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Pietà e amore per l'uomo risvegliano il senso critico: Ignazio Silone
Il pensiero politico
Il pensiero di Ignazio Silone dell'autore si polarizza intorno al suo socialismo. Il socialismo di Silone può definirsi come sensibilità sociale vibrante ed inquieta, che si manifesta dapprima, durante gli anni dell'adolescenza, nella forma emozionale della simpatia per il povero, poi si esprime nell'adesione al marxismo e nella lotta al fascismo; poi, dal '27 al '31 passa attraverso il ripensamento del comunismo, sboccando nel ripudio radicale di ogni totalitarismo e di ogni ideologia,
l'ideologia, che uccide l'idea, anzi, la 'passione'
(Vino e Pane)
In seguito, negli anni della guerra e del dopoguerra, pare collimare con il socialismo riformista, ma proposto in forma autonoma, rispettoso della religione e secondo una visione che si adegui con concretezza ai problemi italiani; da ultimo si definisce in una posizione dei strenua difesa della libertà o, meglio ancora, della dignità della persona umana, contro qualsiasi tipo di oppressione e di mortificazione, sia essa politica, economica, sociale o tecnologica, in un atteggiamento di ininterrotto allarme teso a scorgere e pronto a denunciare le insidie, da qualunque parte esse vengano e che possono covare anche entro sistemi con apparenze del tutto benefiche. Quest'ultima fase è stata vista da qualcuno come una sorta di sincretismo personale, in cui entrano l'educazione cristiana e l'esperienza marxista, nei due momenti dell'entusiastica partecipazione e della dolorosa rottura. I successivi atteggiamenti assunti dall'autore non sono segno di incertezza politica, di un'oscillazione o, tanto meno, di clamorosi voltafaccia, ma momenti di un processo spirituale, di approfondimenti, di chiarificazione di un ideale dapprima confusa e che progressivamente si decanta, liberando il suo nucleo di tollerante natura morale. Si tratta di un vero Itinerarium mentis in verum, documentato mediatamente nei romanzi e nei drammi, da Fontamara a L'avventura di un povero cristiano, immediatamente in Uscita di Sicurezza, attraverso una penetrante esplorazione della propria storia.
Il socialismo di Silone è dunque sorretto da una salda coscienza morale e sostanziale di religiosità cristiana. Il suo ideale socialista, infatti, si identifica con l'esigenza di estendere alla sfera pubblica i principi che presiedono nella contrada nativa alla morale familiare, limpida e onesta. Di conseguenza l'attività politica è sentita e vissuta dallo scrittore come doverosa partecipazione alla realtà sociale al fine di migliorarla, di combattere i soprusi, di rendere operante in essa il principio cristiano della fraternità. La sua concezione politica rientra in una visione religiosa della vita, da cui è indissociabile e in cui l'individuo è considerato parte integrante della società, con responsabilità e compiti inelusibili verso di essa. La politica dunque intesa come 'servizio sociale'. La dimensione religiosa in cui essa si colloca è spesso sottolineata dall'autore sia nei saggi sia nelle opere di fantasia, che presentano il ribelle politico come una nuova versione del monaco e dell'asceta medioevale, o del martire cristiano, spinto a testimoniare coraggiosamente il suo anelito alla libertà e alla giustizia in regime di oppressione:
la spiritualità di un serio movimento di popolo non si esaurisce mai nell'ideologia e chiunque voglia farsene una chiara nozione non deve limitarsi a osservare le sue insegne. Chi accetta questo criterio non troverà blasfema l'affermazione che gli uomini che un tempo dicevano no alla società e andavano nei conventi, adesso il più sovente finiscono fra i fautori della rivoluzione sociale (anche se in seguito essi rinnegano, o credono di rinnegare, la spinta d'origine).
La spinta morale che sorregge la vocazione politica di Silone è al fondo della dedizione e del disinteresse con cui egli l'ha sempre seguita e insieme delle difficoltà che la pratica gli ha opposto:
La politica è l'arte del possibile. La rottura è inevitabile, se diventa trasformismo o lotta senza scrupoli per il potere; ma una certa tensione, un certo contrasto sussiste sempre quando della politica si nutre un concetto fondato sopra un senso etico o religioso della vita.
