale; il primo genere di pensiero è lio della tradizione filosofica occidentale, quando per esempio Aristotele o Platone descrivevano come qualitativamente differenti sia la mente che il comportamento dell'uomo rispetto agli animali. A sostegno di tali affermazioni vi erano i chiari esempi dell'uso che l'uomo faceva degli strumenti, della capacità che possedeva di riconoscersi allo specchio e soprattutto di adoperare il linguaggio articolato. Dal momento in cui (dagli anni sessanta in poi), si è scoperto che le scimmie antropomorfe sono anche in grado di utilizzare utensili e di riconoscersi allo specchio, la convinzione dell'unicità dell'uomo è incominciata a frantumarsi; ciò che si è mantenuto identico è la proprietà del linguaggio che apre una voragine tra il genere Homo e il resto del mondo naturale. Il linguaggio ci caratterizza, dunque, come specie e ci permette di stare al mondo dal momento che trasforma le nostre interazioni sociali; e fu proprio come efficace strumento di comunicazione che si sviluppò e che ci permise di adattarci al sempre più complesso modo di vita dei nostri progenitori, basato sulla cooperazione sociale ed economica.
3.7. Teorie sulla lateralizzazione
La letteratura prodotta attorno al tema della lateralizzazione è vasta, ma è soprattutto caratterizzata da un infinito numero di teorie che mancano di una sperimentazione tale da conferire validità scientifica. Per questo motivo ci sono sempre stati "scontri" tra le voci più autorevoli e ancora oggi, permane la difficoltà di conciliare le svariate ipotesi su questo tema. Considerando, ad esempio, la struttura della mano, Reynolds (1975) aveva ipotizzato una stretta correlazione tra la lateralizzazione del controllo neurale della manipolazione e il perfezionamento di tale struttura durante la filogenesi dei primati; notava, infatti, che le proscimmie non possedevano un controllo differenziale delle singole dita; che le scimmie del Vecchio Mondo avevano un controllo indipendente del pollice ma mancavano di un preciso controllo delle altre dita; che gli scimpanzé, in ultimo, avevano un maggiore controllo sulle singole dita. Da ciò si poteva concludere che la lateralità manuale non fosse una prerogativa esclusivamente umana, ma probabilmente una manifestazione umana di processi che incominciano prima, nella filogenesi dei primati.
Appena cinque anni dopo, fu Warren (1980) a proporre una nuova teoria che considerava la lateralità come un tratto specifico degli umani, in quanto prodotto di un'organizzazione neurale umana ed ereditaria. La differenziazione cerebrale umana è presente alla nascita: alcune zone più larghe a sinistra già nel feto sono le stesse che caratterizzano gli adulti considerati destrimani; ed anche analisi di resti di fossili umani, risalenti a circa 40,000 anni fa, mettono in risalto questa stessa conformazione cranica, che è responsabile della dominanza dell'emisfero sinistro, in modo particolare per alcune funzioni (linguaggio e preferenza manuale).
Warren sottolinea, dunque, la preferenza per una mano (handedness) tra gli umani, che è spiccatamente rivolta verso la destra, e di contro non riscontra alcuna asimmetrica distribuzione manuale presso altre specie. "Il numero di individui che prediligono la destra o la sinistra è uguale fra topi, ratti, gatti, nei macachi reso e negli scimpanzé", a ciò l'autore aggiunge che si può riscontrare una sorta di handedness tra le scimmie, ma essa è correlata alla situazione, al compito da svolgere, alla pratica, alla differenza tra le specie; l'animale impara a preferire una mano per una particolare manipolazione e, dunque, l'handedness è un artefatto dell'apprendimento in laboratorio e non " un tratto che è analogo od omologo all'handedness negli umani"; "la lateralità manuale nelle scimmie è primariamente il risultato dell'esperienza, e non l'espressione di qualche asimmetria dell'organismo" (Warren, 1980). Questa posizione viene sostenuta da Lehmann (1989), per esempio, il quale asserisce che se preferenze vi sono si riscontrano solo a livello individuale e per certi compiti.
