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RUANDA
RICOMINCIARE DA ZERO
SOMMARIO
Introduzione
Costruire nel vuoto: intervista a Nigel
Cantwell (consulente UNICEF ICDC Firenze, autore dello studio sul Ruanda) -
Fare le cose nel modo giusto, ancora più che fare le cose giuste: questo
il senso del lavoro fatto in Ruanda secondo lo spirito della Convenzione per
ricostruire il futuro dei bambini.
Ritornare a casa
Durante il genocidio
è stato necessario che i bambini i pericolo di vita venissero trasferiti
all'estero, anche se la scelta di separarli dalle famiglie può
rappresentare una ferita molto profonda.
A scuola tutti assieme
Ritornare a scuola
non è facile per i bambini ruandesi. Pochi gli insegnanti, scarsi i
materiali didattici; eppure la scuola può aiutare a conoscere e capire,
soprattutto se nei curriculum scolastici vengono inseriti programmi di
educazione alla pace.
Senza famiglia
Sembra un tempo
lontano quello in cui il bambino ruandese aveva un ruolo centrale nella
società. La famiglia tradizionale ma anche quella allargata sono
istituzioni in crisi, distrutte dal genocidio. Come ricostruire una convivenza
civile attraverso le basi etiche della società. Per prima cosa dare
corso alla giustizia.
Senza libertà
Il dramma dei bambini
in carcere: perché colpevoli dei crimini del genocidio o perché li di
detenute. Il difficile ritorno alla normalità dei bambini soldato.
Dopo l'emergenza
Difficoltà e risultati positivi nella fase della ricostruzione. Il ruolo dell'UNICEF.
INTRODUZIONE
In poco più di 100 giorni, tra aprile e giugno del 1994, in Ruanda sono
state uccise un milione di persone, per la stragrande maggioranza tutsi e hutu
moderati. Si è trattato di un genocidio annunciato perché preparato nel
tempo, alimentato da una proanda implacabile che, attraverso una strategia tutt'altro
che irrazionale, è stata in grado di trasformare anche il più
pacifico dei contadini hutu in un carnefice. Quello ruandese è forse
l'esempio più recente e più 'riuscito' di come il
costante lavoro ai fianchi per muovere odio e paura contro un nemico riesca a
spingere intere popolazioni abituate per secoli a convivere l'una contro
l'altra. La storia di questo piccolo paese nel cuore dell'Africa dei Grandi
Laghi può oggi essere riletta risalendo indietro nel tempo, alle origini
di una contrapposizione etnica prepotentemente voluta e sollecitata dai
tedeschi e dai belgi colonizzatori del Ruanda e del Burundi, inventori del mito
di una presunta superiorità razziale dei tutsi rispetto agli hutu. Su
questa strumentale invenzione si sono basate la colonizzazione e
l'evangelizzazione europee che, con la stessa facilità con cui avevano
in un primo momento favorito la minoranza tutsi, non esitarono a voltargli le
spalle quando essa si fece promotrice di istanze indipendentiste. Si era alla
fine degli anni 50 e tutta l'Africa era attraversata da fermenti e ribellioni
anticoloniali. Al termine di questo periodo molti paesi africani avrebbero
raggiunto l'indipendenza dalla madrepatria. Per i belgi appoggiare le
organizzazioni e i giornali hutu che tuonavano contro la supremazia razziale
tutsi era un modo di esorcizzare lo spettro dell'indipendenza. Pur di rimandare
questa eventualità andava bene sponsorizzare un nuovo mito, quello degli
hutu come razza maggioritaria e originaria della regione (in netta contrapposizione
peraltro con quanto inventato decenni prima, a proposito dell'origine abissina
dei tutsi, alti, di pigmentazione chiara e dal portamento aristocratico).
La cosiddetta riscossa hutu si scatena nel 1959 supportata non solo da motivi
etnici ma anche economici e sociali; del resto la maggioranza dei conflitti del
continente africano, oggi come ieri, nasce quando intere fasce della
popolazione o intere regioni non hanno accesso alle risorse e al potere. Le
ragioni etniche fungono solo da catalizzatore, il più efficace, della
violenza omicida. In quell'anno i tutsi vennero perseguitati con la stessa foga
sanguinaria del 1994, eccezion fatta per i bambini che verranno invece
trucidati senza pietà trent'anni dopo. Dal 1962, anno dell'indipendenza
dal Belgio, alla notte del 6 aprile del 1994, quando è cominciato il
genocidio, la camna contro i tutsi non è mai cessata. Quelli che
infatti erano riusciti a scappare oltre confine (circa 200.000) per fuggire al
massacro del '59 non avevano alcuna intenzione di restare esuli a vita. Molti
di loro dopo essersi fatti le ossa nelle file dell'esercito ugandese fondarono
il Rwandan Patriotic Front (RPF) con il fermo obiettivo di tornare a casa.
