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Come d'abitudine, Ricoeur arriva a formulare il concetto di "identità narrativa", di cui abbiamo accennato, dopo aver esplicitato le problematiche insite alla definizione dell'identità stessa.
Due sono gli usi del concetto d'identità personale: l'identità come medesimezza (lat. idem; ingl. sameness; ted. Gleichheit) e l'identità come ipseità (lat. ipse; ingl. selfhood; ted. Selbstheit). Questi due usi si vengono a confrontare e a differenziare con la questione della permanenza del tempo.
A prima vista la questione della permanenza nel tempo sembra 'connettersi' solo con l'identità-idem.
La medesimezza è 'un concetto di relazione e una relazione di relazioni'. Essa è costituita dall'identità numerica: cioè, 'di due occorrenze di una cosa, designata con nome invariabile nel linguaggio ordinario, noi diciamo che esse non formano due cose differenti ma una sola e medesima cosa'[1]. Poi viene l'identità qualitativa, cioè la somiglianza estrema: di due persone diciamo che indossano il medesimo abito, cioè dei vestiti talmente simili da essere indifferente che li si scambi per l'uno o per l'altro.
Queste due 'componenti' sono 'irriducibili' l'una all'altra, ma non sono 'estranee l'una all'altra': ' la somiglianza estrema tra due o più occorrenze può . essere invocata a titolo di criterio indiretto per rafforzare la presunzione di identità numerica'[2], anche se il tempo, in questo caso, gioca come un fattore disturbante. Si dia per esempio il caso dell'identificazione del proprio aggressore fra una serie di sospettati da parte di una vittima dopo un lungo periodo, qui la distanza nel tempo non fa altro che suscitare l'esitazione, il dubbio.
Per la debolezza di questo criterio di similitudine entra in gioco una terza componente della nozione di identità, la continuità ininterrotta 'fra il primo e l'ultimo stadio dello sviluppo di quello che riteniamo il medesimo individuo'[3]; questa componente 'prevale in tutti i casi' in cui la crescita, l'invecchiamento operano come 'fattori' di dissimiglianza e di diversità numerica: 'di una quercia diciamo che è la medesima dalla ghianda all'albero interamente sviluppato', così di un uomo diciamo che è lo stesso da quando è bambino alla sua vecchiaia. Anche qui, quindi, il tempo è 'fattore di dissimiglianza, di scarto, di differenza'.
Per questo motivo occorre un quarto elemento per 'scongiurare' la minaccia che il tempo rappresenta per l'identità: la permanenza nel tempo. Con questo criterio di identità, il più forte che possa essere prodotto sono eliminati i problemi che il tempo poneva alla base della similitudine e della continuità ininterrotta. Il codice genetico di un individuo o la 'struttura invariabile' di uno strumento cui fossero progressivamente cambiati tutti i pezzi, sono alcuni dei casi che rendono visibile questa quarta componente della medesimezza.
Ma, si domanda il Nostro, l'ipseità del sé non 'implica' una forma di permanenza nel tempo 'che non sia riducibile alla determinazione di un sostrato'[4]? Sostrato che la metafisica occidentale ha perseguito nelle vesti della sostanza assoluta, immutabile, necessaria ed eterna dell'Essere.
Ricoeur, quindi, apre una nuova riflessione dicendo che nel parlare di noi stessi, disponiamo di due modelli di permanenza nel tempo: il carattere e la parola mantenuta. L'ipotesi di Ricoeur è che:
' . la polarità di questi due modelli di permanenza della persona risulta dal fatto che la permanenza del carattere esprime il ricoprirsi quasi completo della problematica dell'idem e di quella dell'ipse una attraverso l'altra, mentre la fedeltà a sé nel mantenimento della parola data sottolinea lo scarto estremo fra la permanenza del sé e quella del medesimo, e dunque attesta pienamente l'irriducibilità delle due problematiche l'una a l'altra'[5].
e continua:
' . la polarità che mi accingo a scrutare, suggerisce un intervento dell'identità narrativa nella costituzione concettuale dell'identità personale, al modo di una medietà specifica fra il polo del carattere, nel quale idem e ipse tendono a coincidere, e il polo del mantenersi, in cui l'ipseità si affranca dalla medesimezza'[6].
Il carattere 'designa l'insieme delle disposizioni permanenti a partire da cui si riconosce una persona'[7]. In questo senso il carattere è il 'punto limite' in cui la problematica dell'ipse si rende indiscernibile da quella dell'idem. Di conseguenza è importante 'interrogarsi' sulla dimensione temporale della disposizione.
Alla nozione di disposizione si associa quella di 'abitudine in via di essere contratta' e 'di abitudine già acquisita'. Ora questi due aspetti hanno una 'significazione temporale evidente: l'abitudine dà una storia al carattere' . Ogni abitudine così 'contratta', diventata disposizione
permanente, costituisce un tratto di carattere, che consente di 'reidentificare' una persona come la medesima.
Alla nozione di disposizione si associano anche le identificazioni acquisite: l'identità di una persona, ma anche di una comunità, è fatta di queste identificazioni a valori, norme, modelli, eroi, nei quali la persona, la comunità si riconoscono. Il carattere, sempre secondo il Nostro, con la 'stabilità' garantita dalle disposizioni, assicura l'identità numerica, l'identità qualitativa, la continuità ininterrotta nel cambiamento e la permanenza nel tempo, che definiscono la medesimezza, mentre la "disposizione" come tratto temporale che si acquisisce - cioè non è una sostanza già data -definisce l'ipseità come presente fin nella medesimezza.
Un altro modello di permanenza nel tempo rispetto a quello del carattere è 'quello della parola mantenuta nella fedeltà alla parola data'. In questo 'mantenimento' il Nostro vede una identità polarmente opposta al carattere. Il mantenimento di una promessa sembra essere 'una sfida al tempo', 'un diniego di cambiamento', perché quando io faccio una promessa mi impegno a mantenere la parola data, per sempre, quand'anche cambiassero i miei desideri, opinioni, inclinazioni. La fedeltà alla parola data diventa, così, il paradigma di un sé, che non ha più le garanzie di autofondazione del cogito.
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