La teoria di Warren ha sollevato, di contro, molte critiche e altre nuove ipotesi sono state formulate. MacNeilage et al. (1987) hanno, infatti, ravvisato delle mancanze negli studi di Warren che lo hanno, inevitabilmente, condotto a conclusioni errate; per questi autori, l'uso di animali giovani, caratteristica degli esperimenti precedenti, non poteva permettere di riscontrare una preferenza stabile, così come l'uso di particolari compiti, non adeguati a dimostrare una lateralità manuale, dove presente. MacNeilage et al. riconsiderarono poi questi fattori e fornirono diversi esempi di distribuzione asimmetrica nelle preferenze anche fra i primati non umani.
Bisogna dire che tale ricerca partiva da un assunto ben preciso, ossia che la comparsa delle asimmetrie manuali nei primati va collegata all'adattamento ad una vita terricola ed all'affermarsi, nei primi ominidi, di una postura bipede. Proprio questa nuova condizione avrebbe favorito gli arti inferiori che, ormai liberi di agire, potevano intraprendere diverse attività e, inoltre, avrebbe richiesto un'organizzazione asimmetrica del cervello con una conseguente divisione funzionale dei due emisferi. Restak (1984) aveva già affermato a tal proposito che i primi ominidi con l'uso maggiore di un braccio rispetto all'altro, "portarono" alla specializzazione della struttura encefalica e determinarono la progressione sia della lateralizzazione del cervello che delle mani.
MacNeilage e colleghi sostenevano, dunque, che il primo elemento significativo per la determinazione dell'handedness fu il nuovo contesto che prevedeva la superiorità della mano sinistra nella predazione unimanuale e pertanto la specializzazione dell'emisfero destro per gli stimoli visivo-spaziali, avendo l'arto destro una funzione di semplice supporto per il corpo.
I loro esperimenti diedero risultati che collimavano con le ipotesi di partenza. Fra le proscimmie emerse, infatti, una preferenza per la mano sinistra in movimenti guidati visivamente (risultato confermato successivamente da Masataka, 1989); la stessa asimmetria fu rilevata tra le scimmie e tra le scimmie Antropomorfe: tra queste ultime, le scimmie scoiattolo (Saimiri scireus) utilizzano la sinistra per catturare dei pesci e lo fanno con grande abilità e precisione; la stessa preferenza è stata riscontrata nei gibboni quando debbono prendere cibo posizionato in alto (King e Landau, 1987).
Altri studi sostennero queste ipotesi riscontrando preferenze per la zampa sinistra, ma vi furono anche dimostrazioni di completa assenza di asimmetria manuale.
Fagot e Vauclair (1987) si opposero alla teoria di MacNeilage non trovando alcuna preferenza manuale in babbuini testati sul campo, con compiti di semplice ricerca di cibo.
I due autori lavorarono, infatti, con un gruppo di dieci gorilla e, sottoponendoli a compiti di semplice ricerca di cibo, non riscontrarono alcuna asimmetrica distribuzione di preferenza manuale; e lo stesso risultato si presentò con un gruppo di sei babbuini (1994).