All'RPF aderirono numerosi hutu moderati oppositori del regime del generale
Juvenal Habyarimana. Habyarimana, salito al potere nel 1973 dopo un colpo di
stato, per tentare di rimettere ordine nel paese sconvolto da pogrom frequenti
contro i pochi tutsi rimasti, non spinse l'acceleratore della 'soluzione
finale' dell'odiata etnia ma suonò le corde dell'unità
nazionale. Si limitò ad agitare lo spauracchio - peraltro sempre
più concreto - del ritorno dei tutsi per deviare il malcontento popolare
verso un obiettivo sicuro. Gli anni 70 hanno infatti segnato l'inizio di una
crisi economica senza pari, culminata con il crollo del prezzo del caffè
(1989) che rappresentava il 75% del reddito da esportazione. Concretamente
ciò significò in un'economia prevalentemente agricola la fame per
migliaia di contadini. Il tutto avveniva mentre l'élite di potere che ruotava
attorno alla famiglia e agli amici del Presidente dilapidava non solo le casse
dello Stato ma anche il denaro inviato dalle organizzazioni internazionali per
lo sviluppo. L'invasione del nord del paese da parte del Fronte patriottico
ruandese (1990) innescò una crisi che indusse il presidente ad
accelerare il processo di riforma politica costretto a modificare la
costituzione in senso multipartitico. L'apertura verso la democrazia era del
resto iniziata a seguito delle forti pressioni internazionali; molti paesi
donatori infatti avevano chiuso i cordoni della borsa perché il governo di
Kigali non dava garanzie sufficienti di stabilità e democrazia. Gli
Accordi di pace di Arusha, in Tanzania siglati dalle parti nell'estate del 1993
prevedevano, tra le altre clausole, un ridimensionamento dei poteri
presidenziali e la integrazione dei ribelli dell'RFP nelle file dell'esercito
ruandese. Il processo di pace non ha avuto il tempo di decollare perché i suoi
due principali artefici, Habyarimana e il presidente del Burundi Cyprien
Ntaryamira, sono stati uccisi dopo aver partecipato a una riunione ad Arusha.
L'aereo presidenziale su cui entrambi viaggiavano è stato abbattuto
mentre era in fase di atterraggio a Kigali; e sono in molti a sospettare che i
due missili lanciati da terra nei pressi dell'aeroporto provenissero dalle file
degli estremisti hutu contrari alla pacificazione interetnica. E' cominciata
così la tragedia di un intero popolo. Rileggere la storia del Ruanda
può forse aiutare a capire perché oggi ogni intervento di ricostruzione
in questo paese deve trovare nuove strategie di azione. E' un paese dove tutto
è stato spazzato via, la famiglia, la scuola, la chiesa, il villaggio.
Dove il vicino di casa con il quale si era spesso condiviso il piacere di una
birra è diventato il feroce assassino di tua moglie, di tuo padre, dei
tuoi amici. A questo orrore hanno assistito impotenti centinaia di migliaia di
bambini. Quelli che si sono salvati la pelle, hanno sul corpo le cicatrici del
machete che non è riuscito ad ucciderli e negli occhi il ricordo e la
paura di quanto vissuto. Mentre scriviamo giungono con intermittenza costante
notizie di eccidi perpetuati nei campi profughi (ricordiamo che quando i tutsi
hanno riconquistato la capitale più di due milioni di donne vecchi e
bambini hutu sono scappati verso lo Zaire) diventati non solo luogo di
disperazione per tantissimi innocenti ma anche rifugio per gli uomini
dell'Interahamwe, la milizia civile hutu principale artefice del massacro.
Nelle ine che seguono presentiamo alcuni stralci di una ricerca di recente
pubblicazione realizzata dall'International Child Development Centre con il
contributo dell'UNICEF Italia che analizza per un periodo di circa due anni
(luglio '94 dicembre '96) la condizione dei bambini del Ruanda del post
genocidio. Il titolo dello studio, che può essere richiesto nella sua
versione integrale e in inglese all'UNICEF ICDC, Piazza SS.Annunziata 12 -
50122 Firenze, è lo stesso di questo dossier: Ripartire da zero. Come
è possibile garantire i diritti promossi dalla Convenzione ai bambini di
un paese in cui tutto è stato distrutto? Ci sono diritti prioritari o
ogni diritto deve essere garantito quale che sia la situazione di partenza? Il
Ruanda è certamente un paese dove chi si batte per la tutela dei diritti
dei bambini si trova di fronte a problemi drammaticamente inusitati. Accanto ai
bambini traumatizzati che hanno bisogno di terapie psicologiche e di sostegno,
ci sono quelli 'smobilitati' dall'esercito che devono essere reinseriti
nella vita civile e quelli rinchiusi nelle carceri assieme agli adulti perché
accusati di orribili crimini. Ma anche i bambini curati all'estero e che dopo
anni di lontananza hanno dimenticato la loro lingua e si sentono più
italiani, francesi, belgi che ruandesi. Bisogni diversi che richiedono
interventi diversi secondo il principio che ogni diritto deve essere sempre
garantito a tutti i bambini. E' quello che l'UNICEF sta tentando di fare anche
in Ruanda.
Susanna Bucci
COSTRUIRE NEL VUOTO
(Intervista a Nigel Cantwell - consulente UNICEF ICSV Firenze, autore dello
studio sul Ruanda)
Quale è la particolarità
dello studio da lei realizzato sul Ruanda? In che modo una situazione estrema
come questa può funzionare da case studio sulla Convenzione? Perché
questo interesse nei confronti di una situazione così estrema?
