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Dal latino al volgare
Introduzione Dalla caduta dell'Impero
romano d'Occidente all'anno Mille, un nuovo concetto di unità integra e
sostituisce la cultura classica e i modelli politici del mondo antico.
L'unità dei valori cristiani tende a inglobare ogni aspetto della vita
collettiva e a porsi come punto di riferimento della civiltà europea,
che ha assistito, nel giro di pochi secoli, alle invasioni barbariche, alla
crisi economica, allo spopolamento delle città.
Il modo di produzione feudale, caratterizzato dal vassallaggio e dalla
servitù, modifica il tessuto economico e sociale e contribuisce alla
formazione di un ordine politico fondato sull'obbedienza e sugli ideali
cavallereschi.
Il momento culturalmente più significativo coincide invece tra il V e il
IX secolo con il processo di trasformazione della lingua latina nelle lingue
romanze.
Latino e lingue romanze
Non esiste nella storia dell'Occidente una vicenda che per intensità
drammatica, dimensioni e conseguenze sia paragonabile al declino e alla caduta
dell'impero romano. Tuttavia, questa immensa catastrofe, proprio a causa delle
sue dimensioni, non ebbe i caratteri di un crollo repentino, ma fu piuttosto un
processo che si protrasse per secoli, raggiungendo il suo culmine con la data
canonica del 476 d.C. (deposizione di Romolo Augustolo) senza però che
questo evento segnasse la fine assoluta e definitiva di una civiltà.
Anzi, nel momento in cui si verificò, la deposizione dell'ultimo
imperatore ebbe un'eco irrilevante, e nessuno dette all'evento il significato
simbolico che poi avrebbe assunto per i posteri: esso in realtà si
inseriva, come un episodio fra i tanti, nella lunga crisi che travagliava il
mondo antico e che ebbe nelle invasioni barbariche la sua manifestazione
più appariscente, ma non certo la prima né l'ultima. Secondo alcuni
studiosi, infatti, il periodo storico che noi chiamiamo 'Medioevo' e
che facciamo convenzionalmente cominciare dal 476 d.C. andrebbe addirittura
retrodatato di almeno due secoli, poiché già al volgere del III secolo d.C.
non sarebbe più possibile parlare in senso proprio di 'età
classica' per la quantità e la qualità delle trasformazioni
sociali, economiche e culturali intervenute a modificare profondamente il
quadro del mondo antico. Certo è che, dal punto di vista linguistico,
che è poi quello che qui ci interessa più da vicino, i sintomi
del fenomeno sono vistosi e segnalano l'esistenza di una crisi profonda del
latino classico e, di conseguenza, della civiltà che lo aveva espresso,
in epoche ben precedenti al 476 d.C.
Ne rendono testimonianza numerosi documenti, a cominciare dalla celebre
Appendix Probi, operetta risalente appunto al III secolo d.C., nella quale un
anonimo grammatico cercò di ricondurre alla norma classica forme che se
ne erano allontanate lungo una traiettoria che avrebbe infine condotto alla
nascita dei volgari neolatini.
Naturalmente, il processo di disgregazione del latino classico si accentua e si
accelera con il precipitare della crisi dell'impero romano. Non si deve
tuttavia pensare a una frattura netta e collocabile temporalmente: anche le
lingue, come la natura, non 'fanno salti', e la loro evoluzione
è sempre il frutto di processi di lunga durata, in cui una serie di
cause opera in parallelo producendo interazioni ed effetti di feedback sempre
di estrema complessità e non di rado contraddittori. Ciò è
tanto più vero nel caso dei volgari neolatini, la cui nascita non
è determinata da un evento traumatico, ma deriva da una gestazione
secolare in cui, attraverso spostamenti progressivi e spesso impercettibili, le
lingue nuove si formano senza che questo voglia dire l'abbandono e la ssa
di quella antica.
In realtà, per un lungo arco di tempo il latino e il volgare sono
convissuti l'uno a fianco dell'altro nella coscienza e nella pratica degli
intellettuali e del loro pubblico: ancora fra il XIV e il XV secolo vediamo per
esempio scrittori come Angelo Poliziano, Jacopo Sannazzaro e Ludovico Ariosto
ricorrere indifferentemente ai due idiomi, senza contare l'uso del latino
giuridico, scientifico ed ecclesiastico continuato fino quasi ai giorni nostri.
Anche per i volgari non romanzi, segnatamente quelli di area germanica e slava,
l'influenza del latino fu decisiva: pur non avendo conosciuto direttamente la
civilizzazione romana, o avendola sperimentata in modo superficiale e per
periodi limitati, gran parte dell'Occidente non romanizzato si era incontrato
con il latino attraverso l'evangelizzazione cristiana, adottandolo come lingua
della religione e della cultura dall'Irlanda alla Scandinavia, dalla Germania
alla Polonia, e facendone un modello di riferimento fondamentale. Avvenne
così che l'Europa intera si riconobbe in questo patrimonio comune, in
cui affondano le loro radici non solo le civiltà romanze, ma l'intera
tradizione del mondo occidentale: alla metà del IX secolo Odofredo di
Weissemburg, uno dei primi protagonisti della letteratura in volgare tedesco,
osservava meravigliato come 'tanti uomini illustri per saggezza, sapienza,
santità, abbiano utilizzato tutte queste virtù a gloria di una
lingua straniera, senza fare uso nella scrittura della loro propria
lingua'.