Gli esperimenti fornirono altre importanti indicazioni, la più importante delle quali era che quando gli animali affrontavano compiti più complessi in termini di processi cognitivi e movimenti manuali coinvolti, compariva, allora, una preferenza per l'uso della sinistra. Da queste ricerche, emerse, dunque, l'importanza della richiesta del compito, in base alla quale si modificava la preferenza manuale, e la sua stretta relazione con gli emisferi cerebrali. Per Fagot e Vauclair si evidenziava, infatti, una differenza fondamentale tra handedness e manual specialization; gli autori ritenevano che, mentre per svolgere un compito semplice entrambi gli emisferi possono controllare le abilità manuali, alle prese con un compito più complesso, solo un emisfero è in grado di risolverlo in modo competente e questa convinzione fu approfondita con studi successivi. Sembrava, dunque, che il vero discriminante potesse esser rappresentato dalla natura del compito. Questo genere di considerazioni non è nuovo, in ogni modo, per la letteratura sull'handedness; già in passato si era affermata l'ipotesi di una correlazione tra preferenza manuale e complessità del compito. Steingrueber (1975) sottopose 310 alunni a due compiti di diversi livelli di complessità e rilevò che la preferenza per la mano sinistra passava dal 6% al 16% con il decrescere del livello di difficoltà del compito. Ciò fu attribuito al fatto che, nella nostra cultura, la mano destra è quella dominante, e, conseguentemente, il suo utilizzo si mostra nelle situazioni più complesse. L'autore suggeriva una raccolta più consistente di dati per supportare queste sue conclusioni. Col passare degli anni il tema è stato affrontato da diversi, seppur complementari, punti di vista.
Prendendo in considerazione, ad esempio, una prospettiva più cognitiva, si è argomentato che gli emisferi sono specializzati differentemente nello svolgere compiti nuovi o compiti praticati (Golberg e Costa, 1981).
In modo particolare, l'emisfero destro svolge un ruolo fondamentale nella fase iniziale d'acquisizione, mentre quello sinistro è superiore nell'utilizzo d'informazioni già conosciute, ipotesi questa supportata da alcune evidenze sperimentali che mostravano la mano sinistra/emisfero destro superiore in compiti di discriminazione tattile; in più si osservava che tale superiorità scompariva in prove successive, confermando, dunque, che la pratica influenza la prestazione d'ogni mano.
Per approfondire tali risultati, Fagot e Vauclair (1991) proposero una distinzione fra i compiti in due categorie:
a) High-level tasks;
b) Low-level tasks;
Tale distinzione appare necessaria considerando il concetto di "novelty" e le implicazioni che comporta nello svolgimento di un compito.
Gli autori rilevarono come la "novelty" possa presentarsi sia sotto forma di movimenti nuovi sia di situazioni differenti da quelle affrontate in precedenza dal soggetto. Mentre i compiti a bassa difficoltà (low-level tasks) presentando attività quotidiane o, comunque, familiari al soggetto, sono meno "esigenti" in termini di processi cognitivi, quelli ad alta difficoltà (high-level tasks) richiedono "o azioni motorie finemente armonizzate, date le dimensioni spazio-temporali del movimento necessario, o attività cognitivamente complesse, (o entrambi), dovute proprio alla caratteristica di novità" (Fagot e Vauclair, 1991). Alla luce di questo presupposto, gli autori ipotizzarono che i compiti high-level avrebbero rappresentato "la migliore situazione per smascherare le caratteristiche funzionali di un emisfero", proprio perché essi avrebbero dovuto produrre asimmetria nella distribuzione delle abilità laterali sia a livello emisferico che comportamentale. Furono raccolti molti dati circa la lateralità manuale tra i primati non-umani con l'utilizzo dei compiti sopra menzionati. I soggetti testati con compiti di semplice ricerca di cibo mostrarono una distribuzione simmetrica delle abilità manuali e anche in altri compiti quali il tenere o il tirare, si ottennero gli stessi risultati; non si riscontrò, inoltre, una specializzazione dell'emisfero controlaterale in queste attività, ma entrambi gli emisferi erano in grado di trattare le prove.