'Proprio perché si tratta di una situazione estrema, essa si presta come
tale a funzionare da laboratorio per fornire una sorta di esemplificazione di
come, in una situazione di post-conflitto si può tentare di ripristinare
il rispetto dei diritti umani. Questo è anche, credo, il motivo per cui
l'UNICEF ha scelto di documentare la sua esperienza di lavoro sul campo con
questo studio da me redatto. Da parte delle autorità c'è
attualmente lo sforzo reale di integrare un approccio basato sul pieno rispetto
dei diritti umani nell'opera di ricostruzione. Il che significa applicare la
Convenzione, alla cui filosofia si ispira o dovrebbe ispirarsi qualsiasi
intervento sui bambini, perché sostanzialmente questo è il senso della
Convenzione, fornire una guideline di principi ai quali ispirare le azioni dei
governi e le politiche per l'infanzia.'
Non si può stabilire una gerarchia
di diritti, essi sono tutti importanti allo stesso grado, lei afferma nel suo
studio. Ma come si fa a garantire, in una situazione così particolare,
il rispetto in simultanea di tutti i diritti stabiliti dalla Convenzione?
'Garantire ai bambini il rispetto dei loro diritti secondo le clausole
della Convenzione Internazionale sui diritti dell'infanzia non è impresa
facile in un contesto come quello ruandese: ma i diritti sono interrelati tra
di loro per cui lavorare per essi significa automaticamente affrontare tutti i
problemi contemporaneamente. Si pensa ad alcuni diritti (al cibo, ad un tetto)
come primari, mentre altri (al gioco, alla libera espressione di sé,
all'informazione) vengono percepiti come voluttuari, secondari in un paese che
deve affrontare un'emergenza. Ma questo è un errore: certi diritti, solo
apparentemente secondari diventano enormemente importanti proprio nelle
situazioni più estreme. È questo il caso del diritto al gioco,
importantissimo per quei bambini traumatizzati dalla guerra , imprigionati o
costretti a vivere in condizioni di stress estreme: significa salvarli, porre
le basi per rimuovere il trauma psichico, significa dare a questi bambini la
possibilità di avere un futuro. Lo sviluppo ottimale del bambino
è un discorso globale; può sembrare un'utopia, ma questa è
l'ottica dell'UNICEF, una sfida difficile in situazioni così estreme ma
che è necessario lanciare.
Può raccontarci come il personale
dell'UNICEF sta svolgendo il suo difficile compito nel paese disastrato dalla
guerra etnica?
'Se la situazione della popolazione è estrema, lo è anche la
situazione delle persone che lavorano nelle organizzazioni di aiuto; le
difficoltà da affrontare sono così tante ed enormi: dalle
più banali necessità organizzative e logistiche, all'onere di
progettare un tipo di lavoro nuovo e terribile, al riorganizzazione di una
società dopo il genocidio. Da un punto di vista tecnico, l'ordine di
problemi che le organizzazioni di aiuto, tra cui l'UNICEF, si trovano a dovere
affrontare è duplice. Da un lato bisogna far fronte alle normali
necessità di ricostruzione in una fase post-emergenza: organizzare la
distribuzione del cibo, ripristinare le condutture idriche, provvedere alle
necessità basilari, riunificare le famiglie, ricostruire il tessuto
sociale e istituzionale, garantendo il funzionamento normale di scuole ed
ospedali. Esistono poi le sfide nuove e del tutto impreviste poste dalla
particolare situazione del paese. Si tratta di problemi nuovi per l'UNICEF e
per le altre organizzazioni, rispetto ai quali non c'è esperienza cui
attingere. Cosa fare quando migliaia di persone si trovano imprigionate e la
maggior parte di esse hanno meno di 18 anni? Da un lato alcuni di loro sono
accusati di crimini gravi per i quali una sorta di sanzione sarebbe necessaria
anche se essi sono sotto l'età imputabile; esiste poi l'esigenza
contraddittoria rispetto a quella della punizione di ricostruire intorno a
questi ragazzi il loro tessuto di affetti e socialità. È una cosa
difficile da organizzare, perché rimandare i ragazzi nelle loro famiglie
d'origine potrebbe essere pericoloso per la loro incolumità per il
rischio di eventuali vendette trasversali. Come combinare quindi le
prescrizioni delle normative internazionali (secondo le quali la detenzione
dovrebbe essere l'ultima risorsa) con la giusta esigenza di segnalare e prendere
in carico i comportamenti violenti? Del resto questi ragazzi sono vittime
innocenti della proanda politica, in loro il germe dell'odio razziale
è stato inoculato come un veleno, essi sono quindi prima di tutto da
aiutare come vittime E' davvero un rompicapo, di più un grave dilemma
etico per la risoluzione del quale non ci sono linee guida'
Esiste cooperazione da parte delle
organizzazioni che operano nel paese? Esiste uno scambio di esperienze e di
idee rispetto a questo difficile compito?