Silone abbandona due volte la milizia politica proprio per la contraddizione che egli è andato scoprendo tra politica e morale o, meglio, tra esercizio della politica e convinzioni ideali (che vengono fatalmente subordinate e sacrificate a ragioni eteronome: l'interesse di un partito, di un gruppo, la potenza di uno stato), e due volte passa alla letteratura, vista non già come fuga, ma come 'la forma più libera e coerente e durevole' in cui possano essere soddisfatte 'quelle esigenze che avevano finito per concentrarsi nella lotta politica'. Ma con questo non ripudia né il socialismo ('la mia fiducia nel socialismo mi è rimasta più che mai viva), né la politica in sé, ma piuttosto rifiuta gli strumenti di cui i politici si valgono:
Il maledetto 'a fin di bene'. li miei, non lo dimenticate: c'è solo il bene puro e semplice; non c'è a fin di bene
La Poetica siloniana
Silone non ha sistemato la sua poetica in un coerente disegno di ragionamenti filosofici, ma ha chiarito la sua concezione dell'arte e annunciato i criteri informatori della sua opera di scrittori in una serie di osservazioni occasionali, premesse ad alcuni romanzi e drammi, o esposte in saggi, articoli, discorsi, interviste.
I problemi affrontati in questi documenti si possono indicare sommariamente nei seguenti:
a. il rapporto letteratura-politica o, più ampiamente, arte-società, e quindi l'impegno dello scrittore e, strettamente collegata con esso, la sua funzione;
b. il rapporto moralità-arte che ne discende;
c. l'oggetto dell'arte
a) L'evidenza e l'insistenza con cui Silone si pone il problema dell'impegno dello scrittore, si spiegano da una parte con la passione politica dell'autore, che si espresse nell'attività di militante e poi di giornalista e scrittore di irrinunciabile vocazione civile; dall'altra collocando la questione sullo sfondo di una polemica vivacissima sull'impegno dello scrittore, che ha visto schierato in campi opposti molti intellettuali. L'opinione di Silone, chiaramente ed energicamente definita dallo stesso in carie occasioni, può essere sintetizzata con le parole della 'Nota' premessa a Vino e Pane:
Di tutte le chiacchiere scritte sul cosiddetto 'impegno' degli artisti, che cosa rimane? Il solo 'impegno' degno di rispetto è quello che risponde ad una vocazione personale.
A un'osservazione del critico F. Virdia, nel 1967, Silone indica quello che chiama 'il dovere dello scrittore' in generale (la sincerità è il suo primo dovere), precisa la sua particolare concezione sulle relazione fra letteratura e politica e, di conseguenza, la posizione da lui costantemente tenuta nella pratica dello scrivere, e infine denuncia l'equivoco della critica marxista:
Personalmente io mi sono sempre sentito impegnato nel senso più rigoroso che il termine ha nel gergo del Monte di Pietà [ . ] Ho sempre riprovato del concetto di impegno di Sartre o dei comunisti l'errore di farne una norma e un giudizio di valore. Si è visto a quali disastrose conseguenze conduce una tale aberrazione, quando tale norma diventa legge dello Stato, com'è avvenuto nei paesi oltrecortina.
Silone vuole farci intendere questo: in lui la vocazione di scrittore si identifica con la vocazione sociale-politica, ma egli è ben lungi dal pretendere che anche per gli altri i due fatti vengano a coincidere. Silone afferma la totale libertà dell'individuo:
Non credo raccomandabile indurre altri scrittori, che spontaneamente non se la sentono, ad attenersi al medesimo criterio. Ogni scrittore deve esprimersi con la sua voce: non deve parlare o cantare in falsetto.
E' dunque affermata l'autonomia dell'arte, condizione indispensabile per l'autenticità e validità dell'opera letteraria, così com'è proclamato il dovere che ha una società verso i suoi artisti di rispettarne la sincerità. Silone invita lo scrittore a un esame di coscienza, a cercare in sé i motivi di fondo del nichilismo della nostra epoca, nella quale l'intelligenza viene separata dalla morale, a mettere in discussione se stesso. Solo così lo scrittore potrà riprendere nelle società quella funzione di guida che ha spesso tradito, avido di popolarità e di successo, e che consiste nell'illuminare l'opinione pubblica sulle questioni da esso studiate e approfondite. Silone è convinto che la letteratura ha una sua dignità e potenza che deve conservare, e lo può soltanto a patto di non servire altra causa che quella della verità.
b) Per questa via è anche risolto, d'istinto, il problema del rapporto moralità-poesia, che si ristabilisce fra i due valori un circuito che pare interrotto da tanta letteratura contemporanea. E di natura sostanzialmente morale sono i termini stessi con cui Silone imposta e conduce tutto il suo discorso teorico: si parla di 'dovere', 'dovere morale' dello scrittore, e non di 'obbligo', e si qualifica 'umile e coraggioso' il servizio della verità. La letteratura, l'arte, come la cultura, sono pertanto ricollegate alla loro vera radice: l'eticità dell'artista. Illuminante a questo proposito è un passo del saggio 'La scelta dei Comni':
La parola intellettuale io l'uso in senso preciso: indico così tutti coloro che contribuiscono alla formazione di una coscienza critica in seno alla loro epoca.
