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Perché parliamo di lavoro minorile?
Il problema dello sfruttamento del lavoro minorile sta prendendo evidenza agli occhi dell'opinione pubblica per la sua gravità e vastità.
L'idea che questo problema sia lontano da noi, perché riguarda solo i paesi del sud del mondo, è uno dei pregiudizi che ne condiziona una visione sbagliata. In effetti in questi paesi lo sfruttamento del lavoro minorile ha dimensioni macroscopiche: le statistiche ci dicono che riguarda un bambino su quattro.
Ma anche nei paesi occidentali e negli ex paesi socialisti dell'Europa dell'est i bambini sono sottoposti a gravi forme di sfruttamento:
infatti il lavoro minorile cresce negli Stati Uniti e sta riendo anche in Europa. Anche in Italia calcola un numero di bambini lavoratori illegali che oscilla fra i 300.000 e i 500.000; spesso sono prigionieri, ridotti in schiavitù, o coinvolti in attività criminose.
Ci si può chiedere come è possibile che i governi e le istituzioni non intervengano con leggi e norme adeguate a porre fine allo sfruttamento del lavoro dei minori. Il problema, però, non è l'assenza di norme giuridiche adeguate: Le norme giuridiche non sono sufficienti a tutelare i minori, che svolgono le loro attività nell'illegalità: in questi casi si parla di lavoro informale, categoria che include il lavoro nero. E uno degli ostacoli nell'analisi del problema è proprio la difficoltà di stimare il numero dei soggetti coinvolti: i dati a proposito del lavoro minorile sono esclusi - anche in Italia - dalle statistiche ufficiali. Gli unici dati esistenti sono le stime delle varie organizzazioni non governative.
Cosa si intende esattamente per lavoro minorile?
La stessa definizione di lavoro minorile è problematica: la Convenzione
Internazionale sui diritti dell'Infanzia definisce minore (o meglio
'fanciullo') i ragazzi di età compresa fra 0 e 18 anni.
Ma per molti l'espressione 'lavoro
minorile' va riferito al lavoro svolto dai ragazzi sotto i 15 anni, cioè da quei
ragazzi che si trovano sotto la soglia dell'età minima lavorativa.
Parlando del lavoro dei bambini e degli adolescenti dobbiamo introdurre alcune distinzioni: una, proposta dall'Unicef, riguarda due categorie di bambini lavoratori:
quelli che lavorano all'interno della famiglia di appartenenza, dove si porta avanti un'attività contadina o artigiana svolta in proprio; per povertà, mancanza di infrastrutture e garanzie sociali le famiglie di questi minori hanno bisogno di braccia infantili. Il ragazzo, in questo genere di situazione, può lavorare qualche ora e andare a scuola; in altri casi lavora tutto il tempo, ma non si può parlare di sfruttamento, bensì solo di miseria
quelli che vengono sfruttati da un padrone
Un'altra distinzione che bisogna fare è fra i casi meno gravi - per esempio il lavoro per alcune ore, in settori che non pregiudicano la salute psico-fisica - e quelli più gravi, in cui il bambino lavora a tempo pieno, svolgendo attività nocive o dannose per il suo sviluppo fisico, sociale, psicologico e che gli impediscono di ricevere un'istruzione.
Il rapporto Ires su lavoro minorile introduce invece la distinzione fra lavoro illegale e illecito:
Per attività illecite si intendono quelle che infrangono
soltanto i divieti sul lavoro minorile o in quanto tale: assistenza, contratti,
retribuzioni minime ecc. che gli Stati
si sono dati.
Le attività illegali ricadono invece nella sfera dei lavori perseguibili
penalmente: prostituzione, manovalanza nelle fila della criminalità,
partecipazione a bande armate e eserciti irregolari.
L'unione delle due dimensioni permette di analizzare il lavoro dei bambini
differenziando secondo la gravità che esso assume e, quindi, di
elaborare soluzioni articolate e realmente applicabili nei diversi casi.
Un po' di storia .
Si è soliti far risalire lo sfruttamento dei lavoratori in generale alla rivoluzione industriale del diciottesimo secolo che, nata in forma spontanea, condizionò definitivamente la vita sociale ed economica della Gran Bretagna trasformando il paesaggio fisico e instaurando un modo diverso di vivere e lavorare per la gran massa della popolazione.
Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo è, comunque, sempre esistito. Istituzioni come la schiavitù e l'asservimento sono state presenti fin dall'antichità. Quello che cambia, nell'Ottocento, è proprio il sistema di produzione economica: nasce una economia post agricola dove, alla vecchia unità di produzione LA FAMIGLIA, si sostituiscono forme organizzate su scala più larga come fabbriche e piccole industrie. Mentre prima anche le industrie tessili, le più importanti in un tipo di economia preindustriale, erano organizzate su scala domestica, ora si sviluppa un sistema produttivo più spersonalizzato che sradica i lavoratori dalla terra, li conduce verso le città e le grandi unità produttive.