'La risposta è sì e no. In alcune situazioni come nel 1996
quando grosse masse di rifugiati si sono riversate a Kigali, c'è stata
una certa cooperazione da parte di tutti per limitare i disagi di questo esodo
di massa. Esistono però punti di frizione e profondo disaccordo rispetto
alle questioni più difficili che dilaniano il paese, oggetto di
interminabili discussioni spesso inconcludenti'.
Quale è a questo proposito
l'atteggiamento delle autorità, esiste reale volontà politica di
garantire la pacifica convivenza tra hutu e tutsi?
'Esiste la volontà comune di convivere pacificamente tra etnie
diverse il che fa ben sperare per i futuro. Ma è anche vero, purtroppo
che nessuna autorità può sostituirsi alle azioni del singolo: una
volta che il seme dell'odio è stato gettato, è difficile tornare
indietro.'
Ci può parlare dei programmi di
educazione alla pace che, come già nella ex Jugoslavia costituiscono il
fulcro dell'attività dell'UNICEF nei paesi sconvolti dalla guerra
etnica? Come si riesce a fare educazione alla pace in simili realtà?
'In un paese così giovane come il Ruanda (la metà della
popolazione è sotto i 18 anni) in circostanze così estreme
l'educazione alla pace diventa vitale per dare un futuro al paese. Esistono
progetti molto interessanti come quello dei solidarity camps per ragazzi dai 14
ai 18 anni, la fascia d'età più numerosa, delicata e bisognosa di
aiuto anche perché la scolarizzazione superiore è molto carente nel
paese. In questi camps si sperimenta la convivenza tra giovani appartenenti a
etnie diverse, si organizzano attività sportive e comunitarie, si
mettono in comune oggetti, esperienze, idee: e soprattutto si cerca di
dialogare non per dare un senso a ciò che si è vissuto, ma per
aiutarsi a liberarsene. I risultati dei camps sono incoraggianti (fino al 1996
circa 12.000 giovani vi avevano preso parte), l'obiettivo è quello di
contribuire a ricostruire un sistema di valori e di punti di riferimento etici
nei giovani traumatizzati. Per quanto riguarda i bambini delle scuole elementari,
si sta cercando di raggiungere circa il 70-75% di essi con appositi programmi
di educazione alla pace da svolgersi nelle scuole previa formazione degli
insegnanti che a loro volta devono essere assistiti e appoggiati.'
In Ruanda si sottopongono a terapia psichiatrica
i bambini per aiutarli a liberarsi dal trauma come è avvenuto nella ex
Jugoslavia?
'Manca per ora l'intervento prettamente psichiatrico sui singoli casi di
trauma, in parte per mancanza di risorse, in parte perchè si ritiene
prioritaria la ricostruzione di una vita associata degna d questo nome: non si
può infatti operare nel vuoto, bisogna prima lavorare per ricostruire un
tessuto sociale inesistente, ricostruire intorno ai bambini una vita di affetti
prima di fare terapia individuale. Per il momento si privilegiano nel paese le
attività riabilitative di gruppo come quelle sopra descritte.'
Che cos'è che l'ha sconvolta di
più nel corso delle sue visite in Ruanda?
'Forse il fatto che questo tremendo trauma non sia percepibile, non sia
manifesto: per le strade, tra la gente, in quello che è rimasto dei
luoghi pubblici si respira una sinistra aria di normalità. Conta poco
che i semafori siano stati rimessi a posto, le rovine di cui occuparsi sono
morali e non materiali. Ricostruire una società spezzata dalla sfiducia
e dalla diffidenza è molto più difficile che ricostruire i suoi
luoghi fisici. In questo senso il cammino da fare è ancora piuttosto
lungo.'
Elisabetta Porfiri
RITORNARE A CASA
Durante e dopo il genocidio, 32 bambini gravemente feriti, molti dei quali
malnutriti, sono stati portati in Francia dall'organizzazione Médicins sans
frontières per essere sottoposti a delicati interventi chirurgici.
