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SOTTOSVILUPPO
Profilo geografico.
Il sottosviluppo è una condizione di arretratezza sociale ed economica in genere, e in particolare sul piano tecnico e produttivo in cui si trova una collettività nei confronti di sistemi economici più avanzati e che hanno un più elevato reddito pro-capite. All'interno del sistema mondo, la maggior parte degli stati versa in una situazione di sotto sviluppo economico, più o meno marcata, e negli ultimi decenni solo in parte il divario tra essi e i paesi economicamente avanzati si è ridotto. Le origini di queste differenze tra paesi ricchi e poveri risalgono al periodo coloniale. Le conquiste ottenute dai paesi europei a partire dalla fine del XVI secolo hanno imposto il modo di produzione del modello sociale -politico e culturale dell'Europa in paesi che seguivano modelli di sviluppo propri: le società dei paesi colonizzati vennero m breve tempo modificate e adattate all'esigenza economica dei colonizzatori. La colonizzazione europea del mondo però non spiega da sola l'origine del sottosviluppo. Per interpretare più compiutamente il fenomeno è necessario riferirsi oltre che alla colonizzazione, anche al tipo di economia e di società che si è formata nei vari paesi. Uno sviluppo economico intenso si è avuto solo dove si sono avviati i processi di crescita propri dell'economia mercantile e industriale moderna, nonché la formazione di una solida borghesia produttiva. In tale situazione e proprio il potere politico-militare espresso dai paesi colonizzatori unitamente all'integrazione dell'ambito del sistema capitalistico che ha determinato l'origine delle differenze tra paesi ricchi e poveri. Alla fine del colonialismo e al raggiungimento dell'indipendenza politica da parte dei popoli e dei tenitori ex coloniali non è corrisposta un'autonomia decisionale in campo economico. Solo in qualche caso esiste oggi un interdipendenza su basi paritarie con il resto del mondo; più spesso, il rapporto sud-nord è di tipo dipendente. La struttura dell'economia mondiale è considerata inadatta allo sviluppo economico globale, per una serie di forti condizionamenti esterni ai quali i paesi del sud del mondo devono sottostare. In primo luogo, è rilevante la questione dell'afflusso di capitali, anche perché lo scarso investimento in senso produttivo del risparmio privato interno è una delle principali carenze della economia dei paesi in via di sviluppo. I capitali sono affluiti in misura massiccia negli anni 70 e agli inizi degli anni 80 sotto forma di prestiti. Il ricorso a tale forma di finanziamento si spiega con il tentativo da parte dei paesi in via di sviluppo di avviare un processo di crescita economica interna. Ma l'eccesso di afflusso e richiesta, nonché il rallentamento dello sviluppo economico nel sud hanno gonfiato a dismisura il debito estero di questi paesi. Tuttavia il processo di indebitamento attuale dei paesi sotto sviluppati ha assunto dimensioni tali da vanificare quasi completamente gli sforzi per avviare uno sviluppo interno, infatti, tali paesi per are i loro debiti o anche solo gli interessi, devono accumulare valuta estera attraverso la riduzione delle importazioni o l'aumento delle esportazioni. La prima misura apparentemente più facile da applicare, implica spesso notevoli sacrifici per la popolazione. La seconda spinge a produrre soprattutto ciò che il mercato mondiale richiede, rischiando di sacrificare l'esigenza della popolazione locale. I capitali, sotto forma di investimenti diretti, cioè di attività produttive, sono affluiti in determinati paesi anche attraverso le imprese multinazionali. Dal 1989 l'investimento delle multinazionali è diventato la principale forma di afflusso di capitali nel sud del mondo. Ciò tuttavia presenta anche lati negativi. Il principale risiede nel fatto che le multinazionali esercitano la propria azione in un contesto geografico globale e in un ambito temporale generalmente breve o medio (se vengono a mancare le condizioni di mercato si trasferiscono altrove); ciò contrasta con le prospettive dei paesi che le ospitano. Se i fattori esterni hanno giocato un ruolo importante nella creazione delle situazioni di sottosviluppo, esistono anche varie cause interne che possono essere in parte indipendenti dai rapporti con il mondo esterno, ma che comunque