I dati raccolti sottoponendo compiti high-level confermarono in pieno le ipotesi di partenza. Fagot e Vauclair (1988) lavorarono con babbuini e gorilla, presentando loro una finestra, su di un pannello di Plexiglas, con un'apertura dove era collocata una nocciolina. In questo caso fu riscontrata una preferenza per la mano sinistra. Gli stessi risultati furono ottenuti con un gruppo di macachi reso che dovevano arrampicarsi su una rete metallica e mantenere una posizione verticale, mentre introducevano una mano in un box opaco per distinguere noccioline mescolate con sabbia e pietre, di misure differenti. Su 29 soggetti, 21 usavano la sinistra; la preferenza per l'arto sinistro indicherebbe una specializzazione dell'emisfero destro, in compiti di discriminazione tattile e visiva (Fagot, Drea e Vauclair, 1991). La sola definizione di handedness non sembrava, secondo Fagot e Vauclair (1991) poter "racchiudere la bidimensionalità delle preferenze manuali espresse in compiti di alta o bassa difficoltà (high-low level tasks) " e bisognava, perciò, rifarsi anche ad un termine che era già stato avanzato precedentemente, ossia manual specialization (Young, Segalowitz, Corter e Trehub, 1983)., per porre l'accento sull'importanza della novità e della complessità di un compito: handedness, dunque, per indicare un uso lateralizzato della mano in compiti familiari e usuali per il soggetto, e manual specialization per riferirsi ad un uso asimmetrico della mano in compiti nuovi e inusuali.
Gli studi successivi utilizzarono tali concetti per supportare altre ipotesi di lavoro; per Fagot e Vauclair (1991), infatti, la manual specialization porta a consistenti capacità tra i soggetti, mentre l'handedness indica una mancanza di abilità manuali a livello di popolazione. Appare chiaro che per la specializzazione manuale è soltanto un emisfero ad essere competente, cioè in grado di risolvere il compito (quello controlaterale alla mano attiva); in più, si presume che l'emisfero in questione sia lo stesso per tutti i membri del gruppo sotto esame, ma che possono ugualmente verificarsi dei cambiamenti nella preferenza. Il motivo di ciò è riconducibile al fatto che col ripresentare il compito entrambi gli emisferi diventano in grado di svolgerlo; accade, in altre parole, che la pratica influenza la preferenza della mano (handedness), non più predeterminata dall'asimmetria emisferica. Un interessante esperimento con i babbuini confermò appieno tali presupposti (Fagot e Vauclair, 1994). Utilizzando una tecnica di confronto-col-campione (matching-to-sample), furono indagati gli effetti di stimoli nuovi sulla lateralizzazione emisferica di sei babbuini. I soggetti furono testati in tre situazioni differenti:
a) con stimoli familiari accoppiati in modo nuovo;
b) con stimoli nuovi ma composti da elementi familiari;
c) con stimoli nuovi, che differivano nella struttura da quelli usati precedentemente;
Gli autori rilevarono due importanti constatazioni:
La presenza di differenze tra le prove iniziali e finali, in ogni situazione;
La presenza di una stretta correlazione tra il mezzo-campo visivo (destro sinistro) e le prove (iniziali finali).
Oltre a dimostrare il ruolo dominante dell'emisfero destro nella discriminazione di stimoli nuovi, quest'esperimento confermò l'effetto prodotto dalla pratica; la specializzazione emisferica guida il soggetto in compiti inusuali, mentre scompare quando questi assumono carattere familiare, visto che entrambi gli emisferi sono in grado di affrontarli.
Con questi risultati, gli autori hanno inteso contribuire alla verifica di una possibile omologia tra la lateralità nei primati umani e non-umani e soprattutto, innescare altre ricerche con i primati non-umani, sottoponendo loro attività manuali che possano fornire risultati utili per una migliore conoscenza della specializzazione emisferica.
La reazione negativa a queste considerazioni, non è certo mancata; molti successivi commenti hanno nettamente rifiutato la possibilità di riscontrare lateralizzazione cerebrale e preferenze manuali nei primati non-umani, simili agli umani.
"Sebbene alcuni membri di queste specie esibiscono una consistente preferenza laterale, la maggior parte no, e conseguentemente tutta la popolazione" (Previc, 1991). L'autore ritiene che la lateralizzazione motoria, probabilmente emerge con l'evoluzione di una postura retta. Prima che il bipedismo fosse perfetto, infatti, la predisposizione verso la destra era data, approssimativamente, dal rapporto 56:44; verso la fine dell'era dell'Homo erectus essa incrementò (rapporto 61:39), fino a giungere, all'inizio dell'era dell'Homo sapiens a un rapporto di 2:1.