È importante sottolineare come le considerazioni svolte fin qui
smentiscano la tesi cara alla critica romantica, secondo cui la nascita delle
lingue volgari fu il frutto di un'autonoma e spontanea elaborazione 'dal
basso', sorta dal profondo della coscienza popolare senza la mediazione
della cultura classica e degli intellettuali di professione: insomma, una
specie di slancio vitale che spazzò via una tradizione ormai fiacca e isterilita,
sostituendola con forme più libere e pronte ad accogliere la
sensibilità di un mondo nuovo. Al contrario, la mediazione e il
filtraggio ci furono, fino a produrre, soprattutto nell'area romanza, un
bilinguismo in cui latino e volgare non si conuravano come opzioni
alternative, ma come soluzioni complementari e integrate da utilizzare di volta
in volta a seconda dei contesti, dei generi e dei destinatari.
È evidente come un approccio di questo genere al problema delle origini
renda estremamente difficile, e anzi, a rigore impossibile, stendere il
certificato di nascita delle lingue neo- e postlatine, indicando con precisione
'quando' e 'dove' si è verificata la frattura tra
latino e volgare: perché, semplicemente, questa frattura non c'è.
Tuttavia, se è assurdo mettersi alla ricerca di qualcosa che non esiste,
resta comunque importante individuare e studiare le prime testimonianze che
documentano l'affermazione del volgare: avremo così la
possibilità di fissare alcuni concreti riferimenti cronologici,
geografici e linguistici che ci permetteranno di comprendere meglio il percorso
compiuto da queste nuove esperienze della comunicazione e le tappe della loro
successiva evoluzione.
I primi documenti in lingua romanza
Restringendo il campo di indagine al settore dei volgari neolatini, il
primo documento conosciuto in una lingua 'romanza', ossia derivata
dal latino, sono i cosiddetti Giuramenti di Strasburgo, che risalgono all'842.
Si tratta di un testo ufficiale riportato dallo storico franco Nitardo nella
sua Storia dei li di Ludovico il Pio: con esso Carlo il Calvo e Ludovico il
Germanico, sovrani il primo delle regioni occidentali, il secondo di quelle
orientali dell'Impero carolingio, sanciscono la loro alleanza contro il
fratello Lotario, con cui erano in lotta per la spartizione delle terre. I due
sovrani con gli eserciti schierati pronunciarono la formula del giuramento
dapprima in latino, e poi nelle lingue dei rispettivi popoli, ossia in franco e
in tedesco. La testimonianza è di estremo interesse perché ci dimostra
in maniera inoppugnabile due diverse realtà: che il latino classico era
divenuto ormai incomprensibile a livello popolare; che non per questo esso era
stato abbandonato, ma continuava a costituire la lingua ufficiale del potere e
delle classi dirigenti. Ci sembra significativo riportare qui il testo del
giuramento in lingua franca ('romana lingua', come la definisce
Nitardo) pronunciato da Ludovico il Germanico perché il confronto diretto tra
l'antico francese e gli altri volgari neolatini (soprattutto italiano e
snolo) farà capire come queste lingue fossero in origine vicine e
come, quindi, sia stata possibile la circolazione dei primi testi letterari in
lingua d'oc e in lingua d'oïl anche al di fuori dei confini francesi. Ecco
il testo: 'Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament,
d'ist di in avant, in quant Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist
meon fradre Karlo, et in aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son
fradra salvar dift, in o quid il mi altresi fazet, et ab Ludher nul plaid
numquam prindrai, qui, meon vol, cist meon fradre Karle in damno sit'
('Per l'amore verso Dio e per la salvezza del popolo cristiano e nostra
comune, da questo giorno in poi, per quanta saggezza e potere Dio mi
donerà, così io sosterrò questo mio fratello Carlo, e con
l'aiuto e con ogni cosa, così come secondo giustizia si deve sostenere
il proprio fratello, a patto che egli faccia altrettanto verso di me, e con
Lotario non prenderò mai nessun accordo che, per mia volontà, sia
di danno a questo mio fratello Carlo').
Il periodo nel quale si collocano i primi documenti in volgare italiano
è quello che va dalla metà del IX alla metà del X secolo.