In esso, in base al principio della libertà dell'arte, prima di giudicare caduca e provvisoria la visione nichilistica dell'uomo d'oggi, quale ci è presentata da scrittori e artisti, l'autore intesse per un certo verso l'elogio degli stessi, perché ne ammira la sincerità 'senza la quale non esiste né moralità né arte', e riconosce loro il merito di porre l'uomo davanti a se stesso. Ma, d'altra parte, considerando i risultati, constata che nella situazione nichilista 'né la letteratura né le arti urative possono prendere dimora stabile'. E propone come via d'uscita a questa situazione 'l'esplorare coraggiosamente l'intera superficie' per ritrovare 'un qualche valido senso dell'umano'.
c) L'oggetto dell'arte si può facilmente ricavare dalle proposizioni precedenti: ciò che lo scrittore sente con sincerità e con passione e conosce a fondo: il mondo dei suoi interessi, problemi, sentimenti. Per quanto lo riguarda personalmente, Silone dice:
la sola realtà che veramente mi ha sempre interessato è la condizione dell'uomo nell'ingranaggio del mondo attuale, in qualunque sua latitudine o meridiano. E naturalmente mi sento, ovunque, dalla parte dell'uomo e non dell'ingranaggio. Se i miei personaggi sono più sovente contadini poveri, intellettuali e preti inquieti, burocrati di opposti apparati e se si muovono in un paesaggio arido, ciò non accade per la mia predilezione di un certo colore locale. Questa è la realtà che meglio conosco: la porto, per così dire, in me stesso, e in essa la condizione umana del nostro tempo mi appare più spoglia, quasi a nudo.
Al centro dell'interesse siloniano è l'uomo nel suo rapporto con gli altri: rapporto difficile, spesso tragico, ma che coinvolge la nostra responsabilità di uomini d'oggi. Questo rapporto è studiato preferibilmente nell'ambiente che l'autore ha più familiare, in una 'contrada' a lui 'ben nota': la sua terra d'origine; ed è riflesso nelle situazioni dei personaggi dei romanzi e nelle reazioni del protagonista, in cui l'autore trasfonde tanta parte di sé e che rimane sostanzialmente lo stesso anche sotto nomi diversi e con quelle modifiche che il variare delle situazioni comporta e l'evolversi dello spirito dello scrittore impone:
La Storia di Pietro Spina in Vino e Pane, di Rocco in Una manciata di more, di Andrea in Il Segreto di Luca sono una filiazione dello Sconosciuto che fa la sua apparizione prima nell'episodio di Fontamara
E a giustificare questa continuità Silone aggiunge:
Se fosse in mio potere di cambiare le leggi mercantili della società letteraria, io potrei benissimo trascorrere la mia esistenza a riscrivere sempre con la stessa storia, nella speranza che così finirei col capirla e col farla capire, allo stesso modo come nel Medio Evo vi erano dei monaci che passavano l'intera esistenza a dipingere sempre da capo il Volto Santo
E in Uscita di Sicurezza:
il bisogno di capire, di rendermi conto, di confrontare il senso dell'azione, in cui mi trovavo impegnato, con i motivi iniziali dell'adesione al movimento, si è impossessato interamente di me e non m'ha dato tregua e pace. E se la mia opera letteraria ha un senso in ultima analisi, è proprio in ciò: a un certo momento scrivere ha significato per me assoluta necessità di testimoniare, bisogno inderogabile di liberarmi da un'ossessione.
Lo scrivere diventa per questa via, nella ricerca di una ragione e di una giustificazione al nostro agire, anche la liberazione da un'ossessione e, insieme, testimonianza di una verità acquisita attraverso l'esperienza di vita.
Ora possiamo passare ad esaminare più nel dettaglio l'opera di Silone. Moltissimi dei tanti lavori dello scrittore abruzzese meriterebbero di essere esaminati con attenzione, ma per non uscire dagli spazi che richiede un lavoro come quello che sto affrontando, mi limiterò ad analizzarne solo i principali, omettendo estesi riassunti delle trame delle opere in esame.
Fontamara
La trama del romanzo è data dai fatti che si svolgono a Fontamara, piccolo borgo montano d'Abruzzo, nel corso del decennio Venti-Trenta, quando ai mali antichi della miseria e della fame se ne aggiungono dei nuovi legati all'oppressione fascista. La dittatura aggrava, con il sopruso legalizzato, un destino di ingiustizie economiche e sociali a cui il paese pare condannato, segnandone l'atto finale nello sterminio e nella dispersione degli abitanti.
La storia dei Fontamaresi vuol essere la denuncia dolorosa e forte di una miseria e di un sopruso sofferti dai poveri cafoni marsicani e, in genere, meridionali, sotto il fascismo. Ma il suo significato politico e sociale può essere più vasto: vi si potrebbe vedere, come ha fatto Lewis, una parabola dell'urto fra le comunità contadine più povere e remote, di qualunque paese o continente, e la politica, anzi la storia dei nostri tempi, che le raggiunge, ma solo per devastarle.