Nasce allora il termine proletario: colui che ha come unica ricchezza la propria prole. Questa parola assume un valore sinistro ed emblematico quando la prole viene addirittura sfruttata, venduta e schiavizzata.
La rivoluzione industriale inglese poté svilupparsi soprattutto per un aumento della popolazione dovuto agli effetti combinati tra la caduta del tasso di mortalità infantile e dell'aumento del tasso di natalità: si può dire allora che l'incremento della popolazione consisteva soprattutto nell'aumento del numero di bambini. D'altra parte non ci voleva molto tempo perché i bambini del diciottesimo secolo raggiungessero l'età in cui potevano guadagnarsi da vivere. L'industria domestica trovava lavoro per i bambini non appena poteva andare a gattoni e le prime fabbriche tessili assumevano infornate di bambini poveri dall'età di cinque anni in su. Sebbene i regolamenti, gli ispettori e le scuole pubbliche cominciassero a tenere i bambini fuori dalle fabbriche, il lavoro minorile andò avanti normalmente per più di un secolo (l'Ottocento) dopo l'avvento della rivoluzione industriale. Ancora nel 1871, un ufficiale sanitario riferì di aver trovato un bambino di tre anni che fabbricava fiammiferi a Bethnal Green.
Similmente oggi, nei paesi più poveri e quindi nel cosiddetto Terzo Mondo, si verifica lo stesso fenomeno di sfruttamento dei minori, sovente unica risorsa di famiglie condotte allo stremo da sistemi di produzione che non permettono la tipica autosufficienza dell'agricoltore.
Alle radici del problema
Nel mondo ci sono circa due miliardi di bambini di età compresa da 0 a 18 anni. Nove su dieci, pari all'87%, vivono nei paesi in via di sviluppo. Di essi 250 milioni sono i bambini tra i 5 e i 14 anni che lavorano
Le statistiche sono incerte, a volte sospette, specie nel caso di paesi che sembrano essere immuni dal fenomeno. La raccolta di dati reali e affidabili è limitata perché in alcuni casi il lavoro minorile viene considerato inesistente e pertanto non viene incluso nei sondaggi e nelle statistiche ufficiali. Il fenomeno è strettamente legato ai grandi mutamenti socioeconomici: in Africa è aumentato nel corso del decennio scorso con la crisi economica che ha investito l'intero continente e che ha avuto come immediata conseguenza pesanti tagli alla spesa pubblica (istruzione, sanità). In molti paesi poi, a causa delle agitazioni politiche e i conflitti e la spaventosa diffusione dell'AIDS, si è registrata la tendenza a ricorrere ancor di più alla manodopera infantile.
Nei paesi dell'Europa centrale e orientale il numero di bambini che lavorano è aumentato per il repentino passaggio da un'economia centralizzata a una di mercato. Anche nei paesi industrializzati come nel Regno Unito e gli Usa la crescita del settore terziario e la richiesta di una forza lavoro più flessibile hanno contribuito all'espansione del fenomeno.
Il lavoro minorile è una piaga mondiale che va combattuta su più fronti. Il punto di partenza resta però la disponibilità di dati precisi e affidabili sull'effettiva diffusione del problema, secondo parametri condivisi a livello internazionale. Questo sarà possibile solo in un gioco di squadra, solo cioè attraverso la stretta collaborazione tra governi, organizzazioni internazionali e ONG. In assenza di dati precisi non solo non potranno intraprendersi azioni sistematiche per eliminare definitivamente il lavoro minorile, ma non si potrà neanche intervenire con urgenza in difesa dei bambini (tanti) coinvolti in lavori rischiosi e pericolosi per la loro integrità fisica e psichica.
Quando si parla di lavoro minorile è necessario distinguere tra lavoro pesante e lavoro leggero, tra lavoro cosiddetto benefico e lavoro intollerabile, tra lavoro positivo e lavoro minorile coatto. Non si possono infatti mettere sullo stesso piano i bambini che lavorano poche ore al giorno in attività non pericolose per la salute e lo sviluppo con i piccoli schiavi delle fornaci a carbone dello stato brasiliano del Mato Grosso.
Per i primi infatti il lavoro può dare, a volte, i mezzi per frequentare la scuola: se venisse loro impedito di esercitarlo, senza offrire valide alternative, sarebbe un fattore di impoverimento economico molto forte. Per gli altri, per tutti quei bambini che svolgono attività a tempo pieno in età precoce, per numerose ore al giorno, vittime di indebite pressioni fisiche, sociali o psicologiche, mal ati quando non ati affatto (come nel caso dei bambini venduti dai genitori per riare debiti insolubili), che non possono pertanto andare a scuola né ricevere un'adeguata istruzione, il lavoro è solo abuso e sfruttamento inaccettabile che deve essere duramente combattuto.