Per avere un documento analogo ai Giuramenti di Strasburgo in volgare italiano,
in cui cioè sia chiara la coscienza e deliberata la volontà di
esprimersi in una lingua alternativa a quella latina, dovremo aspettare oltre
un secolo: risale infatti al 960 il Placito Capuano, una 'sentenza'
emessa a chiusura di una causa intentata da un privato contro il monastero
benedettino di Montecassino circa il possesso di alcune terre. Le ragioni di
questo ritardo sono molteplici: in primo luogo, va segnalato il disordine
politico e il frazionamento particolaristico in cui versava la penisola nei
secoli precedenti il Mille, con le difficoltà conseguenti a individuare
una soluzione unitaria alle sparse esperienze in volgare, che pure esistevano
ma non riuscivano a trovare le strutture politico-sociali necessarie per una
aggregazione. Per di più, l'unica autorità in grado di svolgere
una funzione centralizzatrice, e cioè la Chiesa, adottava come sua
lingua ufficiale il latino e non aveva quindi nessun interesse a favorire
l'affermazione e l'ufficializzazione di una letteratura in volgare. La tradizione
classica era inoltre da noi più profondamente radicata che nelle altre
parti d'Europa, e più difficile risultava quindi il suo superamento.
Infine, e questo è forse il dato fondamentale, la relativa vicinanza fra
il latino e le diverse forme che il volgare andava assumendo nelle regioni
italiane, vicinanza assai più marcata che in qualsiasi altra lingua
romanza, rendeva superfluo nella coscienza collettiva un impegno a costruire,
affinare e usare una lingua alternativa: insomma, l'italiano è nato in
ritardo semplicemente perché, per molto tempo, non se ne è sentito il
bisogno.
Letteratura in lingua d'oïl
La letteratura d'oïl è costituita, per la gran parte, dalle
chansons de geste ('canzoni di gesta'), raccolte nei cicli carolingio
e bretone.
Nel ciclo carolingio spicca la Chanson de Roland (Canzone di Orlando), che
risale alla prima metà dell'XI secolo. Nel ciclo bretone (la
designazione abbraccia sia l'Inghilterra del Sud-Ovest, sia la penisola nel
Nord-Ovest della Francia) si narrano invece le gesta dei cavalieri della Tavola
Rotonda e del loro re, Artù. Fra le loro imprese leggendarie occupa un
posto preminente la ricerca del Santo Graal, la coppa dove Giuseppe d'Arimatea
raccolse il sangue di Cristo crocifisso. Le forme in cui sono raccontate le
gesta dei cavalieri sono varie: canti con accomnamento musicale, poemetti,
romanzi in prosa.
Idealità cavalleresche, audacia e spirito di sacrificio ricorrono anche
nel ciclo bretone, come in quello carolingio, con in più la presenza di
altri elementi, tra i quali spiccano in particolare il soprannaturale e il
magico. Ma, soprattutto, il ciclo bretone è contraddistinto da un
fortissimo senso dell'avventura. I protagonisti s'impegnano in azioni nelle
quali l'alto rischio personale permette di misurare le proprie capacità
e di raggiungere la gloria individuale, per lo più con lo scopo di
conquistare la donna amata. Nel ciclo bretone comincia a prender forma il
modello del cavaliere errante, che avrà una larga diffusione nelle letterature
dei secoli successivi in tutt'Europa. L'autore più noto del ciclo
è Chrétien de Troyes, vissuto tra il 1135 circa e il 1190 circa, cui
sono attribuiti cinque romanzi cavallereschi, tra i quali Lancelot e Perceval,
che hanno per protagonisti i due celeberrimi eroi della Tavola Rotonda.
Meno noto, ma di discreta diffusione, è anche un terzo ciclo di
ispirazione classica, che si riallaccia ai poemi epici di autori latini
(Virgilio, Lucano, Stazio). In esso, i protagonisti sono gli eroi della
letteratura antica, come Enea, celati sotto vesti medievali.
I fabliaux ('favolelli') sono invece brevi racconti in versi che
affrontano temi più realistici, talora con intento satirico. La loro
massima espressione si ha, nel corso del XIII secolo, con Le roman de la Rose
(Il romanzo della Rosa) di Guillaume de Lorris e Jean Clopinel de
Meung-sur-Loire, e con il Roman de Renart (Romanzo di Renart). Nel primo,
precetti amorosi in forma allegorica si mischiano a nozioni di filosofia e di
scienze naturali; nel secondo, animali parlanti (tra i quali la volpe,
'renard', in francese) incarnano vari caratteri umani, spesso con
spirito ironico.
Chansons de geste
Le Chansons de geste sono componimenti in strofe assonanzate o rimate, con
lunghezza variabile, e rielaborano in veste letteraria le res gestae (le
imprese militari) di alcuni grandi condottieri. Sono articolate sulle imprese
eroiche di alcuni personaggi (anche storici) come Carlo Magno e i suoi
paladini. Alle origini della chanson de geste c'è in sostanza il
'passato epico nazionale', un mondo arcaico che cosituisce le basi
della storia nazionale, insomma la memoria del popolo che riscatta se stesso
attraverso le avventure gloriose di un uomo diventato modello di vita. La
più celebre delle chansons de geste è senza dubbio la Chanson de
Roland, la cui originaria stesura dovrebbe risalire probabilmente alla seconda
metà del secolo XI. Il testo ci è giunto soltanto attraverso
copie successive, come ad esempio il manoscritto di Oxford, composto in lingua
anglo-normanna, e datato tra il 1125 e il 1150; oppure quello in francoveneto
conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia, della metà del XIV
secolo.