Né meno importatene il significato morale: implicito nel risentimento dell'autore di fronte all'iniquità, risentimento che si manifesta nelle forme della pena e del sarcasmo, diventa esplicito nel tono epico che via via assume il racconto: da esso esce l'immagine di un'umanità primitiva e rozza, ma capace di virtù eroiche. E qui è anche l'aspetto etico-religioso della vicenda: nel saper ritrovare la coerenza con se stessi e, più ancora, nell'aprirsi alla realtà degli altri, in questo 'perdersi per salvarsi', in questo abbandonare i propri pregiudizi ideologici. Il messaggio del libro è calato in un preciso contesto storico e ambientale, il ventennio fascista e la realtà italiana. Del fascismo è evidenziato l'aspetto sopraffattore, violento e beffardo, d'arbitrio legalizzato, che sfrutta la connivenza dei pavidi e dei pigri intellettualmente; sono descritte alcune tipiche manifestazioni, ora di imbonimento, intese a stordire i perplessi, ora di intimidazione, volte a far tacere i nemici; ed è messa in luce la tendenza a esercitare un controllo sempre più capillare sul cittadino, a irretirlo nelle maglie della burocrazia.
Non vediamo i gerarchi, le grosse autorità, se non una volta di sfuggita. Davanti a noi sta concretamente solo la ura dell'Impresario, che è il simbolo stesso dell'autorità che prevarica, sfrontata e spregiudicata. Incontriamo invece spesso i piccoli zelanti esecutori degli ordini impartiti da questa: ipocriti come Innocenzo la Legge, o viscidi, come il cav. Pelino.
L'ambiente, la Marsica, è presente con la topografia dei suoi villaggi abbarbicati sui cocuzzoli dei colli, l'anfiteatro dei monti aspri e solenni, la piana rigogliosa, strappata alla palude, di cui a godere i frutti migliori sono gli altri, quelli venuti da fuori, i Torlonia, non gli abitanti. Ma, ancora più, la realtà regionale si riflette nella visione della vita dei cafoni. Silone avverte che il paesaggio non ha quel volto idilliaco e pittoresco che attribuisce al Mezzogiorno tanta letteratura celebrativa ad uso dei turisti stranieri. Il quadro è invece scabro e amaro, ritratto a linee dure e a colori cupi e in formi adeguate alla psicologia dei contadini, che non ne danno mai una visione panoramica, ma solo una descrizione per così dire a frammenti. Il paesaggio è parte integrante della vita che i Fontamaresi conducono.
L'azione è corale: vi partecipa come soggetto o come oggetto una popolazione intera. Tutta Fontamara è protagonista della vicenda. Dal coro si staccano alcuni personaggi che hanno però scarso rilievo: sono macchiette o tipi, più che caratteri bene individuati. Basta del resto pensare ai nomi: Ponzio Pilato, Papafasio, Teofilo; soprannomi, per lo più, come si usa nei paesi, ma riferibili a note di carattere che sono di tutta una categoria.
L'unico vero personaggio maschile è Berardo Viola, come l'unico tra quelli femminili è Elvira, comprimaria dell'azione, ma complementare a Berardo. La ura della madre Maria Rosa ha un ruolo subordinato alle altre due: illumina l'ostinazione e il coraggio del lio con il suo tormento e insieme orgoglio di madre, e fa risaltare anche più il difficile amore di Elvira, mettendolo alla prova con la sua indifferenza. Berardo è l'eroe dei Fontamarsi, l'anima della ribellione. Il destino tragico di famiglia e l'indole selvatica e violenta lo predispongono a una vita irta di difficoltà, che egli affronta con la tempra del lottatore. Alla vigoria fisica, motivo di profonda ammirazione in paese e che ha una dimostrazione vistosa nell'episodio romano del sollevamento di un pesante automezzo, alla resistenza indomita alla fatica, che fa di lui un lavoratore d'eccezione in cerca di prove sempre più ardue, corrispondono ad una forza d'animo, una risolutezza ed una tenacia innegabili di fronte alla malignità della fortuna e alla malvagità degli uomini. Così l'alluvione che gli travolge il campicello, proprio quando comincia a verdeggiare delle prime piantine di mais, strappate alla terra a prezzo di sforzi e rinunce disumane, lo trova rassegnato e preparato, come una fatalità prevista.
Ecco, ecco; Naturalmente, naturalmente.
Queste sono le sole parole di commento al disastro, come se intendesse che la sventura è naturale, inseparabile comna dei poveri e dei forti. E allo stesso modo, alla fine della storia, le torture e le percosse delle squadracce fasciste non riescono a farlo deflettere da una linea di condotta, che segue in un primo momento solo per suggestione del comno di cella, ma che si impone poi per libera scelta, quando gli mostrano una stampa recante il suo nome e l'annuncio della morte dell'amata.