Possiamo parlare di lavori minorili, di una variegata serie di possibili attività svolte da bambini e ragazzi ai cui estremi si trova da una parte il child labour (quei lavori pesanti legati allo sfruttamento e alla schiavitù) e dall'altra il child work (forme più leggere di attività, non necessariamente penalizzabili sotto il profilo sociale). E' importante anche distinguere tra lavoro consenziente, quello cioè svolto da un minore che non ha altre alternative, in accordo con i genitori per guadagnare qualcosa in supporto al reddito familiare e il lavoro forzato, quando il bambino viene allontanato dai genitori e ridotto in schiavitù.
In Asia meridionale bambini di 8-9 anni vengono dati come pegno di piccoli prestiti dai loro genitori ai proprietari di fabbriche o ai loro intermediari.
In India questo genere di transizione è diffusa anche in agricoltura o nelle industrie in cui l'abilità manuale dei bambini è, tra le altre cose, particolarmente apprezzata, come nella lavorazione dei tabacchi (arrotolamento delle sigarette), dei fiammiferi, dell'ardesia e della seta. Nello stato indiano dell'Uttar Pradesh dove fiorente è l'industria dei tappeti i bambini sono costretti a lavorare anche più di 20 ore al giorno e quelli più piccoli sono costretti a restare accovacciati sulla punta dei piedi in ambienti angusti e insalubri. Molto bassa è anche l'età media dei bambini impiegati nella produzione di palloni, gioielli, scarpe (tra i 5 e i 12 anni) come risulta da un recente studio realizzato dall'UNICEF in Bangladesh
Si sfruttano i minori per eseguire scavi minerari pericolosi anche per gli adulti, come nelle miniere di oro e diamanti della Costa d'Avorio e del Sudafrica nonché in quelle di carbone della Colombia, dove la manodopera infantile lavora con un equigiamento di sicurezza ridotto al minimo respirando polvere di carbone. Quelli che lavorano nelle fabbriche di ceramica e di porcellana inalano silicio, quelli delle industrie delle serrature respirano fumi nocivi emessi da sostanze chimiche pericolose. In Colombia i bambini che lavorano nei vivai che esportano fiori sono esposti a pesticidi ormai banditi nei paesi industrializzati.
Lo stesso tipo di violazione di ogni norma di sicurezza e di igiene è costante nelle piantagioni di caffè, di tè e di tabacco. In alcune piantagioni di canna da zucchero del Brasile i bambini rappresentano quasi un terzo della forza lavoro e il 40% delle vittime di incidenti sul lavoro (ferite provocate con il machete usato per tagliare le canne).
Lo sfruttamento della povertà è alla radice del lavoro minorile; i bambini vanno a lavorare perché così contribuiscono al mantenimento della loro famiglia. Spesso la a di un bambino è fondamentale per la sussistenza quando i genitori non hanno lavoro. Il paradosso è che il lavoro non c'è per gli adulti ma è disponibile per i loro li e questo perché un bambino viene ato molto meno di un adulto, non si ribella, non si organizza con gli altri per rivendicare salari migliori, può essere sottoposto a qualsiasi forma di abuso (anche sessuale).
Le ragioni economiche sono certamente una potente molla che spinge molti minori a non frequentare la scuola e a cercarsi un lavoro ma esiste anche la forza della discriminazione e delle regole sociali che poggiano sul cosiddetto lato oscuro della tradizione. Questo vale ad esempio per i bambini delle classi sociali più emarginate, delle minoranze etniche, dei membri dei fuori casta indiani. Non c'è paese al mondo in cui questa discriminante determina le regole del gioco: negli USA i minori che lavorano sono asiatici o latinoamericani; in Brasile sono bambini della popolazione indigena; in Argentina sono li di immigrati dal Paraguay; in Thailandia i minori impiegati nell'industria della pesca provengono per lo più dal Myanmar.
Nepal: Tappeti fatti a mano / Sotto i nostri piedi
'Ci sorveglia un adulto. Si accerta che lavoriamo in continuazione. Quando si arrabbia, ci picchia con la bacchetta. E' da un anno che lavoro qui, con le altre bambine. Alcune avevano solo cinque anni quando hanno iniziato. Mangiamo e dormiamo nel laboratorio; c'è poco spazio e l'aria è piena di polvere di lana. Per tessere un tappeto quattro bambini hanno un mese di tempo. Il capo dice che ha prestato dei soldi ai nostri genitori, che dovremo lavorare finchè non sarà riato il prestito. Ci possiamo riuscire solo se lavoriamo sedici ore al giorno, senza ammalarci. Spesso mi chiedo quanto dovrò rimanere ancora davanti al telaio Quando tornerò a casa?'