L'origine delle chansons de geste ha provocato alcune perplessità tra
gli studiosi: un tempo ritenute patrimonio di una cultura popolare e prodotte
da una lunga sedimentazione collettiva, ora si è invece propensi ad
accettarle come testi relativamente più tardi e nati con ambizioni
letterarie ricalcando le imprese dei crociati e delle vite dei santi. Dunque
un'origine elevata, salvo poi il ridimensionamento per un pubblico laico.
Tipico prodotto della letteratura cortese è il romanzo cavalleresco non
più finalizzato o incentrato esclusivamente sulle imprese militari di un
eroe, ma accomnato da altre tematiche: il fascino per l'esotismo, l'incantesimo
e la magia, l'amore inteso come rituale sociale di comportamento, come rapporto
raffinato e complesso, ma anche trasgressione e adulterio. Rispetto alla
chanson de geste il romanzo cavalleresco inserisce come elemento di
novità proprio la tematica amorosa, autentico fatto nuovo e fattore di
enorme rilevanza per il poema epico italiano (Boiardo, Ariosto e Tasso). Nel
genere cavalleresco si segnalano per la loro importanza i romanzi del ciclo
bretone, ispirati alla ura del mitico Re Artù, vissuto alla fine del
VI secolo. I romanzi di Chrétien de Troyes, attivo tra il 1160 e il 1191), sono
forse l'esempio più significativo del romanzo cavalleresco: articolati
intorno alle vicende di Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, le
opere di questo scrittore (Erèc et Enide, Cligès, Lancelot,
Perceval, Tristan) cominciarono a circolare in Italia già dai primi anni
del XII secolo. Comunque è dalla prima metà del Duecento che
questi materiali si diffondono più frequentemente, soprattutto
nell'Italia centro-settentrionale, dando luogo non soltanto a letture ma a vere
e proprie imitazioni. Si ricordi il Meliadus di Rustichello da Pisa (un poema
d'argomento bretone), oppure tutta una serie di poemi d'ispirazione carolingia
per lo più anonimi (Geste Francor, Entrée d'Esne, Huon d'Auvergne),
tutti testi scritti in volgare francese (lingua d'oïl). Altri componimenti
in lingua volgare italiana sono ad esempio il Tristano Riccardiano (chiamato
così perché conservato nella Biblioteca Riccardiana di Firenze) o altre
opere come il Gismirante, Brito de Brettagna, Ponzela Gaia ecc. tutti di
ispirazione bretone e diffusi in una cerchia ristretta e aristocratica di
lettori.
Chanson de Roland
Opera di autore ignoto che racconta le eroiche imprese di Carlo Magno e dei
suoi paladini contro i saraceni. Composta in strofe (dette lasse), di
decasillabi in assonanza (e non in vera e propria rima), ebbe un successo
vastissimo, che favorì numerose imitazioni. L'episodio più
celebre della Chanson de Roland è la sconfitta dell'esercito franco a
Roncisvalle e l'eroica morte del paladino Orlando, rimasto vittima del
tradimento di Gano di Maganza. ½ si esaltano il coraggio, l'eroismo in guerra,
l'amore verso la patria e la lealtà nei confronti del sovrano, e vi si
respira un'atmosfera di forte tensione ideale e spirituale.
I volgarizzamenti
I volgarizzamenti sono traduzioni e adattamenti in volgare di testi latini
e francesi, soprattutto del ciclo imperniato su antiche gesta di eroi classici,
e del ciclo bretone. Molti di essi hanno scarso valore letterario, ma il loro
peso culturale è fortissimo per il vasto successo che ebbero presso un
pubblico composito, di varia estrazione sociale.
La Istorietta troiana è una riduzione del colossale romanzo di Benoit de
Sainte-Maure (XII secolo), intitolato Le roman de Troie (Il romanzo di Troia),
che narra le vicende della guerra tra Achei e Troiani. I Fatti di Cesare, di
anonimo, rielaborano in forma di lettura gradevole, ma priva di
approfondimento, Li faits des Romains (I fatti dei Romani), che raccolgono
leggende su eroi romani. Alla stessa materia s'ispira l'opera I conti di
antichi cavalieri, anch'essa di anonimo, che invita i governanti ad imitare le
azioni esemplari dei grandi uomini, mossi da ideali di giustizia e di
buongoverno. Tra questi vi sono eroi dell'epica classica, come Ettore, e
personaggi della storia romana, come Scipione e Cesare, ma anche ure
più recenti, quali il Soldano ed Enrico II tageneto, primo re
d'Inghilterra.
Anche le riduzioni in prosa delle avventure degli eroi della Tavola Rotonda
sono più d'una. Rustichello da Pisa, al quale Marco Polo dettò in
carcere Il Milione, è autore del Meliadus, che racconta le gesta del
padre di Tristano. Lo stesso Tristano e il suo amore per Isotta offrono lo
spunto per molte varianti, le più celebri delle quali sono il Tristano
Veneto, il Tristano Riccardiano e una sezione della Tavola Rotonda. Del resto,
il tema di Tristano è comune alla letteratura medievale di tutta Europa.
