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Anche il duca Guidubaldo II della Rovere seguì la moda "cortigiana" del vivere alla villa ed è infatti grazie a lui che nel 1559 la "possessione di Miralfiore", già di Pier Simone Bonamini, venne a far patte delle proprietà roveresche.
La proprietà acquisita era poco più di un casino ci caccia e dunque il duca, forse per mano di Bartolomeo Genga, lio di Girolamo, e di Filippo Terzi, ne iniziò subito il restauro. La trasformazioni subite nei secoli rendono complessa la lettura dell'edificio anche se , soprattutto nel cortile, sono riconoscibili alcuni elementi dall'impianto originario.
Alla villa si accede da un lungo viale alberato, quasi una volta vegetale, alla cui conclusione è posto l'imponente loggiato che funge da filtro fra il parco e la villa vera e propria. Il loggiato si articola in tre arcate nel lato lungo e due in quello corto ed è scandito da massicci pilastri che sorreggono le volte a crociera. Il mattone è io materiale con cui sono realizzati i pilastri, le volte, i capitelli, mentre la pavimentazione è in selce montata in diagonale. Gli interventi realizzati anche in seguito al terremoto di inizio secolo non ci permettono di avere dal loggiato una percezione corretta. Infatti a giudicare dalle superfici ancora intonacate in alcune parti del cortile si potrebbe supporre che anche il loggiato fosse originariamente intonacato. Ora il mattone a vista è viceversa imperante a l'assenza dell'intonaco permette di riconoscere l'orditura diversa delle crociere. Infatti quelle più esterne, verso il viale, sono realizzate con il mattone in folio, mentre quelle più interne hanno il mattone nesso di coltello. Quelle con il mattone in foglio, molto probabilmente, sono state ricostruite dopo il terremoto con il materiale originario recuperato, ma non più sufficiente per riproporre l'antica orditura. Dal loggiato si accede infine al cortile. E' questo uno spazio quadrangolare dove ogni prospetto ha caratteristiche formali e funzionali a sé stanti; la parte superiore è stata fortemente modificata quando è stata coperta la balconata che collegava le stanze "dipinte" della villa con quelle che guardano verso il giardino. In origine, le stanza affrescate per mano degli Zuccai e dei loro allievi, erano raggiungibili esternamente dalla scala che partiva dal cortile, oppure dall'interno della villa, attraverso il corridoio a cielo aperto che correva su tutti i quattro lati. Solo nel lato est, verso il giardino, l'antico passaggio pensile è rimasto funzionante e ci permette di immaginare la soluzione originaria. Anche nella parte bassa il prospetto est è quello che ha mantenuto più intatti gli antichi elementi formali e dove è collocata una fontana di chiaro gusto rinascimentale con le concrezioni cementizie che cercano di emulare la materia naturale delle spugne marine.
Dall'osservazione dei tre prospetti del cortile, escludendo quello coincidente con il loggiato, si possono ancora riconoscere le tracce delle murature dell'edificio più antico dove sono state tamponate porte e finestre. All'antica muratura è stata dunque sovrapposta una complessa quinta scenografia che per alcuni elementi ci permette di supporre l'intervento di Bartolomeo Genga. Infatti lo spazio relativamente piccolo viene come moltiplicato con la realizzazione di un "falso porticato" con tre arcate, sorretto ora da pilastri in mattoni ora da barbacani in pietra, su cui s'imposta a sbalzo la balconata superiore. Il "falso porticato" dei tre prospetti non ha le arcate tutte uguali; infatti quella centrale è sempre la più grande e scenograficamente ospita l'ingresso principale della villa, l'ingresso agli edifici di servizio e la fontana.
L'ultimo elemento su cui ci vogliamo soffermare è il raccordo angolare, veramente inconsueto, che collega il loggiato con i due lati del "falso porticato". In questo punto si dovevano raccordere non tanto i due lati del cortile bensì gli sbalzi della balconata con i prospetti arretrati del cortile stessa. L'ardita soluzione fa sì che l'arco del loggiato e quello del "falso porticato" si congiungano in forma ribassata e , vista l'assenza del pilastro angolare, siano sorretti da un elemento particolare paragonabile alla parte terminale di una ipotetica volta a crociera che da quel punto si sarebbe potuta innalzare. Questa particolare soluzione d'angolo è molto simile a quella esistente nelle gallerie sotterranee degli Horti Farnesiani sul Foro Romano, e dunque rimanda al repertorio della Roma classica.
La "possessione di Miralfiore" entrò fra i possedimenti rovereschi nel 1559, quando Guidobalo II acquistò la tenuta da Pier Simone Bonamini, maggiordomo di cote; ristrutturò poi completamente l'edificio allora esistente e i giardini, forse avvalendosi dell'opera di Bartolomeo Genga e Filippo Terzi.