Questa volontà di lotta Berardo la trae, più che da una coscienza sociale, da due forze; l'attaccamento alla terra e l'amore per Elvira. Berardo ritiene che il cafone senza terra non sia un uomo: la proprietà è vista come il segno della dignità dell'uomo, della sua capacità di lavorare, di costruire qualcosa di suo e sul suo, di mettere da parte e di saper conservare quello che il padre gli ha lasciato. E' una convinzione radicata nella mentalità del contadino abruzzese. Berardo non possiede più il podere paterno: deciso a emigrare, lo ha venduto per arsi il viaggio in America. Bloccata l'emigrazione, non riesce ad entrarne in possesso, perché chi l'ha comperato, soddisfatto del buon affare, non intende rivenderlo. Ma Berardo non si rassegna a fare il bracciante. Da questa situazione nasce in lui il risentimento verso il ricco che specula sul povero, l'insofferenza dell'oppresso, il dramma dell'innamorato che senza avere del proprio non ritiene decoroso chiedere la mano della fanciulla più belle e virtuosa del paese.
L'amore in Berardo è un sentimento ardente e chiuso, violento nella gelosia verso chi osa mettere gli occhi su Elvira, ma pieno di rispetto e delicato, come non ci si aspetterebbe da un omaccione così rude, nei confronti della donna prescelta, che ama con tenerezza e devozione, al pinto di abbandonare prima la lotta rivoluzionaria tra i Fontamaresi per trovare un lavoro più remunerato in città, ma anche, in seguito, al punto di andare al martirio, quando Elvira non c'è più. La fedeltà all'ideale, dia pure un po' confuso in lui, del riscatto sociale e la fedeltà a Elvira paiono a un certo punto porsi in antitesi fra loro. Ma il contrasto, nato da ragioni pratiche, cade sul terreno ideale. E' Elvira stessa a conciliare i due termini, dissipando l'equivoco, quando dichiara a Berardo che lo ama proprio per il suo coraggioso anticonformismo e le fa dispiacere che per lei abbandoni i comni nel momento cruciale:
Se è per me che ti comporti in quel modo, ricordati che io cominciai a volerti bene, quando mi raccontarono che tu ragionavi nel modo contrario
Berardo al momento non ascolta le parole di Elvira, che commuovono tuttavia il suo animo, poiché è risoluto a trasferirsi in città per mettere insieme la somma che gli consenta di formarsi una famiglia. Ma sotto il calore di quella rivelazione di Elvira tornerà fra gli ostacoli a rifiorire in lui il germe della ribellione. Quindi la passione d'amore conferisce al personaggio una nota patetica, ma insieme ne approfondisce l'aspetto eroico e diventa così la voce più autentica della stessa coscienza di Berardo.
Per Elvira la fedeltà a un sentimento, a un'idea, al di sopra dell'interesse particolare è condizione di salvezza per l'uomo. E perché il fidanzato ritrovi la coerenza ai principi, Elvira offre la sua vita alla Madonna, che accetta l'offerta ed esaudisce la preghiera. Berardo, arrestato per caso nel suo girovagare per la capitale alla ricerca disperata di un'occupazione negata, con beffarda insistenza, dagli uffici di collocamento, gradualmente si esalta alle parole del comno di cella, un attivista di Avezzano, e dichiara al commissario di essere lui il pericoloso individuo, ricercato dalla polizia, autore di atti di sabotaggio e di proanda sovversiva, che si fa chiamare il Solito Sconosciuto. Il fontamarese si lascia quindi torturare e uccidere fingendosi il Solito Sconosciuto, e porta in questa sua determinazione non tanto la voluttà della morte, del farla finita, come sbocco disperato alla persecuzione e alla sfortuna per il povero, quanto l'intuizione del valore che il suo gesto può avere, di testimonianza eroica, attiva e operante tra quelli che restano. Così Berardo che potrebbe salvare la vita nel dichiarare semplicemente la sua identità, la perde per l'ostinazione a negarla. Ma nella visione a cui egli è approdato i due termini, salvezza e rovina, sono rovesciati, come per Elvira. Berardo si salva, cioè salve se stesso come uomo, proprio perché muore per gli altri: salvare la vita sarebbe tradire gli altri e se stessi.
Vino e Pane
L'interesse del romanzo è innanzi tutto autobiografico. Pietro Spina è l'alter ego di Silone, il quale di fatto non lasciò l'esilio in terra straniera se non alla caduta del fascismo, ma immagina di ritornare nella Marsica per sollevare i cafoni, per organizzare una 'seconda rivoluzione' che rovesci la dittatura e instauri un regime 'a immagine dell'uomo'.