Un testo assai interessante è il Libro dei sette savi. Si tratta del
volgarizzamento di una raccolta di novelle francesi, la cui materia proviene
dall'India. Ciò che lo rende degno di nota è la sistemazione
delle novelle. Esse, infatti, sono narrate all'interno di una
'cornice', vale a dire di un filo conduttore, che coordina e
giustifica il susseguirsi dei vari racconti. Questo espediente letterario,
ripreso più tardi da altri, diventerà un elemento essenziale nel
Decameron di Giovanni Boccaccio.
Tra i volgarizzamenti di Brunetto Latini spicca La rettorica; accanto al
maestro vanno ricordati Guidotto da Bologna, nonché Bono Giamboni, traduttore
del Trésor e di varie opere del tardo periodo classico e medievale.
Letteratura in lingua d'oc
La letteratura in lingua d'oc è composta prevalentemente di opere in
poesia. Essa si sviluppa nelle zone della Francia meridionale: Provenza,
Aquitania, Limosino, Alvernia, ed avrà una profonda influenza sulla
poesia lirica italiana. In lingua d'oc scrivono infatti direttamente alcuni
trovatori (il termine equivale a 'poeta') italiani. Inoltre temi e
soluzioni stilistiche provenzali si trasmettono alle scuole poetiche siciliana
e stilnovistica, per giungere fino al Petrarca.
Le corti feudali, centri di un munifico mecenatismo, sono le sedi privilegiate
della lirica trobadorica, che per questo è detta anche 'poesia
cortese': addirittura si ritiene che il primo poeta cortese sia stato
proprio un feudatario, Guglielmo IX, duca d'Aquitania (1071-l126 o 1127).
La lirica cortese ha prevalentemente carattere amoroso, ma trae modelli di comportamento
e di linguaggio dall'ambiente feudale. Il poeta è un
'vassallo' che si sottomette alla donna amata, la serve e attende da
lei il beneficio. I suoi ideali sono ancora la fedeltà, il coraggio,
l'eroismo, ma altra diventa la loro destinazione: il poeta si consacra alla
dama, la onora e le è devoto fino al sacrificio. Questo sentimento
abbraccia ogni aspetto della sua personalità, lo coinvolge profondamente
e si traduce in un continuo impegno a migliorare se stesso. In tal modo il poeta
ingentilisce il suo animo e lo guida verso la conquista della perfezione
morale.
I princìpi di questa concezione dell'amore sono tanto precisi che si
trovano definiti in veri e propri trattati (come il De Amore del francese
Andrea Cappellano): l'amore può vivere solo in animi nobili, esenti da
meschinità o vizi, e deve restare 'segreto'; l'innamorato ha
il dovere di nasconderlo, di 'schermarlo', così
l'identità della donna viene celata con un nome fittizio (il cosiddetto
senhal); il matrimonio è inconciliabile con l'amore, che si nutre di
ostacoli e riceve maggior forza dall'impossibilità di possedere la donna
amata. Su questi motivi di fondo si sviluppa una vastissima gamma di
ramificazioni tematiche e formali. Alla lode della donna e alle riflessioni del
poeta sui propri turbamenti amorosi si accomna l'uso metaforico del
linguaggio feudale, l'insistenza su allusioni oscure, che rivelano
l'identità dell'amata solo a chi è in grado di decifrarle.
I trovatori appartengono a ceti diversi, ma la comunanza di vita nella corte e
i riconoscimenti ottenuti grazie alla fama poetica finiscono col minimizzare le
differenze dovute alla nascita, creando una specie di integrazione sociale.
Lo stile della poesia trobadorica mostra un sorprendente livello di
raffinatezza: è evidente la capacità di dominare la materia
narrata, ricorrendo alle più ardite sperimentazioni linguistiche e
retoriche. Esse, talvolta, si arricchiscono di tali rimandi e sottintesi che la
lettura e la comprensione immediata del testo diventano ardue: si parla allora
di trobar clus ('poetare oscuro, chiuso'), in opposizione al trobar
leu ('poetare chiaro, aperto').
La produzione cortese è ricchissima, e non è esclusivamente
maschile: si contano infatti almeno diciassette poetesse in lingua d'oc.
Risultati di altissimo valore poetico furono conseguiti, tra gli altri, da
Bernart de Ventadorn, Jaufré Rudel, Arnaut Daniel e Bertran de Born (gli ultimi
due ricordati anche da Dante). In loro, l'abilità formale giunge ad una
straordinaria perfezione tecnica, grazie alla quale lo schematismo delle
situazioni passa in secondo piano, e il riferimento al rituale di vassallaggio
perde di concretezza e si trasforma in uno spunto per raffinate sperimentazioni
di stile.
L'amore non è il tema esclusivo trattato dai provenzali; ad esso si
aggiungono motivi di ispirazione politica e civile, spunti di satira,
più raramente temi religiosi.