Questa ONG aveva assicurato le autorità del Ruanda che i bambini sarebbero
immediatamente tornati a casa dopo un periodo di convalescenza trascorso presso
famiglie volontarie. L'organizzazione era stata in passato accusata di non
essersi preoccupata di seguire le condizioni in cui avveniva il ritorno dei
bambini. Va anche detto che spesso erano gli stessi bambini a non voler tornare
in Ruanda perché la loro memoria era fissa sul massacro e perché le famiglie
straniere che li avevano accolti volevano adottarli. Molto spesso, come ha
sottolineato lo studio di Graça Machel sui bambini in guerra 'le
difficoltà sorgono quando la famiglia straniera pensando che il bambino
abbia maggiori possibilità nel paese ospite, non vuole che il bambino
affidato torni nella sua famiglia d'origine'. Il problema posto a Médicins
sans frontières e ad altre ONG era quello relativo al tempo e alle
modalità del ritorno. Nel Ruanda questo ritardo è stato spesso
dovuto al fatto che i genitori dei bambini curati all'estero avevano perso la
vita nel corso del genocidio. Un caso analogo si è verificato
nell'orfanotrofio di Masaka nella regione di Kigali i cui ospiti sono stati
portati in Francia nell'aprile del 1994 man mano che i combattenti si
avvicinavano. In Francia sono stati ospitati nel dipartimento della Loira. Su
richiesta delle autorità del Ruanda e dopo molte pressioni 46 bambini
sono tornati in patria nel luglio '96 con alcuni accomnatori francesi. I
bambini erano stati richiesti in adozione in Francia, ma per il loro ritorno ha
consentito a 17 di essi di ricongiungersi alle loro famiglie mentre tutti gli
altri sono stati dati in affidamento in attesa di trovare i loro genitori o
qualche parente. Sempre nel 1994 sono stati portati in Italia 218 bambini,
alcuni di pochi mesi che sono rimasti in Italia fino a quando il governo di
Kigali ha espressamente richiesto il loro ritorno. Come in Francia, anche in
Italia c'è stata analoga riluttanza da parte di molti affidatari
italiani a favorire il ritorno dei bambini pensando che le condizioni di vita
nel paese non fossero sufficientemente sicure. Significativamente si è
venuti a conoscenza del fatto che quasi tutti i bambini che avevano fatto
ritorno al loro paese si erano riuniti con le loro famiglie anche se questo
processo è stato lungo e problematico. Esiste anche il problema, a cui
in genere non si pensa, della difficoltà per un bambino che si è
ormai integrato in un ambiente socioeconomico diverso di quello della famiglia
originaria a ritornare in contesti economici poveri dei quali non conosce
nemmeno la lingua, soprattutto se ne è andato molto piccolo. Pur riconoscendo
in molti casi la necessità che i bambini in pericolo di vita vengano
evacuati sarebbe auspicabile non creare fratture così profonde con
l'ambiente di origine favorendo, ove possibile, l'ospitalità dei bambini
in paesi più vicini per mentalità e cultura. Il caso di alcuni
bambini bosniaci ospedalizzati in Malesia è significativo. Da un punto
di vista dei diritti la separazione dei bambini dai loro genitori e dalle loro
famiglie è la scelta più radicale che si possa fare. Il che determina
la necessità di realizzarla con molte cautele individuando i
responsabili i quali devono impegnarsi a favorire il ritorno a casa una volta
che non sussistano più condizioni di emergenza.
A SCUOLA TUTTI INSIEME
Tra aprile e giugno del 1994 il sistema scolastico è stato del tutto
annientato: molti insegnanti sono stati uccisi o hanno lasciato il paese; gli
edifici scolastici sono stati rasi al suolo o saccheggiati. Fu subito stabilito
che dovevano essere reclutati almeno 700.000 insegnanti che avrebbero coperto
solo il 60% del corpo docente necessario. Per raggiungere questo numero furono
utilizzati tutti i mezzi possibili; anche radio Ruanda venne usata per il
reclutamento dei maestri. Certo il problema della loro formazione resta
prioritario; come prima risposta è stato migliorato un kit didattico su
modello di quello realizzato dall'UNESCO in Somalia. Ogni kit contiene un
manuale graduale (step by step) per un insegnante e materiale didattico per 80
bambini. Oggi circa un quarto dei bambini di età compresa tra i 6 e i 14
anni non vanno a scuola e 19.000 insegnanti non sono qualificati. Quelli con la
minore esperienza non hanno alcuna motivazione a migliorare la loro
preparazione considerando che il loro salario mensile si aggira attorno ai 10
dollari USA (il massimo che un insegnante anche qualificato guadagna è
circa 50 dollari). Il fatto che la percentuale dei bambini che non vanno a
scuola sia così alta rappresenta una seria minaccia per il futuro del
paese. Diventeranno adolescenti ad alto rischio, più permeabili alla
proanda razzista; uno dei primi obiettivi per combattere questo fenomeno
è capire le ragioni che determinano la non frequenza. Diverso è
il discorso per quanto riguarda la scuola superiore che si basa su un sistema
misto, pubblico e privato. Oggi circa il 90% dei ragazzi che appartiene a
questa fascia di età non va a scuola, inclusi i tre quarti di quelli che
hanno concluso il ciclo elementare. D'altro canto la tendenza attuale anche a
livello di cooperazione internazionale è quella di privilegiare gli
investimenti per favorire la scuola primaria.
Il ruolo centrale dell'educazione alla pace
Il futuro del Ruanda dipende da due elementi: che la giustizia sia garantita da
regolari processi che puniscano chi si è macchiato di orribili crimini
(e che quindi non passi il criterio dell'impunibilità, foriero di nuovi
omicidi) e che si promuova la riconciliazione nazionale. L'educazione alla pace
diventa il tal senso molto importante. Non mancano comunque anche su questo
punto i sostenitori e i detrattori. C'è infatti chi ricorda che nella ex
Jugoslavia esisteva, prima della guerra, un apprezzatissimo e sofisticato
programma di educazione alla pace. C'è invece chi sostiene che le
fratture all'interno del tessuto sociale ruandese non siano così profonde
e che quindi un intervento 'educativo' possa avere effetti positivi.
L'UNICEF, in cooperazione con il Ministero dell'Istruzione, sta promuovendo un
programma che ha come primo obiettivo quello di includere i programmi di
educazione alla pace all'interno del curriculum scolastico. Ai bambini viene
insegnato, tra l'altro, a mediare i conflitti senza ricorrere alla violenza.