La villa e il giardino, appartenuti in questo secolo ai conti Castelbarco Albani, sono oggi proprietà della famiglia Livi che ne sta curando il restauro, coordinato dall'architetto Roberta Tartufi.
Come questo giardino si presentasse nell'epoca roveresca, lo possiamo derivare attraverso un disegno acquerellato che Francesco Mingucci preparò nel1626 e che rafura appunto i giardini di Miralfiore.
Al centro della veduta è il rettangolare " giardino della fontana" il quale è preceduto da una peschiera situata a una quota più bassa, mentre nella parte destra del disegno, parzialmente celati da un boschetto, sono due terrazzamenti.
Il grande "giardino della fontana" , rettangolare, costituiva lo spazio nodale del complesso verde: un ruolo compositivo sottolineato dalla quota più elevata, dalla fontana centrale e dalla presenza di un ornamento del tutto unico: una grande pergola perimetrale. Il giardino era suddiviso in sei timenti maggiori delimitati da siepi di bosso e altre essenza. In corrispondenza dell'asse centrale longitudinale era collocata la fontana che era ornata di quattro urina,"statuette di Bronzo rappresentanti Scimie in diversi atti "; dalla fontana saliva un alto getto d'acqua, mentre all'intorno era un giro di alberature sempreverdi che ombreggiavano il bacino.
L'elemento più caratteristico del giardino era una pergola quadrangolare oggi ssa che ne cingeva l'intero perimetro. Della pergola si trova menzione nel contratto redatto nel 1628 con il giardiniere della villa, dove si fa esplicito riferimento all'obbligo di "coltivare, governare, e mantenere al modo solito li pergolati del giardino della Fonte" (Biblioteca Oliveriana di Pesaro).
Si trattava di una passeggiata coperta da verzure sorrette da un'armatura voltata line all'usa classico.
All'intorno si dispiegavano la altre parti della composizione verde. Verso sud-ovest precedevano il "giardino della fontana" due piccoli terrazzamenti murati, ancora oggi esistenti, situati a quote lievemente inferiori e conurati come un giardino segreto. Erano cinti da spalliere di agrumi( per il superiore si trova infatti la denominazione di "giardino de' melaranci") e disegnati entrambi da ti con perimetri di piante di bosso e fiori.
Verso nord-est al giardino maggiore seguiva una sistemazione a una quota più bassa; la balaustra si interrompeva e il visitatore discendeva dal piano del "giardino della fontana" attraverso una scala a rampe contrapposte.
La sistemazione di questa parte del giardino, oggi ss, fu realizzata dall'architetto Girolamo Arduini nel 1583.
La parete coronata da balaustrini, su cui appoggiava la scala a doppia rampa. Costituiva la scena fondale di questa porzione inferiore del complesso verde. Rivestita di calcari spugnosi era punteggiata da varie fontane; al di sotto della scala si apriva l'elemento centrale della composizione, una grotta con giochi d'acqua e un gatto che dalla volta cadeva in un bacino marmoreo. Ai lati della grotta erano due nicchie con mascheroni dall cui broche usciva parimenti acqua; due ulteriori nicchie per parte, anch'esse con sedili e fontane, erano poi nella parte di fondo a cui era appoggiata la scala.
In asse con la grotta fu scavata una peschiera circolare che presentava al suo centro una montagnola, essa pure di "pietre sponghe" provenienti dall'Appennino.
La copiosa presenza dell'acqua , le nicchie, i decori rustici e i boschetti concorrevano a dare al luogo l'atmosfera di un ninfeo dal forte gusto manierista. Successivamente all'epoca roveresca, la villa e i giardini passarono in proprietà della famiglia dei Medici, poi dei Lorena, vennero infine acquistati dalla Santa Sede Apostolica che la concesse in enfiteusi ai principi Albani.
Nei secoli trascorsi, pur essendosi persa la parte più a valle del giardino, ed essendone mutato il contorno attraverso la costruzione di fabbricati di servizio e di una cappella, il disegno centrale di impianto, che il restauro in corso sta riconfermando, è rimasto inalterato e l'insieme verde costituisce uno degli esempi più importanti di giardino storico della regione Marche.
Ben leggibile è ancora la porzione del giardino in cui era la fontana, segnata da sei timenti rettangolari disegnati da siepi di bosso, come partimenti ben delineati sono i due piccoli terrazzamenti posti a ponente di questo.
Anche Giorgina Masson trovò il giardino particolarmente ben conservato e scrisse che "al contrario dell'Imperiale Nuova la Villa Miralfiore è stata sempre ben tenuta ed il terreno pianeggiante circostante l'edifico è accomodato in un parterre di tre giardini molto belli che conservano ancora il loro disegno originale del tardo sedicesimo secolo".
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