In questa finzione confluisce l'esperienza clandestina anteriore all'emigrazione, la nostalgia del paese natio, l'insofferenza dell'inerzia forzata. Ma c'è dell'altro. Il rivoluzionario che torna in Abruzzo non è più il comunista di stretta osservanza. Le accese e amare discussioni con i comni marxisti e il diario segreto intitolato 'Colloqui con Cristina' rivelano una crisi non solo in atto, ma già matura per una decisione: il distacco dal partito, alle cui direttive non si sente di conformarsi. Gli ripugna sottoscrivere la condanna di Bukarin solo perché questi non fa più parte della maggioranza, e non gli sembra serio esprimere un giudizio favorevole alla politica agraria russa, senza prima avere piena conoscenza della questione. Ma a chiarire i suoi rapporti con il partito e le motivazioni più vere della sua lotta è proprio la ripresa di un contatto più stretto con la sua gente. Quel contatto lo riporta a se stesso. Il ritorno assume allora una giustificazione più profonda:
Parve quindi a Don Paolo che il suo ritorno in Italia fosse stato, in fondo, un tentativo di sfuggire a quel professionismo rivoluzionario, di tornare nei ranghi, di ritrovare, a ritroso, il bandolo dell'intricata matassa.
Passando le vie di Orta, rivede il momento dell'addio alla società borghese. Non ha rimpianti: il suo cuore se ne è distaccato da tempo:
ho rivisto le spelonche dell'egoismo e dell'ipocrisia da cui fuggi. Mi sono sentito come un morto in transito nel paesaggio della sua vita precedente.
Però, ricorda la prima entrata in un circolo socialista, il distacco dalla Chiesa, il passaggio al marxismo, accettato come 'regola della nuova comunità', riflette su quello che era diventata quella comunità: una 'sinagoga', e conclude:
Tristezza di tutte le imprese che hanno come scopo dichiarato la salvezza del mondo. Paiono le trappole più sicure per perdere se stesso.
Il ritorno sollecita una risposta coraggiosa alla domanda piena d'angoscia: 'sono stato fedele alla promessa?' e inoltre lo induce a misurare le aspirazioni ideali sulla realtà. Il compito che egli si propone si rivela duro, difficile. La società contadina è immatura: si lagna dei soprusi, ma è rassegnata alla miseria e all'ingiustizia, come a legge fatale, che ha gravato da sempre sull'esistenza dei cafoni, e accoglie l'ideale di Pietro con scetticismo, come un 'sogno', bello, ma sempre un sogno. Il mondo degli studenti, borghesi o di più umile estrazione, se pur scosso da fremiti di scontento e anelante alla 'seconda rivoluzione', si lascia facilmente frastornare dalla proanda fascista e affascinare da mete meno rischiose, più vicine e proficue. Su tutti gli altri ha presa l'acquiescenza, consigliata dal 'particulare', e grava la paura della persecuzione. I comni di partito o si sono piegati acriticamente alle direttive dall'altro o hanno smesso di fare politica attiva. In questo clima Pietro attraversa momenti di grande sconforto, piange, rabbrividisce, quando ascolta i discorsi dei poveri e dei meno poveri. La sua parola cade al vento o sulla roccia o tra le spine. Egli scrive sul suo diario che i cafoni sono inaccessibili alla politica, ma poi aggiunge: 'Forse essi hanno ragione'. Questo gli insegna la nuova esperienza: continuare a lottare, anche nel momento in cui si avverte più cupo il senso della solitudine perché 'noi siamo responsabili anche per gli altri', ma trovare nuove forme di lotta: non predicare una dottrina, bensì capire gli oppressi e aiutarli a capire, spingerli a pensare non solo al loro piccolo pezzo di terra, sebbene essi si rifiutino di farlo, persuasi che, tanto, non serve; risvegliare insomma delle coscienze, aiutare i diseredati ad umanizzarsi.
La missione del socialista non è tanto diversa da quella del sacerdote: don Benedetto dice di lui che 'il socialismo è il suo modo di servire Dio'. Il travestimento da prete, a cui Pietro fa ricorso come l'espediente più spiccio e meno rischioso per sfuggire alla cattura, finisce per diventare il segno esteriore di una vocazione missionaria. Se per Pietro c'è stata ribellione e c'è tuttora dissenso, essi riguardano la Chiesa storica, quella che tante volte ha prestato mano alla classe dominante e che 'si è identificata con la società corrotta'. La maggior differenza tra un certo tipo di preti e don Paolo Spada
consiste nel fatto che essi credono in un Dio domiciliato sopra le nuvole, seduto sopra una poltrona dorata, e vecchissimo.