Guri ha 9 anni. Tesse tappeti in un laboratorio di Kathmandu, la capitale del Nepal. Tappeti venduti quasi tutti sul mercato europeo, tappeti 'fatti a mano', dice l'etichetta, e non troppo cari. Quando ce li troviamo sotto i piedi, raramente ci chiediamo da dove vengono.
Spesso vengono da piccole fabbriche in cui lavorano bambini e bambine come Guri. Hanno mani piccole e agili, perfette per tessere. Costano poco, questi schiavi-bambini: 180.000 lire è il prezzo ato dai mediatori alle famiglie, per sei mesi di 'affitto' di una tessitrice. Contratti capestro, difficili da sciogliere.
Migliaia di bambini lavorano nell'industria tessile in Nepal, anche se il paese ha ratificato la Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia e la legge vieta l'impiego di manodopera infantile sotto i 14 anni. La Costituzione del 1990 ha ribadito il divieto di ogni forma di sfruttamento e di traffico di persone; tuttavia, mancando ogni forma di controllo e di applicazione della legge, queste violazioni continuano. L'industria tessile impiega circa 300.000 persone, metà delle quali bambini, ed è un'importantissima fonte di scambio commerciale con l'estero: nello scorso decennio ha conosciuto un vero e proprio boom, con entrate di 160 milioni di dollari USA l'anno, pari a un terzo del reddito nazionale.
Anche se la sua immagine più diffusa è legata alle bellezze naturali e al turismo nella regione himalayana, il Nepal è in realtà un paese fra i più poveri dell'Asia sud-orientale. L'economia è ancora a base prevalentemente agricola (l'88% degli abitanti vive nelle camne delle vallate o sui terrazzamenti lungo le pendici delle montagne), l'industria è concentrata sull'artigianato per l'esportazione, in primo luogo tappeti, e lavora in gran parte in nero, sfruttando manodopera infantile. Il 70% della popolazione vive in condizioni di estrema povertà
L'obiettivo numero uno dell'UNICEF in Nepal è proprio riscattare i piccoli lavoratori. L'UNICEF, insieme a varie organizzazioni non governative e ai Ministeri competenti, ha già ottenuto l'istituzione di un Comitato che controlli la non utilizzazione di lavoro minorile nelle produzioni di tappeti destinati all'esportazione. Specifici programmi di recupero, sostenuti grazie anche ai contributi raccolti in Italia, sono rivolti in particolare al riscatto dei bambini vittime delle forme di lavoro forzato: i piccoli schiavi del telaio, come Guri. Per aiutarli a tornare a casa.
Pakistan - Tutto il giorno a cucire palloni
Latif ha 11 anni, cuce palloni da calcio da quando ne aveva 7. 'Il lavoro minorile credo sia vietato, ma da queste parti non conosco un ragazzino che non lavori. Io ho cominciato aiutando un parente. Adesso sto sotto padrone, 9-l0 ore al giorno a cucire palloni, a mano. Sempre lo stesso lavoro, mi rovino le dita e non imparo a fare altro. I palloni che mi arrivano da cucire hanno i marchi più diversi, molti li conosco, credo siano famosi in mezzo mondo. Anche se io non è che mi interessi del calcio, preferirei il cricket. Ma tanto, chi ha il tempo di giocare.'
Siamo nel distretto di Sialkot, in Pakistan. E' la zona industriale del paese, si produce di tutto, in aziende di medie dimensioni e in migliaia di piccoli laboratori artigianali. Si fabbricano strumenti ottici, attrezzi chirurgici, scarpe e tappeti, tutti destinati all'esportazione. Ma soprattutto si producono e rifiniscono palloni di cuoio, del tipo professionale, cuciti a mano. Soprattutto palloni da calcio. Ci lavorano oltre 5.000 bambini. In tutto il paese sono 8 milioni i piccoli lavoratori, tra i 10 e i 14 anni; costituiscono il 20% della popolazione attiva, e la maggioranza è impiegata nell'edilizia, per la fabbricazione di mattoni d'argilla, o nelle piccole fabbriche. Al loro lavoro si deve gran parte del recente 'miracolo economico' pakistano; o meglio, alla loro schiavitù, perché alla modernità di molti prodotti fa da contraltare una condizione di lavoro servile che spesso assomiglia alla schiavitù.
Per combattere questo sfruttamento l'UNICEF, insieme a varie organizzazioni non governative pakistane, si muove su un duplice terreno: da una parte strumenti di controllo e di pressione sulle ditte produttrici, per contrastare l'impiego di minori, dall'altra programmi scolastici e di formazione professionale.