Dalla Provenza, la lirica trobadorica si diffonde soprattutto in Sna e in
Italia, dove poetano in provenzale autori come il genovese Lanfranco Cigala e
il mantovano Sordello. Ma gli argomenti e le tecniche di derivazione provenzale
raggiungono anche l'area germanica, dove si sviluppa il movimento definito
Minnesang (da Minne, 'amore ideale', e Sang, 'canto'), tra
i cui rappresentanti si ricorda Walther von der Vogelweide (1170 ca-l230 ca).
I primi documenti in volgare italiano
Quando si può cominciare propriamente a parlare dell'esistenza di un
'volgare italiano'? La questione è di estrema
complessità, e non è certo possibile pretendere di dare qui una
risposta definitiva. Possiamo però fissare alcune coordinate che aiutino
quanto meno a stabilire con precisione i termini del problema. In primo luogo,
bisogna intendersi su che cosa definiamo con l'espressione 'volgare
italiano': se essa indica la presenza organica e consapevole di una lingua
letteraria in grado di produrre testi maturi, allora non c'è dubbio che
si debba attendere il XIII secolo, con Francesco d'Assisi e la scuola poetica
siciliana. Se invece ci si riferisce a una lingua d'uso, a una parlata comune
che abbia ormai esplicitamente superato i confini della tradizione latina,
bisognerà arretrare notevolmente i termini cronologici: già
infatti fra il III e il IV secolo d.C. i documenti disponibili ci mostrano una
crisi e un processo di disgregazione del latino classico che fanno intravedere
l'emergere delle lingue neolatine. Bisogna peraltro aggiungere che, anche nel
pieno dell'età classica, la lingua letteraria latina fu sempre ben
distinta da quella popolare e quotidiana: lo stesso termine
'classico' nasce dalla radice di 'classe', con cui si
indicavano i cittadini appartenenti agli ordini sociali superiori, e che quindi
parlavano una lingua diversa, più elaborata e colta, rispetto a quella
popolare. La nascita del volgare non va vista insomma come una rottura rispetto
al latino classico, ma come un processo di evoluzione del latino popolare, che
si trasforma in una lingua nuova attraverso mutazioni lente e spesso
impercettibili (un interessante esempio è offerto dalla cosiddetta
Appendix Probi, con cui apriamo le ine antologiche).
Essendo questa la natura del fenomeno, ne deriva una pratica
impossibilità di determinarne con precisione i limiti cronologici.
Possiamo tuttavia affermare con sicurezza che il volgare italiano era
già di uso corrente fra il X e l'XI secolo in documenti di carattere
giuridico, ecclesiastico e mercantile, ossia in quegli ambiti nei quali era
necessario che il contenuto del testo fosse compreso anche dagli illetterati
che avevano ormai perduto ogni familiarità con il latino (contratti,
testamenti, formule legali, transazioni commerciali, professioni di fede,
ecc.). Al secolo successivo, il XII, risalgono i primi esempi di volgare
definibile in senso lato 'letterario', svincolato da precise finalità
pratiche e rispettoso invece di obblighi ritmici, metrici e fonetici. Si tratta
di testi giullareschi, composti cioè da cantastorie e poeti di corte o
di piazza in un linguaggio fortemente impregnato di forme dialettali,
latinismi, francesismi, e quindi ancora lontano da una fisionomia coerente e
unitaria.
Il libro manoscritto
Il libro è stato considerato, nella sua lunga storia, come uno
specifico contenitore della conoscenza. Nato molti secoli dopo la sa
della scrittura, esso ha subìto in primo luogo un'evoluzione di tipo
tecnico, ma la funzione che si è accomnata allo studio del libro,
alla conservazione, alla tutela di un immenso patrimonio culturale, hanno ben
presto assunto un valore paradigmatico. In molti casi, ad esempio, il libro ha
raccolto attorno alla propria immagine una serie di significati metaforici ed
è stato utilizzato come ura del mondo e della vita. Allo stesso
tempo, il luogo adibito alla sua conservazione, la biblioteca, è
diventata il simbolo della condizione labirintica dell'uomo e della ricerca
della verità: l'attività della scrittura, il possesso dei libri,
la scoperta dei codici dell'antichità, la formazione di una biblioteca
personale, hanno avuto nella professione intellettuale, un'importanza decisiva
dovuta al fatto che soltanto attraverso il confronto con la cultura scritta
l'uomo di lettere può svolgere fino in fondo il proprio ruolo sociale e
morale.
Soprattutto nell'antichità, prima cioè del XII secolo, il libro
era prevalentemente uno strumento per la conservazione e l'assimilazione del
sapere: soltanto con l'emergere di una cultura laica, in alternativa a quella
ecclesiastica dei monasteri, esso ha acquisito anche la funzione della
diffusione della conoscenza presso un pubblico sempre più vasto ed
eterogeneo.
Prima dell'avvento della stampa a caratteri mobili, inventata da Gutenberg
verso la metà del '400, i testi erano unicamente manoscritti, redatti da
amanuensi specializzati nell'uso della scrittura, e spesso arricchiti con
finissime e preziose miniature che illustravano l'opera, destinata in questo
caso a una fruizione ristretta e a una circolazione assai limitata.