mentre lui è persuaso che 'Egli sia un ragazzo veramente in gamba e sempre in giro per il mondo'. Anche se la sua religiosità si muove in una dimensione terrestre, il segno è tuttavia incancellabile. Pietro se ne rende conto particolarmente negli ultimi moduli del romanzo, nei dialoghi con don Benedetto o Cristina, quei pochi che lo aiutano a perseverare nella sua ricerca, in mezzo a tanto cinismo: il vecchio professore di latino e greco, con la fede e la coerenza che gli sono costate la sospensione a divinis, la giovinetta lia di possidenti, con la sua ansia di bene, il suo candore e il suo ardore. Scrive a Cristina:
non potremmo rimanere inattivi e consolarci con l'attesa di un mondo ultraterreno. Il male da combattere non è quella triste astrazione che si chiama il Diavolo; il male è tutto ciò che impedisce a milioni di uomini di umanizzarsi. Anche noi ne siamo direttamente responsabili. Vita spirituale e vita sicura non stanno assieme. Per salvarsi bisogna rischiare.
La Scuola dei Dittatori
La passione per la libertà, che anima i primi due libri di Silone, dà vita anche al terzo, scritto nel '37-'38.C'è un rapporto stretto fra questo saggio e i romanzi che lo precedono: il motivo d'ispirazione è il medesimo, ine di saggistica sono frequenti in Vino e Pane e non mancano, anche se in forma elementare, in Fontamara. E insieme c'è uno svolgimento: La Scuola dei Dittatori segna lo spostarsi deciso dell'obiettivo sull'altro termine del contrasto, dal dramma dei Fontamaresi, dal travaglio di Pietro Spina, dalle vittime, cioè, ai soverchiatori, ai dittatori e al regime dittatoriale, analizzato nel suo formarsi e affermarsi. Il saggio, inoltre, rispecchia l'esigenza dell'autore di dare più ampio respiro al dibattito politico, presente nei romanzi, ma contenuto per ragioni artistiche.
In primo piano sono qui fascismo e nazismo, ma la panoramica del libro abbraccia tutti i regimi, dell'Est e dell'Ovest, che, sotto diverse etichette, hanno in comune il denominatore del totalitarismo. A Mr Doppio Vu che gli chiede:
Perché così di frequente, invece di fascismo, dite totalitarismo? Forse per non far torto ai comunisti?
Tommaso il Cinico-Silone risponde:
Per l'appunto. Ma anche per un giusto riguardo alle possibilità dittatoriali di qualche audace gruppo democratico o liberale.
La materia del dialogo si può articolare, seguendo la falsariga tenuta dal Prof. Pick Up, attorno a due nuclei: a) come si sono formate le dittature;
b) chi sono i dittatori e con quali arti sono venuti al potere.
a) Esaminando la situazione italiana dopo la prima guerra mondiale e quella tedesca alla vigilia della presa del potere nazista Tommaso mette in luce i fattori che preparano e promuovono l'avvento del totalitarismo. Essi sono:
la crisi della democrazia, con il degenerarsi di alcuni aspetti delle sue stesse istituzioni. Il logorarsi del regime parlamentare, il decadere della funzione legislativa, spesso ridotta a dibattito inconcludente, la caduta del livello morale degli eletti, la tendenza generale allo statalismo, alla centralizzazione del potere nelle mani di uno Stato-Provvidenza.
l'inettitudine del Partito d'opposizione, nei casi esaminati del socialismo, a sfruttare a proprio vantaggio la crisi dello Stato, ad attirare a sé le masse.
l'inefficienza dei Partiti al potere, della classe dirigente che, per la sua posizione conservatrice, non è in grado di fronteggiare una situazione d'emergenza; la mancanza di dinamismo, l'incapacità di infondere alle istituzioni ideali nuovi. Dall'altra parte la debolezza verso i centri di potere sempre più autonomi, il timore di osteggiare radicalmente la violenza, quando questa comincia a manifestarsi.
In queste condizioni matura il colpo di Stato, che deve essere appoggiato dall'esercito. Ma la condizione fondamentale è la disponibilità delle masse, non educate al culto della libertà e della democrazia, e quindi pronte ad abboccare a nuovi slogans.
b) Delineando la ura del dittatore, di cui si traccia anche una biografia indicativa, Tommasi individua la caratteristica inconfondibile nella esclusiva e sfrenata passione di dominare, nella quale trovano compenso altre frustrazioni. Alla libido dominandi si accomnano di solito velleità artistiche e letterarie. Tommaso gli attribuisce quelle che sarebbero solo forme inferiori dell'intelligenza: la furbizia e la scaltrezza; ma soprattutto ne fa dipendere la grandezza esclusivamente dal favore delle masse. Il successo del dittatore è legato pertanto alla sua capacità di suggestione, che a sua volta dipende dal potere di autosuggestione, e che egli eserciterà adoperando l'identificazione delle speranze del popolo con i suoi programmi e con l'ispirare un credo, una mistica, un culto, con riti, simboli e feticci.