Il 16 aprile di quest'anno tutta l'Italia si mobilita contro il lavoro minorile, attraverso iniziative nelle scuole, sui giornali e nei programmi televisivi, a livello nazionale e locale. La scelta della data non è casuale: è infatti il terzo anniversario dell'assassinio del piccolo Iqbal Masih, un bambino pachistano di dodici anni che aveva osato ribellarsi alla sua condizione di semi-schiavitù come tessitore di tappeti e denunciare i suoi sfruttatori, divenendo una sorta di sindacalista dei bambini lavoratori. Un personaggio troppo scomodo per chi sul lavoro dei bambini si è arricchito: tre anni fa Iqbal rimase vittima di un colpo di fucile, il cui autore è rimasto ignoto. Quando fu ucciso, correva in bicicletta: forse pensandosi libero, in quel momento, di essere soltanto un bambino, e non il simbolo di un dramma.
Iqbal ripeteva spesso nei suoi interventi pubblici che 'nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite'. Lui, dall'età di quattro anni, tesseva tappeti.
Perù - Spaccapietre e minatori
Pedro ha 10 anni, braccia forti e uno sguardo perso nel vuoto. Dall'anno scorso fa il mestiere di spaccapietre. C'è molto lavoro, perché la cava a cielo aperto dove trascorre in media 10 ore al giorno è vicina alla capitale, Lima, e per le imprese edili è conveniente venire qui a comprare materiali per costruire i palazzi e le strade. 'Siamo quasi tutti ragazzi, a lavorare con martello e piccone. Ci siamo passati la voce di questo lavoro, nel barrio, e la mattina veniamo su in gruppo, con l'autobus per un'ora e poi a piedi. A volte un camion ci dà un passaggio. Non è un lavoro che mi piace, faccio tanta fatica che a volte mi sento morire. Ma cos'altro potrei fare, non ho finito neanche due anni di scuola. Siamo poveri, i soldi servono. Spero solo di non farmi male, ci sono spesso incidenti. Comunque meglio qui che in miniera, come tanti amici miei rimasti al paese'.
400.000 bambini peruviani tra i 6 e gli 11 anni non vanno a scuola. Non dipende certo da pigrizia o incapacità; non vanno a scuola perché le loro famiglie sono troppo povere per permetterselo, perché la scuola è troppo lontana e comunque comporta dei costi, soprattutto perché hanno altro da fare: devono lavorare per portare soldi a casa. Gran parte di quei 400.000 bambini lavora dalle 8 alle 10 ore al giorno, e quasi tutti appartengono a quel 20 per cento della popolazione peruviana che vive in condizioni di povertà estrema.
Quelli che lavorano come pastori e contadini, aiutando le loro famiglie sugli altopiani, si trovano spesso in una condizione drammatica di isolamento e mancanza di servizi essenziali. Tuttavia il loro sfruttamento è meno pesante rispetto agli operai-bambini di città, schiavizzati per una a di pochi soldi, a volte anche un decimo del minimo sindacale: cavatori di pietre come Pedro, fabbricanti di mattoni, manovali nell'edilizia, facchini ai mercati generali, e via dicendo nella giostra di lavori e sottolavori che, come gironi dell'inferno, sembra sprofondare nell'abisso le speranze di cambiamento di una generazione di ragazzi le cui famiglie erano emigrate in città confidando di riuscire a sfuggire alla miseria.
Dormono in case di lamiera e cartoni, in immensi agglomerati informi di baracche, senza fognature né, spesso, acqua potabile. Molte famiglie, una volta arrivate in città, si sfasciano; e per le madri è difficile tirare avanti, se i bambini non portano a casa soldi. Per i ragazzi spesso, alla fine, l'unica risorsa è la vita di strada, tra mestieri legali e illegali, pulizie dei vetri delle macchine e vendita ai semafori; si calcola siano 81.000 i piccoli peruviani che lavorano come venditori ambulanti. Moltissimi inoltre lavorano a domicilio, oppure - soprattutto le bambine - come domestiche nelle famiglie benestanti.
Indonesia: multinazionali sotto accusa
In Indonesia, a Jakarta Numerose multinazionali ben note in tutto il mondo sono oggi sotto accusa per aver subappaltato la produzione dei loro prodotti ad industrie e fabbriche dei Paesi Poveri che impiegano e sfruttano bambini in condizioni spesso disumane.