La mancanza di handedness nei primati non-umani è da attribuire per l'autore:
a) ad una differente posizione fetale intrauterina;
b) ad un differente orientamento dell'utero relativamente alla direzione di molte salienti forze inerziali;
c) ad una combinazione di entrambi;
C'è una forte rassomiglianza tra l'utero umano e quello dei primati, soprattutto per gli scimpanzé, ma non è così in tutte le specie. La posizione intrauterina è molto importante; bisogna, infatti, considerare che, essendo il parto dei primati composto di diversi esemplari, vista l'asistematica distribuzione all'interno dell'utero, alcuni esemplari potrebbero ricevere particolari stimolazioni lateralizzate, mostrando, in seguito, chiare preferenze motorie. Ma il fattore da considerare in modo particolare, è il bipedismo; vicini all'uomo in ciò sono gli scimpanzé e le grandi scimmie, ma il loro centro di gravità alterato, rende tale fattore meno efficiente di quello umano.
Le conclusioni cui è giunto l'autore non sembrano coincidere con quelle di uno studio successivo, che, sebbene non ha stabilito scientificamente la presenza dell'handedness tra i primati non-umani, quanto meno ha riscontrato una tendenza verso di essa (McGrew et al., 1993). Gli autori hanno raccolto gli esperimenti sull'uso della mano, che avevano come soggetti i gorilla (la specie ominide che, in termini di handedness, sarebbe la più vicina all'Homo sapiens) fornendo un quadro riassuntivo (Tabella n.7). Un ennesimo invito a continuare ed approfondire le ricerche.
STUDIO |
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Annett & Annett, 1991 |
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Byrne & Byrne, 1991 |
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Dimond & Harries, 1984 |
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Fagot & Vauclair, 1988 |
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Fischer et al., 1982 |
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Gijzen, 1972 |
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Haas, 1958 |
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Heestand, 1987 |
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Le Gros Clark, 1927 |
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Lockard, 1984 |
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Manning et al., 1990 |
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Olson et al., 1990 |
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Preilowski et al., 1985 |
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Redshaw, 1975 |
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Reiss et al., 1949 |
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Rensch & Ducker, 1966 |
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Schaller, 1963 |
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Shaffer, 1987 |
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Shaffer, 1988 |
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Weidauer, 1972 |
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Yerkes, 1927 |
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Tabella n.7:
Illustra una serie di studi condotti sulla lateralità dell'uso della mano nei gorilla. S rappresenta il numero dei soggetti che mostrano più del 50% d'uso della sinistra; D quelli che usano la destra; ? indica inoltre il numero dei soggetti che mostrano una lateralità non chiara.
Da: McGrew, 1993.
3.7.1 Fattore genetico e handedness: la teoria di M. Annett.
Nel 1985 la studiosa Annett ha proposto un modello genetico per spiegare le relazioni tra differenze in prestazioni manuali, lateralizzazione del linguaggio e abilità cognitive. Alla base di tale modello si troverebbe un gene, denominato right-shift factor (rs), responsabile della presenza di tre tipi di genotipo, distribuiti tra gli esseri umani:
rs+-, eterozigote;
rs++, omozigote positivo;
rs--, omozigote negativo;
Il gene rs conferisce dei "benefici" all'emisfero sinistro, specializzandolo in funzioni come il linguaggio e la preferenza manuale, ed impoverisce l'emisfero destro; è, dunque, l'assenza o presenza di tale fattore che detta la conurazione dei due emisferi.