L'attuale struttura del libro a stampa è in sostanza il risultato di una
lunga trasformazione tecnica e concettuale di questo prodotto:
nell'antichità esso aveva infatti l'aspetto del volumen, consisteva
cioè in un rotolo di papiro o di pergamena che durante la lettura veniva
appunto srotolato mediante una evolutio della ina. Alla fine dell'età
classica il papiro venne definitivamente soppiantato dalla pergamena, assai
più resistente e pratica, e il volumen assunse la forma del codex. Nel
IV sec. d.C. nella Biblioteca di Cesarea in Palestina tutti i testi
precedentemente realizzati su rotoli di papiro vennero trascritti su codici di
pergamena, quasi che i funzionari di quella biblioteca avessero sentito
l'urgenza e la preoccupazione di salvaguardare un patrimonio che altrimenti
sarebbe andato incontro a un'inevitabile usura.
La sostituzione del volumen con il codex apportò notevoli miglioramenti
anche per quanto riguardava la consultazione del testo. Nel codex la scrittura
è distribuita nelle singole sectiune (o ine) in porzioni limitate,
spesso su due colonne con lo stesso numero di righe. La numerazione delle sectiune
a seconda del recto (facciata anteriore della ina) e del verso (facciata
posteriore) e la realizzazione di indici appositi facilitarono un utilizzo
più veloce e pratico.
Lo sviluppo del cristianesimo occidentale ha avuto un'importanza capitale per
quanto riguarda la riproduzione dei testi. In un periodo come l'Alto Medioevo,
caratterizzato dalle invasioni barbariche e dalla dispersione della cultura
classica, il monastero ha svolto, oltre alla sua originaria funzione di luogo
di preghiera e di vita religiosa, un ruolo decisivo per quanto riguarda l'organizzazione,
la produzione, la conservazione e lo studio del patrimonio librario. Al suo
interno lo scriptorium agiva come un laboratorio nel quale si riproducevano
fedelmente testi religiosi, scientifici, filosofici, letterari, mentre nelle
ricche biblioteche questi testi venivano gelosamente conservati.
Dagli scriporia ecclesiastici uscivano principalmente testi sacri. È
questa la ragione per cui noi oggi disponiamo prevalentemente di codici
relativi alla spiritualità cristiana: la Bibbia in primo luogo, quindi i
testi liturgici, ma anche le opere dei Padri della Chiesa (Clemente
Alessandrino, Origene, Tertulliano, Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio
Magno, ecc.).
Nel caso del monastero, il luogo di produzione del libro coincideva con quello
della sua fruizione: i testi circolavano con molta difficoltà e venivano
consultati unicamente da coloro che facevano parte degli ordini ecclesiastici
nella biblioteca in cui essi erano custoditi. Nelle scuole monastiche studiava
non soltanto il clericus, l'uomo di chiesa, ma anche chi apparteneva al popolo
secolare e si radunava attorno alla chiesa in cerca di protezione: tuttavia
questo fenomeno è piuttosto limitato, circoscritto nel tempo e nello
spazio, e pertanto relativo a un pubblico molto esiguo. Mentre la riproduzione
di libri religiosi avvenne secondo una frequenza piuttosto regolare, i testi
della classicità latina subirono una sorte diversa: la rinascita della
filologia latina e dell'attività scrittoria relativa alle grandi opere
letterarie, storiche e filosofiche avvenne tra l'VIII e il IX secolo, grazie
all'impulso di Carlo Magno, e proseguì fino verso il X e l'XI secolo.
Un notevole impulso alla produzione del libro venne offerto dalle
università: nasceva in questo senso un concetto 'laico' del
libro, inteso cioè come strumento di studio e di apprendimento delle
discipline impartite nei grandi centri universitari europei (Bologna, Parigi,
Oxford). Il libro diventava in questo modo oggetto di mercato e la
realizzazione di questi testi si diffuse nei settori dell'economia artigianale:
talvolta erano gli studenti che ricopiavano per loro uso e consumo i testi
delle lezioni accademiche, ma più spesso la riproduzione manoscritta era
affidata a officine scrittorie e botteghe specializzate.
Tra la fine del XII e i primi del XIII secolo il processo di produzione dei
testi manoscritti subiva una sostanziale modifica: aumentò la
quantità dei libri disponibili, cambiarono i luoghi stessi della
produzione e lo statuto sociale degli operatori, si trasformò
soprattutto il pubblico dei fruitori. In sostanza il librò si
urbanizzò e si laicizzò in maniera definitiva. Non soltanto, ma
nel XIII secolo il libro cominciò a essere trascritto anche in lingue
diverse dal latino, in volgare italiano ad esempio, come dimostra la ricca
diffusione dei codici della lirica duecentesca.