A Jakarta, nella fabbrica della Hardaya Aneka Shoes Industry (HASI) che produce le note scarpe da ginnastica Nike, sono impiegate 6.700 minori che producono 2000 paia di scarpe ogni ora. Tri Mugiayanti è una ragazza indonesiana di 14 anni addetta alla spalmatura del mastice sulle suole che le passano davanti su un nastro trasportatore; l'aria è satura di esalazioni emanate dalle vernici e dai mastici, la temperatura è di circa 40 gradi centigradi: dopo dieci minuti di permanenza in quest'ambiente gli occhi e le narici cominciano a bruciare e viene un terribile mal di testa.
Per ogni paio di scarpe del modello Air Pegasus, la HASI riceve 26.400 lire, ma la Nike lo rivende ai grossisti a 56.000 lire e nei negozi a 112.000 lire. Tri Mugiyanti, invece, riceve 350 lire all'ora.
E come la Nike, sono sotto accusa molte altre multinazionali, come la Chicco o l'Adidas.
ALTRI TIPI DI SFRUTTAMENTO MINORILE
Bambini soldato
Un settore, questo, in grande espansione. E' apparso in tutta la sua ampiezza durante le guerre africane degli ultimi anni. Il fenomeno è difficilmente quantificabile. Secondo il rapporto Unicef del 1996 i bambini soldato erano circa 200.000. Oggi il loro numero è certamente cresciuto. In Liberia sono circa 20.000 (un quarto dei combattenti in azione). Anche in Sierra Leone i bambini soldato sono molto 'apprezzati': non devo essere ati (al limite solo drogati), non hanno il senso del pericolo, sono particolarmente coraggiosi, vengono spessi usati come carne da macello da buttare in prima linea per rompere il fronte avversario o anche solo per aprire piste nei campi minati. In Mozambico una delle fazioni in lotta (la Renamo) ne ha utilizzati almeno 10.000. In Angola il 36% dei bambini aveva partecipato ad azioni di guerra ed il 7% aveva sparato ad un nemico.
Durante il genocidio e la guerra in Rwanda i bambini venivano usati per 'stanare' nella boscaglia gli adulti. Per alcuni di essi il premio era la testa mozzata della preda. Attualmente in Rwanda i baby soldato sono circa 8.000.
Ricerche dell'Acnur testimoniano della difficoltà immensa del recupero di personalità che abbiano subito o partecipato a così gravi violenze. Il motivo per cui si diventa baby soldato è semplice: se la guerra ti ha lasciato orfano, senza prospettive, senza possibilità di sopravvivere . .. altre scelte non hai.
Sfruttamento Sessuale
E' un dato allarmante che non può più essere ignorato: l'industria sessuale è in continua crescita e l'età dei bambini coinvolti diminuisce regolarmente. Prostituzione, abusi sessuali, traffico di bambini, utilizzo per uso pornografico: queste sono solo alcune, forse le più evidenti, forme di sfruttamento sessuale dei minori.
Spesso bambine e bambini vengono rapiti e venduti nei bordelli e sacrificati alla perversione di pedofili, per lo più occidentali - infermieri, diplomatici, uomini d'affari, insegnanti - individui insospettabili. Stuprati per pochi soldi ad "incontro", queste piccole vittime sono per lo più tenute prigioniere in tuguri dove raramente entra la luce, in condizioni igieniche deprecabili, minacciati e seviziati al fine di stroncarne ogni possibile resistenza o tentativo di fuga.
Pensiamo poi, a tutte le bambine e i bambini che vivono indifesi per le strade, soggetti alle violenze di chi approfitta della loro fragilità e vulnerabilità. In Brasile, a San Paolo, circa 200.000 bambini vivono per le strade. Cristina, una bambina di dieci anni, ha vissuto in mezzo alla strada per due anni insieme al suo fratellino di quattro anni chiedendo l'elemosina. Un esame medico sulla bambina ha riscontrato sul suo giovanissimo corpo tutto il dolore delle sue esperienze
Le conseguenze sullo sviluppo psicologico e sulla salute di questi bambini sono devastanti.
Un altro tipo di sfruttamento meno appariscente, ma insidioso e sottile, può essere considerato l'utilizzo dei bambini fatto dalla televisione.
I numerosi programmi tv che si servono dei bimbi per strappare risate agli adulti, abusano psicologicamente di piccini che, a certe ore della sera, starebbero meglio a letto o a casa con i loro genitori.
E in Italia?
Sempre e comunque è sotto accusa la scuola, che producendo disinteresse nei confronti dell'istruzione innesca il circolo vizioso abbandono, lavoro nero, e talora devianza; c'è un'ampia e diffusa sfiducia nella scuola come istituzione, un progressivo allontanarsi dei giovani dai valori che la scuola esprime.
«In Campania è diffusa la cultura del mestiere, che andrebbe cambiata ma per questo ci vorrebbe una scuola più collegata col territorio e quindi più collegata col mondo del lavoro» - afferma Margherita Dini Ciacci Presidente del Comitato Regionale UNICEF della Campania.