L'autrice sostiene che la maggior parte della popolazione presenta il genotipo rs+-, con almeno una copia del gene, e ciò porta una tendenza a preferire la mano destra, visto il leggero svantaggio dell'emisfero destro e conseguentemente della mano controlaterale, ossia la sinistra. In alcune persone (13 della popolazione) il genotipo rs++, presentando una doppia dose del gene, crea un maggiore rafforzamento dell'emisfero sinistromano destra a svantaggio dell'emisfero destromano sinistra. Solo 15 della popolazione, in ultimo, presenta la conurazione rs--, dove manca il gene; in questo caso, Annett sostiene che è il caso il solo determinante biologico che viene coinvolto. In sostanza, per l'autrice, il ruolo predominante dell'emisfero sinistro, nel gestire il linguaggio e la preferenza manuale, nella maggior parte delle persone, è dovuto al fattore genetico rs+, che priva l'emisfero destro di certi neuroni durante una fase critica della crescita cerebrale. "Questo indebolisce la capacità dell'emisfero destro di discriminare parole rispetto all'emisfero sinistro, e il controllo motorio del lato sinistro del corpo" (Annett, 1991).
La sua teoria presenta un "polimorfismo genetico bilanciato" con un vantaggio dell'eterozigote per la lateralità e l'abilità manuale, e così, ai due estremi della distribuzione R-L, specifiche abilità verbali e successi scolastici potrebbero essere più bassi, prendendo la forma di una U invertita.
Legenda rs +- rs - - rs ++
-l 0 1 2 3 4
ura n.1: Mostra la distribuzione delle differenze tra destri e mancini per ognuno dei tre genotipi nella versione proposta da M. Annett (1983).
Da: McManus et al., 1993.
Si attende, infatti, che i soggetti posti a sinistra nella distribuzione, presentino problemi con la lettura, proprio perché il loro genotipo rs-- manca di una "spinta" (ossia il gene) per lo sviluppo della parola e del linguaggio; anche i soggetti posti all'altro estremo (rs++) presenteranno dei problemi, mentre quelli al centro della distribuzione saranno avvantaggiati (rs+-). L'autrice asserisce così una chiara relazione tra handedness e abilità cognitive.
Queste affermazioni hanno sollevato molte critiche che non solo hanno attaccato le principali conclusioni cui l'autrice era giunta, ma hanno prodotto risultati diametralmente opposti. Il primo punto ad essere posto in discussione è stato quello relativo alle argomentazioni genetiche: non esiste alcuna prova a conferma del fatto che gli eterozigoti presentano un'abilità intellettuale superiore rispetto agli omozigoti (MacManus, Shergill e Bryden, 1993). Anche il metodo usato da Annett è stato contestato dagli stessi, visto che la divisione dei soggetti in gruppi non era sufficientemente sensibile per distinguere chiaramente i genotipi
rs-- da quelli rs+-.
Inoltre anche i risultati di altri esperimenti si sono trovati in opposizione rispetto a quelli di Annett: si è riscontrata infatti una maggiore abilità intellettiva tra i soggetti destri. MacManus et al. giungono alla conclusione che le associazioni rilevate dall'autrice tra abilità asimmetriche e capacità intellettuali, non sono, probabilmente dovute ad un vantaggio degli eterozigoti, ma ad altre variabili.
Anche Resch et al. verificarono la validità dei risultati della teoria di Annett: non solo i loro dati si rivelarono contrari alla specifica previsione che i soggetti destri sarebbero stati quelli più svantaggiati, ma proprio i soggetti in esame dimostrarono maggiore abilità rispetto ai soggetti sinistri, che ottennero risultati più bassi nell'ortografia e in esercizi scolastici.(Resch, Haffner, Parzer, Pfueller, Strehlow e Zerah, 1997). Non vi è dubbio, dunque, che la teoria di Annett abbia sollevato interessanti questioni circa l'handedness, la sua distribuzione e la sua possibile spiegazione genetica, ma è anche vero che i vantaggi derivanti dalla presenza del gene rs, non è detto che coinvolgano le attività cerebrali o il funzionamento cognitivo. Questo e altri studi hanno, infatti, rilevato che la qualità e i livelli del funzionamento cognitivo non sono strettamente correlati all'handedness e alle abilità manuali (Resh et al., 1997).
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