Un'altra iniziativa è quella dei cosiddetti 'campi di
solidarietà' (cfr. intervista a Nigel Cantwell p. ) che si
rivolgono ai bambini tra i 14 e i 18 anni. Ogni campo che dura mediamente un
mese e che raccoglie circa 1.000 ragazzi di entrambi i sessi e, ovviamente,
delle due etnie principali, prevede attività utili alla ricostruzione
del paese: attività edili, agricole ecc. L'obiettivo è quello di
promuovere all'interno di ogni azione collettiva l'educazione alla pace. Il che
significa collaborare, distruggere stereotipi, ma anche richiamare i ragazzi ad
assumersi responsabilità nelle decisioni che riguardano il loro futuro.
Tutto ciò va nella stessa direzione di quanto sancito dall'art 29 della
Convenzione internazionale sui Diritti dell'Infanzia in materia di educazione.
Tra gli altri provvedimenti è anche in cantiere la revisione dei libri
di testo che promuovono le divisioni etniche ed eliminare nelle nuove sectiune di
identità l'etnia di appartenenza. Solo recentemente è stata
inserita all'interno del programma della scuola primaria un'ora settimanale di
discussione su quanto vissuto da ogni alunno (trauma time).
RITORNARE A CASA
Durante e dopo il genocidio, 32 bambini gravemente feriti, molti dei quali
malnutriti, sono stati portati in Francia dall'organizzazione Médicins sans
frontières per essere sottoposti a delicati interventi chirurgici.
Questa ONG aveva assicurato le autorità del Ruanda che i bambini
sarebbero immediatamente tornati a casa dopo un periodo di convalescenza
trascorso presso famiglie volontarie. L'organizzazione era stata in passato
accusata di non essersi preoccupata di seguire le condizioni in cui avveniva il
ritorno dei bambini. Va anche detto che spesso erano gli stessi bambini a non
voler tornare in Ruanda perché la loro memoria era fissa sul massacro e perché
le famiglie straniere che li avevano accolti volevano adottarli. Molto spesso,
come ha sottolineato lo studio di Graça Machel sui bambini in guerra 'le
difficoltà sorgono quando la famiglia straniera pensando che il bambino
abbia maggiori possibilità nel paese ospite, non vuole che il bambino
affidato torni nella sua famiglia d'origine'. Il problema posto a Médicins
sans frontières e ad altre ONG era quello relativo al tempo e alle
modalità del ritorno. Nel Ruanda questo ritardo è stato spesso
dovuto al fatto che i genitori dei bambini curati all'estero avevano perso la
vita nel corso del genocidio. Un caso analogo si è verificato
nell'orfanotrofio di Masaka nella regione di Kigali i cui ospiti sono stati
portati in Francia nell'aprile del 1994 man mano che i combattenti si
avvicinavano. In Francia sono stati ospitati nel dipartimento della Loira. Su richiesta
delle autorità del Ruanda e dopo molte pressioni 46 bambini sono tornati
in patria nel luglio '96 con alcuni accomnatori francesi. I bambini erano
stati richiesti in adozione in Francia, ma per il loro ritorno ha consentito a
17 di essi di ricongiungersi alle loro famiglie mentre tutti gli altri sono
stati dati in affidamento in attesa di trovare i loro genitori o qualche
parente. Sempre nel 1994 sono stati portati in Italia 218 bambini, alcuni di
pochi mesi che sono rimasti in Italia fino a quando il governo di Kigali ha
espressamente richiesto il loro ritorno. Come in Francia, anche in Italia
c'è stata analoga riluttanza da parte di molti affidatari italiani a
favorire il ritorno dei bambini pensando che le condizioni di vita nel paese
non fossero sufficientemente sicure. Significativamente si è venuti a
conoscenza del fatto che quasi tutti i bambini che avevano fatto ritorno al
loro paese si erano riuniti con le loro famiglie anche se questo processo
è stato lungo e problematico. Esiste anche il problema, a cui in genere
non si pensa, della difficoltà per un bambino che si è ormai
integrato in un ambiente socioeconomico diverso di quello della famiglia
originaria a ritornare in contesti economici poveri dei quali non conosce nemmeno
la lingua, soprattutto se ne è andato molto piccolo. Pur riconoscendo in
molti casi la necessità che i bambini in pericolo di vita vengano
evacuati sarebbe auspicabile non creare fratture così profonde con
l'ambiente di origine favorendo, ove possibile, l'ospitalità dei bambini
in paesi più vicini per mentalità e cultura. Il caso di alcuni
bambini bosniaci ospedalizzati in Malesia è significativo. Da un punto
di vista dei diritti la separazione dei bambini dai loro genitori e dalle loro
famiglie è la scelta più radicale che si possa fare. Il che
determina la necessità di realizzarla con molte cautele individuando i
responsabili i quali devono impegnarsi a favorire il ritorno a casa una volta
che non sussistano più condizioni di emergenza.