Essa non si propone come un'alternativa educativa valida, non ci si aspetta che il fatto di frequentarla possa servire per trovare un lavoro migliore in futuro. Meglio quindi, dato che la scuola annoia e non professionalizza una occupazione qualunque, anche se essa non è strettamente necessaria alla sopravvivenza Ed è proprio in questo vuoto che la criminalità pesca la sua manovalanza, soprattutto in quella fascia di età alla fine della scuola dell'obbligo.
«Sarebbero necessarie iniziative per la fascia di età 14-l6 anni, collegate fra di loro per offrire ai giovani orientamento professionale alternativo al lavoro nero» - ribadisce la dottoressa Dini Ciacci.
«Ma qualcosa in questo senso si sta muovendo; - afferma Amedeo Daniele, sociologo, esperto di lavoro minorile e funzionario presso il Ministero del Lavoro - quello che si sta cercando di mettere in piedi è quel collegamento tra tutte le agenzie che, a vario titolo, si occupano del problema per cercare di eliminare interventi a binario morto e sovrapposizioni. E inoltre si stanno approntando iniziative concrete di inserimento professionale dei giovani nell'artigianato, il cui potenziale è davvero innovativo».
Napoli: Garzoni e sciuscià
La Campania e Napoli in particolare sono da sempre considerati luoghi simbolo dell'emarginazione giovanile in Italia. Secondo Amedeo Daniele, del Ministero del Lavoro, anche se la dimensione esatta del fenomeno non è nota - in questo senso Ministero del Lavoro, Tribunale dei Minori, enti locali ASL stanno cercando di coordinarsi per avere dati che siano frutto di una ricerca sistematica e protratta - essa è tuttavia rilevante. E' logico infatti che in un'economia come quella campana che ha una parte di sommerso così significativa, il lavoro giovanile svolga un ruolo importante. A Napoli i minorenni lavorano - tradizionalmente e illegalmente - un po' in tutti i settori: da quello manifatturiero delle calzature e dell'abbigliamento, a quello della vendita di prodotti di contrabbando. Ma fanno anche i parcheggiatori, i garzoni di bar, gli apprendisti nelle officine meccaniche. Alcune di queste attività sfiorano la criminalità o sono di copertura ad attività illegali.
Nella regione è presente la tipologia 'grave' di lavoro minorile, quello indispensabile per la sopravvivenza di nuclei familiari indigenti in quelle zone del centro storico e dell'hinterland napoletano in cui il tasso di disoccupazione sfiora il 27%. Anche fattori culturali come la cultura del mestiere e il fascino della vita di strada, il mito dell'autonomia e il fascino esercitato dai beni di consumo, giocano il loro ruolo nella diffusione del lavoro minorile a Napoli.
'Il recupero della legalità accomnato da forti iniziative di sviluppo sembra essere la ricetta in grado di risolvere un problema strutturale. Va letto in questo senso il progetto di avviamento all'artigianato, attuato dal Ministero del Lavoro in collaborazione con gli enti locali, grazie al quale nel triennio '94-'95-'96 circa 300 giovani hanno vissuto un'esperienza di formazione finanziata dal settore pubblico. Un'iniziativa innovativa e ricca di potenzialità che andrebbe monitorata nel tempo e riprodotta sui grandi numeri. Il problema principale di Napoli e della Campania è la regia di tutti gli interventi, quelli nuovi e quelli già attivi sul territorio: le risorse del volontariato devono collegarsi con le forze istituzionali e agire di concerto, in un quadro di seria formazione e di valorizzazione delle esperienze professionali di ciascuno. 'Una speranza viene alla città dalla legge 285 dell'agosto '97 che ha destinato 31 miliardi alla regione e 15 al capoluogo e che, collegandosi con altre leggi esistenti come la 216 sull'artigianato giovanile sono in grado di fornire quel grimaldello necessario a smantellare un problema che ha radici secolari nel capoluogo campano. A patto di sostituire la logica dell'improvvisazione con quella della professionalità e dell'efficienza.
Verso la soluzione del problema
Come abbiamo visto, lo sfruttamento dei bambini è un fenomeno secolare che non è ancora stato risolto nonostante i numerosi tentativi messi in atto fin dal 1700.
Già in quel tempo si può collocare, ad esempio, l'impegno assistenziale politico e pedagogico dell'educatore Robert Owen. Le concentrazioni produttive a base industriale, soprattutto opifici che si moltiplicavano nel suolo scozzese intorno alla fine del diciottesimo secolo, impegnavano come lavoratori, in condizioni disumane, soprattutto bambini. Colpito dalla situazione di questa infanzia diseredata e sfruttata, Owen denuncia con vigore la cruda realtà riprendendo la battaglia già iniziata da un altro educatore, Oberlin, a Strasburgo (che aveva fondato la prima "salle d'asile" nel 1770).