interagiscono con questo. Tra gli ostacoli interno allo sviluppo hanno rilevanza, in alcune aree, le difficoltà ambientali, la cui origine spesso è solo in parte naturale. Essa va collegata al fatto che le società locali non hanno perfezionato gli strumenti culturali e tecnologici atti a modificare gli aspetti naturali meno favorevoli allo sviluppo economico. La così detta gestione delle risorse umane è un altro problema dei paesi sottosviluppati. Di uguale importanza sono le questioni della formazione delle risorse umane e, in questo senso, le politiche relative all'istruzione e alla lotta all'analfabetismo. Saper leggere e scrivere così come conoscere la tecnica, la scienza e la medicina, sono presupposti dello sviluppo economico e sociale e del necessario impulso alla ricerca scientifica nazionale. Un altro ostacolo allo sviluppo deriva dal tipo di struttura sociale presente, spesso ereditata dal colonialismo. Il processo di decolonizzazione ha riprodotto quindi una struttura sociale molto sperequata: da un lato una stretta minoranza ricca e potente, dall'altro una gran massa di popolazione povera, che non ha quasi possibilità e ha scarsi incentivi per elevarsi socialmente. Si è, infatti, calcolato che, attualmente, il 16% della popolazione mondiale, o quella dei paesi più ricchi, consuma circa il 78% dei beni e della ricchezza prodotta nel mondo: al restante 84% non ne resta che il 22%. L'indicatore più utilizzato per presentare il livello di sottosviluppo economico di uno stato o di una regione è il Prodotto Interno Lordo per abitante (PIL). L'aspetto positivo di questo criterio di misura è che esso fornisce un'immagine molto sintetica di livello di sviluppo, ma presenta anche dei limiti, hi primo luogo, sfugge a quest'indicatore il controllo delle economie locali di autoconsumo, forme di economie che sono largamente presentate nei paesi sottosviluppati. Esso, inoltre, in quanto valore statistico medio, dice poco sull'effettiva ricchezza o povertà della popolazione. In molti paesi sottosviluppati, infatti, una grossa fetta di prodotto nazionale è accaparrata da una ristretta minoranza, mentre il resto della popolazione vive in livello di sussistenza. Un indicatore che in certa misura mostra le prospettive di crescita economica di un paese è il peso che governi e imprese accordano al settore Ricerca e Sviluppo, questo perché la ricerca applicata costituisce una delle basi principali dello sviluppo, soprattutto permette di ridurre la dipendenza negli acquisti di tecnologie, brevetti, ecc. Un altro indicatore statistico utilizzato di frequente è la ripartizione della popolazione attiva per settore di attività. Sulla base di tali indicatori è possibile tracciare sectiune Geo-economiche che tengano conto dei diversi livelli di sviluppo raggiunti a livello mondiale. Esistono al momento diverse classificazioni che riescono a dare un quadro sintetico della situazione mondiale. Tra tutte quelle che maggiormente sono di uso comune è la classificazione adottata dall'ONU. Secondo l'Organizzazione delle N.U. il mondo può essere suddiviso in due aree ben distinte: le regioni sviluppate e quelle m via di sviluppo. Per ciò che riguarda le prime ne fanno parte tutti quei paesi ad economia di mercato con un alto grado di sviluppo e gli stati ex socialisti per i quali è stata coniata la dicitura 'ad economia di transizione'. Nell'ambito delle aree meno sviluppate, invece sono compresi tutti quei paesi in via di sviluppo (America Latina, Caraibi, Africa, alcuni paesi dell'Asia, Cipro, Malta ed ex Jugoslavia). Ovviamente tale classificazione traccia un quadro dell'economia mondiale per grandi linee e non tiene conto in modo particolareggiato di tutte le situazioni. All'interno di ogni regime economico, infatti, vi sono dei differenti gradi di sviluppo. Così come all'interno di ogni paese, non vi è uno sviluppo economico omogeneo distribuito su tutto il territorio. Un caso particolare, ma certamente non unico, è quello italiano, dove accanto a regioni sviluppate si accomnano vaste aree del paese che sono in via di sviluppo. Lo sviluppo economico, che ha fatto dell'Italia uno dei paesi industriali del mondo non ha ridotto lo storico divario NORD-SUD. Esso al contrario è venuto accentuandosi, anche negli anni 90. Uno degli effetti fondamentali di tale divario è la disoccupazione. Il tasso di