SENZA LIBERTA'
Sulla base di quanto stabilito dalla Convenzione, l'UNICEF si è battuto
affinché i ragazzi tra i 14 e i 17 anni accusati di crimini collegati al
genocidio venissero rinchiusi in sezioni separate del carcere, lontano dagli
adulti. E questo tipo di trattamento è stato spesso esteso ai giovani
detenuti che hanno compiuto i 18 anni proprio per evitare la promiscuità
con i criminali adulti. L'UNICEF ha contribuito a formare 48 giudici minorili
perché il problema della detenzione dei giovani in attesa di un regolare processo
era diventato drammatico. Diverso è il discorso per i bambini che vivono
in carcere perché le loro madri sono detenute. Le loro condizioni di vita sono
al limite dell'accettabile soprattutto quando il carcere è
sovrappopolato. Numerosi sono stati gli interventi promossi da diverse ONG;
nella prigione di Butare è stata aperta un'area giochi e in alcuni casi
i bambini vengono affidati a parenti che vivono nei pressi del carcere e ogni
mese possono incontrarsi con la loro mamma. Rispetto all'applicabilità
della Convenzione la condizione di questi bambini è forse quella che
pone un dilemma nel dilemma. Se da un lato un bambino non deve vivere in
prigione, dall'altro la separazione dalla madre può non rappresentare
una soluzione appropriata; inoltre, come l'esperienza ha sovente dimostrato,
molte detenute trovano insopportabile il periodo di detenzione senza i loro
li. D'altro canto i bambini sono troppo piccoli per poter esprimere la loro
opinione; la tendenza resta quella di provvedere
alla sistemazione del bambino solo se è un suo desiderio o della madre.
Esercito addio
Già nell'ottobre del '94 il ministero della difesa aveva annunciato
l'intenzione di smobilitare i bambini soldato che militavano nelle file
dell'esercito. Allora erano circa 5.000 gli under 18 nei ranghi delle forze
armate. Circa l'80% di essi aveva avuto un ruolo di aiutante. Dimetterli era
comunque un problema, non si poteva semplicemente 'mandarli a casa',
anche perché molti non avevano più i genitori. Inoltre il loro
comportamento e le abitudini maturate nell'esercito potevano causare problemi
al loro reinserimento in seno alle comunità di appartenenza. Era
necessario educarli e prepararli attraverso un supporto terapeutico. Non
è facile aiutare un bambino soldato a ritornare nella vita civile.
L'UNICEF Ruanda ha dovuto rifarsi alle esperienze di altri paesi, come la
Liberia o l'Uganda, che avevano vissuto lo stesso drammatico fenomeno. I
bambini soldato hanno spesso avuto a che fare con la droga, hanno sviluppato un
sentimento di recriminazione e di rivendicazione nei confronti di tutta la
società civile, percependosi come vittime ed eroi, degni di un
trattamento privilegiato. Sono insofferenti alla disciplina scolastica, molto
spesso vogliono tornare nell'esercito, vogliono essere ati perché da soldati
ricevevano una salario. Dalle esperienze della Sierra Leone e della Liberia
dove sono stati realizzati programmi di riabilitazione e reinserimento,
è emerso che la famiglia è l'asso vincente per ogni politica di protezione
e recupero dei minori. Gli interventi che privilegiano esclusivamente scuole
speciali o orfanotrofi per i soli bambini soldato rischiano di inchiodare i
piccoli combattenti a una realtà emarginata dal resto della
comunità. E' per questo che in
assenza dei genitori vanno privilegiate politiche di riunificazione con altri
famigliari; se anche la famiglia estesa non è in grado di intervenire
è necessario creare 'gruppi familiari' in alternativa
all'istituzionalizzazione.
Bambini ruandesi in carcere
Riproponiamo una drammatica notizia di quest'estate, riguardante la situazione
dei bambini nelle carceri ruandesi. Secondo le stime ufficiali 110000 persone
sono attualmente detenute in 18 prigioni centrali (gestite dal Ministero della
Giustizia) e in oltre 200 prigioni locali. Tra di loro si trovano circa 2.400
bambini e adolescenti e 600 neonati detenuti insieme alle madri accusate di
atti criminali. Secondo l'art. 77 del Codice Penale del Ruanda, l'età
per la responsabilità penale è 14 anni. Purtroppo però
anche i bambini al di sotto di questa soglia sono stati imprigionati a causa
della difficoltà nello stabilirne l'età effettiva o per la non
conoscenza, da parte degli uffici locali, di questo loro diritto. L'UNICEF
finanzia una task force di 40 poliziotti per seguire esclusivamente i casi di
bambini e di adolescenti con la priorità di identificare quelli non
colpevoli e verificarne l'età, provvedendo quindi al loro immediato
trasferimento in appropriate strutture rieducative, una delle quali a Gitagata,
a 40 chilometri a sud di Kigali. Tale centro è stato ripristinato nel
1996, grazie al finanziamento dell'UNICEF. L'UNICEF ha altresì
contribuito all costruzione, in cinque prigioni, di reparti per i minorenni
separati dagli adulti, riducendo così il rischio di abusi e permettendo
loro di seguire corsi professionali e lezioni scolastiche.