Quanto alle arti da impiegare, il dittatore, prima di tutto, non avrà programmi. La sua sarà la politica del possibile, saprà trasformarsi secondo le esigenze del momento. Unica regola che dovrà seguire con rigore sarà quella di impedire la discussione, essendo il dubbio il nemico del totalitarismo.
L'interesse del saggio sta nella ricostruzione pacata e lucida degli eventi dai quali germinarono fascismo, nazismo e comunismo, ma soprattutto nella diagnosi acutissima dei mali che la democrazia porta in sé, nelle stesse istituzioni, che possono, degenerando, assumere una pericolosità mortale, e inoltre nell'evidenza data alla forza che le masse rappresentano nella civiltà di oggi e al ruolo decisivo che hanno nel gioco politico, con il loro numero e la loro disponibilità, là dove non siano state educate al culto degli ideali democratici, primo fra tutti quello della libertà:
Il numero senza la coscienza è zavorra servibile a tutti gli usi personalistici.
Le dittature infatti trovano la materia a cui imprimere la loro forma nei popoli stanchi dell'inefficienza di un regime democratico e pronti a seguire l'uomo che ne catalizzi le energie, accendendone l'immaginazione e accogliendone aspirazioni e speranza.
Sono ine di impressionante attualità, come mirabilmente divinatorie sono quelle dell'ultimo modulo, sia dove, parlando della fine della dittatura, tra le possibili occasioni l'autore pone in primo piano la guerra, calamità dei dittatori (ricordo che il libro è del '38), sia, ancor più in là, dove prevede, dopo la dittatura, la difficoltà a organizzare la politica in forme veramente libere. Dal canto suo Tommaso, pur ammettendo di fare 'congetture astratte', auspica l'approdo a un umanesimo libertario, che liberi l'odierna civiltà di massa dall'eccesso di statalismo.
Nelle prime ine, tra gli esuli che furono creatori di scienza politica, Tommaso cita per primo Machiavelli. Il riferimento può essere interessante per rilevare, in un abbozzo di confronto, alcuni caratteri di questo trattatello di Silone, tanto più che l'accostamento tra i due scrittori è diventato un luogo obbligato della critica. Al Principe può richiamarsi, in parte, lo schema del dialogo, ma ancor più il metodo di lavoro dell'autore, che trae, per così dire, leggi generali sulla formazione del totalitarismo, partendo dalla 'verità effettuale', dallo studio delle simulazioni e dei fatti relativi alla storia del fascismo e del nazismo, integrato da richiami alle tirannidi dell'antica Grecia, ai colpi di stato dell'Ottocento e del Novecento in Europa e in America, che possono servire a confermare una legge o a illustrare le varianti di un fenomeno.
Dal Principe l'opera si stacca tuttavia per molti caratteri fra cui la forma dialogica di tono conversativo, l'ironia di cui il discorso è screziato, il fatto che all'osservazione lucida degli eventi politici, diplomatici e militari si unisce una viva attenzione all'aspetto economico e sociale e la conoscenza, oltre che della politica, della sociologia, della psicologia e ella psicanalisi, integrate da nozioni di antropologia ed etnografia, il complesso cioè delle nuove scienze che permettono non solo di sondare l'animo degli individui, ma anche di penetrare negli istinti e negli umori delle masse, di quel popolo che per il Principe è vulgo, strumento passivo di dominio, per il dittatore è l'elemento da cui egli trae la sua forza.
Ma ciò che discrimina in maniera sostanziale le due opere è la condanna, da parte di Silone, della visione politica come arte, come tecnica:
La tendenza a considerare la politica come mera tecnica è un residuo intellettuale del Rinascimento.
Una frase che nel contesto della ina in cui è inserita trova il suo chiarimento nell'opposizione scienza-istinto; l'istinto, che per un uomo politico, un dittatore, vale, ai fini pratici, più della scienza, ma nel contesto dell'intera opera siloniana assume il significato di un rifiuto a subordinare l'uomo allo Stato. Senza contare che quello stesso partire dalla verità effettuale per rievocare la serie degli eventi, cogliendone il rapporto causa-effetto, e più ancora l'indagare la personalità dei capi e dei loro gregari e le reazioni dei popoli risponde in Silone a un bisogno fondamentale: quello di capire e di chiarire come e perché i popoli perdano la libertà, chi siano i dittatori coi quali a un certo momento le masse si identificano, a che cosa debbano la loro fortuna. Così se il fine dichiarato dallo scrittore è di insegnare ai capi come instaurare una dittature, il fine vero viene a coincidere con quello del manuale di Tommaso, che vuole mettere in guardia i cittadini dai pericoli che insidiano un paese libero, dalle facili tentazioni e dalle esaltazioni collettive.
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