disoccupazione è più basso nel NORD, soprattutto nel NORD-EST, mentre nel Mezzogiorno è in rapporto tre volte più alto. Notevoli differenze esistono anche all'interno di una stessa regione: in Piemonte, il tasso di disoccupazione di Cuneo è oltre una volta e mezza più basso di quella di Torino. Strettamente connessa con la disoccupazione è la povertà che sta crescendo su scala mondiale. Anche questo fenomeno evidenzia il divario NORD-SUD: mentre nelle regioni settentrionali vive in condizioni di povertà una famiglia su venti, in quelle meridionali tale proporzioni è di una su cinque. Il divario NORD-SUD riguarda non solo il tenore di vita, ma l'insieme dei fattori sociali e ambientali come la possibilità di avere un lavoro, i servizi adeguati, città non inquinate che determinano la qualità della vita. In un'indagine realizzata dal Quotidiano 'IL SOLE 24 ORE' nel 1997, è stata redatta una graduatoria sulla qualità della vita attribuendo a ciascuna delle province un determinato punteggio in base a sei gruppi di indicatori: il tenore di vita, gli affari e il lavoro, i servizi e l'ambiente, la criminalità, la popolazione e il tempo libero. Da tale graduatoria risulta che tra le prime cinque regioni in cui è migliore il tenore di vita nessuna appartiene al sud dell'Italia. I fanalini di coda di questa particolare classifica sono invece tutte regioni meridionali. La maglia nera del peggior tenore di vita spetta alla Campania. Non meno allarmante è la situazione che emerge dall'inchiesta effettuata nel '95 dalla 'Commissione di indagine sulla povertà', istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Da tale indagine conoscitiva, risulta che 2.128.000 famiglie italiane vivono in condizioni di povertà. Oltre 6.700.000 persone, quindi, hanno un consumo mensile pro-capite dell'intera popolazione italiana (stimato all'incirca in due milioni). La percentuale delle famiglie povere sul totale delle famiglie italiane è inoltre aumentata dall'8,3% nel 1980 ali'11,7% nel 1990 per diminuire, infine, al 10,6% nel 1995. Attualmente, mentre nel nord e nel centro dell'Italia la percentuale delle famiglie povere dal 1990 al 1995 è scesa, nel Mezzogiorno, invece, è sostanzialmente aumentata attestandosi circa al 22% del totale. Quali sono le cause del divario esistente tra queste diverse aree geografiche italiane? Sicuramente la differenza tra NORD e SUD del paese è un problema difficile da risolvere, ma certamente esistente non da ora.
Profilo storico.
Con il termine Questione Meridionale viene indicato il complesso problema dell'arretratezza politica, sociale ed economica di alcune regioni d'Italia. Al momento dell'unificazione il contrasto fra le condizioni economiche dei diversi Regni italiani era meno sensibile di quanto sarebbe divenuto col tempo, ma assai diverse apparivano invece le relative strutture sociali, cioè il modo di intendere la vita pubblica e le consuetudini a cui si conformavano le classi. Senza dubbio, il Settentrione entrava nel nuovo Stato forte di una maggiore maturità civile. Il Piemonte e la Liguria vantavano lunghe tradizioni militari e buoni ordinamenti civili; la Lombardia usciva da un lungo periodo di dominazione Austriaca, esemplare almeno per l'onesta e oculata amministrazione e per le buone riforme attuate a vantaggio del Paese; nella stessa Italia Centrale, la Toscana risentiva i benefici del mite e liberale Governo Granducale che aveva favorito l'agricoltura promovendo la mezzadria che era fonte di relativo benessere e di tranquillità sociale. Il Mezzogiorno, invece, portava una triste eredità storica, un fardello ancora recente di disordini amministrativi e di antiche sofferenze popolari. Era come se d'un tratto l'impresa di Garibaldi l'avesse cacciato nell'era moderna senza tirarlo fuori completamente dalle nebbie del Medioevo, poiché ancora esisteva il sistema Feudale che era stato introdotto dai Normanni nel XII secolo, sistema che aveva dato ai Baroni un potere tale da riuscire a contrastare ogni tentativo da parte di vari re (degli Angioini degli Snoli e perfino di Federico II di Svevia) di contrastarli e di riportare lo Stato di diritto. 