Owen cerca di sperimentare a New Lanark (1816) una scuola per bambini fino ai dodici anni per combattere il sempre più diffuso racket del lavoro infantile.
"Mentre i genitori, fratelli e sorelle erano occupati tutto il giorno ai loro filatoi, i bimbi erano lasciati vagabondare . per le strade dove prendevano tutti i vizi; in età appena più avanzata, dai 5, 6 anni, i bambini -in forza di una legge del 1563- potevano venire assunti come apprendisti presso datori di lavoro per imparare un mestiere, purché l'ispettore dei poveri . ne desse l'autorizzazione.
Scoperta tale vena da cui attingere numerosa mano d'opera a buon mercato, gli imprenditori facevano a gara per assumere quei fanciulli come apprendisti nelle fabbriche . lavoravano in ambienti poco igienici, per più di 14 ore al giorno, accanto a lavoratori e lavoratrici abbruttiti dalle eccessive fatiche.
Owen si pose allora come traguardo politico quello di fornire ai li della nascente classe operaia gli strumenti culturali per riscattare la propria condizione di reietti sociali. La scuola vista quindi come clinica terapeutica, capace di guarire l'umanità dallo sfrenato individualismo e dalla feroce competitività
Egli rivolse perciò particolare attenzione alla classe preparatoria (3-6 anni) cercando di superare la logica dell'asilo assistenziale che, legittimando le differenze sociali, orientava l'infanzia verso comportamenti dettati dalle classi al potere. L'educatore inglese cercò di liberare le energie creative e cognitive più profonde dell'individuo, fermamente convinto nella sua lotta per vincere l'ignoranza e le discriminazioni sociali.
Già questo tentativo settecentesco ci può far intuire come una delle principali vie d'uscita dal tunnel dello sfruttamento può essere l'educazione, la scuola.
L'educazione è la carta fondamentale per la prevenzione del disagio e per il suo superamento. Educare significa accogliere, ridare la parola e comprendere. Vuol dire aiutare i singoli a ritrovare se stessi; accomnarli con pazienza in un cammino di ricupero di valori e fiducia in sé. Nell'educazione emergono alcune urgenze: dare un senso alla vita, formare la coscienza, inculcare la solidarietà.
Purtroppo, anche in Italia il fenomeno dell'abbandono scolastico è ancora consistentemente elevato, nonostante una legislazione ben precisa che sancisce il diritto/obbligo allo studio fino alla terza media.
In Italia esiste comunque una legge del 1967 (n.977) sulla "Tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti" che fissa il limite di età in 15 e in alcuni casi in 14 anni. Impone che non venga trasgredito l'obbligo scolastico. Alla legge viene comunque rimproverata soprattutto la debolezza delle sanzioni previste.
Numerose sono anche le convenzioni internazionali in materia di lavoro minorile, fin da 1919. si può citare la "Convenzione dell'ILO sull'età minima di ammissione al lavoro n. 138 del 1973" e la Raccomandazione sull'Età minima n.146 che rappresenta lo strumento per l'applicazione generale della Convenzione. Anche in questo caso l'età minima stabilita rimane quella dei 15 anni. La Raccomandazione pone l'obiettivo di portare almeno a 16 anni l'età minima di ammissione al lavoro.
Molte iniziative sono state inoltre intraprese per combattere o per denunciare il lavoro minorile.
A prescindere dai reportages fotografici di denuncia, sono state organizzate delle manifestazioni come la "Marcia Globale" o Global March Against Child Labour che ha attraversato tutti i continenti coinvolgendo 97 paesi e 700 organizzazioni non governative, sindacati e associazioni.
Il "Consumo critico" è un'altra forma di autocoscienza che ci permette di favorire aziende che si comportano correttamente e punire in qualche modo anche le multinazionali come, la Nike, che producono indumenti e scarpe al prezzo della vita dei bambini del terzo mondo.
Ci sono stati, inoltre, dei tentativi di boicottaggio che però hanno prodotto più effetti negativi che positivi: il rifiuto, da parte di alcune ditte statunitensi, di acquistare prodotti costruiti da bambini in Pakistan ha spinto le fabbriche asiatiche a licenziare i bimbi che, senza sostentamento alcuno e senza un recupero organizzato, si sono ritrovati in strada a morire di fame.
E' necessario quindi un intervento articolato che si componga in una serie di momenti coordinati che vanno dal recupero dei piccoli, ad un loro acculturamento che preveda la presa di coscienza di una situazione degradata e infame ed infine ad un loro graduale reinserimento nel mondo del lavoro come adulti preparati ad affrontare la vita in modo diverso e più dignitoso.
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