(Dal Notiziario Speciale Giovani ANSA-UNICEF, 24 settembre 1997)
DOPO L'EMERGENZA
L'assistenza sanitaria di base è stata al cuore della politica sanitaria
del paese a partire dal 1987; dei circa 300 centri sanitari istituiti prima
della guerra, pari a uno per ogni comune, pochi sono stati salvati. Fra i primi
interventi realizzati dall'UNICEF e dalle numerosissime ONG che hanno
collaborato con il Ministero della Sanità, quello di riattivare gli
ambulatori. Come per altri settori la maggior parte del personale originario
era fuggito o era stato assassinato. Il problema più grosso non è
stato tanto quello di rifornirsi di attrezzature mediche quanto quello di trovare
personale adeguato che potesse far fronte alle diverse esigenze dell'emergenza
sanitaria. Una ricerca realizzata nel giugno 1995 ha messo in evidenza che
circa il 10% dei bambini al di sopra dei 5 anni soffriva di forme acute o
moderate di malnutrizione, più del doppio della percentuale del '93.
Ciononostante sono stati conseguiti risultati significativi, come ad esempio
quello di riattivare la 'catena del freddo', e le percentuali di
vaccinazione sono ritornate ai livelli pre-l994; questa era il primo risultato
da conseguire dopo l'emergenza.
L'acqua
A causa della guerra, la rete idrica nazionale è andata in panne. Ancora
un volta il Ruanda ha la più alta percentuale di persone che hanno
accesso all'acqua potabile e di impianti sanitari nell'Africa subsahariana (l'80%
nelle aree rurali). Nello stesso tempo in media ogni famiglia dispone di circa
8 litri di acqua al giorno; ne servirebbero tre volte di più per
garantire standard igienico-sanitari accettabili per l'Africa rurale. Le
conseguenze igieniche e sanitarie di questo scarso consumo sono innumerevoli e
l'obiettivo è di raddoppiare almeno il consumo domestico. E' stato
trovato un sistema per gestire a livello comunitario la fornitura dell'acqua
che prevede un'attività di mobilitazione sociale e di educazione comunitaria
basata non solo sui benefici sanitari ma sul fatto che are il consumo di
acqua direttamente alla comunità responsabilizza consumatore e la marca" class="text">il consumatore, il
quale viene ricompensato dalla riduzione dei costi in altre aree dello
sviluppo.
Il controllo dell'AIDS
L'incidenza dell'AIDS e delle infezioni correlate è tra le più
alte dell'Africa; esiste un programma nazionale di controllo dell'AIDS e
l'UNICEF ha collaborato ad esso per l'ideazione di materiali destinati agli
insegnanti per informare sui rischi di questa malattia, in modo da mettere in
guardia in maniera adeguata gli studenti. Dieci formatori hanno sensibilizzato
1.500 insegnanti di scuola elementare e 200.000 bambini negli ultimi due anni
del ciclo primario. Questo argomento viene anche affrontato nei solidarity
camps e nel corso di trasmissioni radiofoniche. L'introduzione di programmi di
educazione sanitaria è stata una delle condizioni poste dall'UNICEF per
iniziare la sua collaborazione con il Ministero della Difesa, nei confronti del
quale c'erano forti riserve per il problema dei bambini soldato. Ma al di
là dell'aspetto informativo che si sta trattando con una certa
completezza, altri problemi relativi all'AIDS sono lontani dall'essere stati
affrontati in una maniera efficace come invece è avvenuto nel vicino
Uganda.
I portatori di handicap
Un'altra realtà in cui i diritti dei bambini vengono facilmente
dimenticati è quella dei bimbi portatori di handicap. I dati sono
allarmanti e parlano chiaramente di una pesante discriminazione dei bambini handicappati
rispetto al diritto primario di andare a scuola. Un'indagine campione ha
infatti rilevato che complessivamente il 70% dei bambini disabili presi in
esame non è mai andato a scuola; mentre l'iscrizione generale alle
scuole elementari è del 75% per i bambini sani la percentuale scende al
55% per gli amputati, al 48% per le vittime della polio e al 37% per i bambini
con qualche deformità fisica. Cifre inquietanti perché in questi casi la
disabilità fisica non riduce affatto le possibilità del bambino
di studiare. Aumentano le percentuali per altre disabilità, come la
cecità (31%), la sordità (12%) e gli handicap mentali (25%). Una
delle soluzioni possibili per far fronte a questo difficile problema è
quella di coinvolgere le associazioni comunitarie e di volontariato che
potrebbero occuparsi del reinserimento sociale di questi bambini. L'UNICEF ha
posto la sua esperienza al servizio del paese per quanto rigurada i settori
sanitario, idrico, scolastico e di assistenza ai bambini in condizioni difficili.
Significativo è stato il suo contributo perché le scuole elementari
potessero riaprire rapidamente; ha inoltre aiutato Radio Ruanda a riprendere le
trasmissioni, ha fatto piani per la smobilitazione dei bambini soldato e sta
sostenendo il trasferimento dei bambini sotto i 14 anni dalle prigioni degli
adulti.
I brani del dossier sono stati tradotti e rielaborati e fanno parte dello studio dal titolo Starting from zero, The promotion and protection of children Right's in post-genocide Rwanda July 1994 - Decembre 1996 di Nigel Cantwell, UNICEF, International Child Development Centre, Firenze. E' possibile richiedere lo studio nella versione integrale all'ICDC, Piazza SS.Annunziata 12 - 50122 Firenze - tel. 055/2345258.
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