Nel Medioevo latino, cioè dalla fine dell'Impero Romano (V sec. d.C.)
fino all'affermazione delle lingue neolatine (il volgare italiano, la lingua
d'oc, la lingua d'oïl, ecc.), il libro ha assunto spesso la fisionomia
della trattazione enciclopedica, come le Disciplinae di Marco Terenzio Varrone
II-I sec. a.C.), il De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella (V
sec. d.C.) o il Didascalicon del filosofo Ugo di San Vittore (XII sec.). A
queste summae (ma vennero anche chiamate con il termine di speculae o di
tresors) si affiancarono poi sillogi e antologie di varia natura: il codice
medievale stenta cioè ad affermarsi come singola opera di un un solo
autore, ma più spesso il libro contiene zibaldoni e selezioni di opere
ben più ampie.
Per quanto riguarda la forma-libro del XIII secolo, autonoma sia per quello che
concerne la trascrizione che per la sua fruizione, gli esempi più
significativi vengono dalla tradizione lirica in volgare italiano.
Chierici e laici
Nell'arco di tempo che va dal VI al X secolo il patrimonio della cultura
scritta le attività legate al sapere rimasero circoscritte a un limitato
numero di utenti. Si può parlare di veri e propri specialisti della
cultura, generalmente individuabili nell'ambiente ecclesiastico: il termine
chierico (in latino clericus) indicò indifferentemente sia l'uomo di
Chiesa, adibito alle funzioni liturgiche, alla predicazione e ai compiti
pastorali, sia l'intellettuale, la cui formazione avvenne sempre all'interno
delle strutture della Chiesa (scuole episcopali, monasteri, abbazie).
Il prestigio di cui il clericus venne investito in questa fase storica era
destinato ad accrescersi e a stabilizzarsi, tanto all'interno della Chiesa,
quanto all'interno dei centri del potere laico. L'intellettuale-ecclesiastico
legge e scrive in latino, conosce le Sacre Scritture e le interpreta, occupa un
posto di rilievo nelle gerarchie sociali del Medioevo: è, in sostanza,
un uomo di potere, e per questa ragione il suo servizio diviene fondamentale
anche nelle curiae (cancellerie), dove si amministrano e si gestiscono la
politica e l'economia. L'intreccio tra potere ecclesiastico e potere laico
costituisce pertanto una delle prerogative fondamentali del clericus: da questo
stretto legame si origina anche una visione della politica fortemente
influenzata dalle concezioni religiosi. Il clericus ricopre incarichi di varia
natura: è adibito alla riproduzione dei testi (il suo ruolo è
pertanto quello di un semplice scriptor); talvolta aggiunge al testo qualcosa
che comunque non è frutto della sua rielaborazione (in questo caso egli
funziona come compilator), oppure introduce nel testo un commento per renderlo
intelligibile (svolge allora il compito del commentator); in occasioni particolari,
ma siamo allora in presenza di personalità di livello più
complesso, egli si comporta come un vero auctor, sviluppando le proprie idee ma
attenendosi al pensiero di altre auctoritates.
In tutta l'età alto-medievale gli scrittori non possiedono una rilevante
considerazione del proprio ruolo sociale e della propria importanza culturale:
gli auctores, in quanto dotati di auctoritas, di autorevolezza intellettuale,
sono gli scrittori e i filosofi dell'antichità, mentre i moderni non
possono assumersi questo titolo. Anche la distinzione tra opera originale e
volgarizzamento è assai labile, con la conseguenza che il traduttore
può assumersi facilmente la paternità di un'opera letteraria.
Una cultura laica di grande prestigio si afferma, soprattutto in Francia e in
Italia, soltanto dopo il secolo XI, grazie alla struttura politica della corte
e al sistema comunale. I giullari e i trovatori provenzali, i poeti siciliani
alla corte di Federico II, i rimatori del Duecento italiano prediligono la
lingua volgare; promuovono un impegno civile e morale della letteratura;
stabiliscono con il potere politico un rapporto di collaborazione basato sulle
capacità tecnico-giuridiche della loro formazione; rifiutano il semplice
ruolo di 'esecutori' per assumere quello di 'produttori'
dell'opera d'arte; concepiscono la poesia e il sapere come una condizione
professionale.
Giullari e istrioni
I primi testi letterari italiani provengono quasi tutti dal mondo
giullaresco: il Ritmo Laurenziano, il Ritmo Cassinese, il Ritmo di Sant'Alessio
sono collocati tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo in un ambito
sociale vicino al mondo ecclesiastico. Tuttavia i giullari (ioculatores in
latino, jongleurs in francese) subiscono l'opposizione del clericus a causa
della loro instabilità sociale e mobilità in seno al sistema
politico cortese. Mentre i chierici sono ure facilmente controllabili e bene
inserite nelle strutture religiose dell'epoca, i giullari agiscono nello spazio
della anti-istituzionalità e della sottrazione alle regole del sistema.
I titoli negativi con cui essi vengono etichettati (histriones, scurrae)
mettono in risalto la componente di dissacrazione che è implicita alla
loro funzione: il giullare adopera un linguaggio licenzioso e osceno; è
piuttosto un esecutore che un produttore; si affida prevalentemente alla
trasmissione orale e all'improvvisazione.
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