11 feudalesimo fu contrastato con poca fortuna anche dai primi Borboni che pure nei loro tentativi di riforma si erano ispirati a quel glorioso 'Illuminismo Napoletano' illustrato dai nomi celebri di Galiani, Genovesi e Filangieri. Fu soppresso finalmente come ordinamento giuridico nel primo decennio del XIX secolo per opera di Napoleone Bonaparte, ma nel Mezzogiorno esso sopravviveva come costume sociale, poiché disgraziatamente la riforma degli istituti giuridici non aveva spezzato la rigidezza del sistema economico (economia agricola), ne rotti i vincoli delle vecchie sudditanze. Nelle camne il potere economico, identificato con la proprietà della terra, restava, infatti, nelle mani degli antichi Baroni. Quanto fragile fosse il tessuto sociale del Mezzogiorno e quante forze vi operassero fuori dal quadro di uno Stato Moderno si vide all'indomani stesso dell'unificazione, allorché la sostituzione degli antichi ordinamenti locali con la nuova amministrazione italiana toccò gli interessi particolari e provocò vivacissime e sanguinose reazioni. Certamente Cavour ebbe troppa fretta nel? imporre al Mezzogiorno una legislazione unitaria la quale teneva poco conto delle tradizioni e delle esigenze di quei luoghi, ma vi fu spinto dalla preoccupazione di assicurare il potere al re Sabaudo e di prevenire ogni tentativo d'insurrezione popolare finalizzata alla formazione di un governo meridionale separato dal resto dell'Italia. Subito dopo la promulgazione della legislazione in tutto il Meridione vi furono disordini e il modo in cui il Governo Sabaudo intervenne per ristabilire l'ordine valse solo ad esasperare maggiormente gli animi, poiché vi furono feroci rappresaglie come quelle ordinate dai militari contro i villaggi dai quali fuggivano i giovani renitenti alla leva. Nel Mezzogiorno continentale e specialmente in Basilicata si era organizzato un audace brigantaggio che riceveva aiuto da Roma non ancora liberata e nel quale, i cacciati Borboni riponevano le loro speranze per riavere il trono. Del resto, il fenomeno del brigantaggio meridionale fu la più seria minaccia alla stabilità del Regno Unito, poiché esso superò di molto i termini di un puro e semplice episodio di delinquenza ed assunse aspetti di un conflitto civile e sociale. Infatti, alla base del fenomeno del brigantaggio meridionale (Calabria, Basilicata e Puglia) vi era un profondo malessere sociale: la condizione di miseria e di ignoranza in cui vivevano le masse contadine; l'oppressione esercitata dai proprietari terrieri; e il tradizionale mal governo borbonico. Tutto ciò aveva fatto sì che le grandi masse contadine meridionali fossero rimaste estranee al movimento unitario nazionale. I contadini siciliani che avevano accolto Garibaldi con entusiasmo speravano in una distribuzione a loro favore delle terre una volta tolte ai proprietari terrieri, da loro chiamati i 'galantuomini'; ma il nuovo regime aveva immediatamente deluso quell'attesa. Delusa rimase anche la profonda aspettativa meridionale di un'autonomia regionale, particolarmente sentita in Sicilia. Così, il passaggio dal regime Borbonico a quello Sabaudo, anche se rappresentò un notevole progresso della qualità della vita sociale, aggravò seriamente le condizioni materiali delle popolazioni meridionali, poiché da una parte erano eliminati gli impieghi e le attività tradizionali legate alle strutture del regime Borbonico, dall'altra aumentava la pressione fiscale che con i Borboni era stata relativamente mite e che 'ora' a causa dei problemi di bilancio era piuttosto forte e colpiva indiscriminatamente la popolazione tramite il sistema delle imposte indirette sui consumi popolari. Infine, la coscrizione militare obbligatoria introdotta nel nuovo regime era un grave danno per le popolazioni agricole meridionali, poiché allontanava i giovani del lavoro nelle camne, tanto che dopo l'imposizione nel 1861 del servizio militare obbligatorio, ben 25.000 coscritti si dettero alla macchia allargando le file del brigantaggio che quindi aumentò di molto, anche perché i briganti ebbero spesso il sostegno dei contadini che continuavano a sperare di ottenere in qualche modo le terre. Per eliminare il brigantaggio Ricasoli succeduto a Cavour, promosse una terribile repressione che portò ad una lunga e sanguinosa guerriglia con l'impiego di ben 120.000 soldati, circa la metà dell'intero esercito nazionale. Fu anche promulgata una legislazione eccezionale (legge Pica 1863) che affidò ai tribunali militari i processi del brigantaggio. La guerriglia contro le bande più organizzate si chiuse già nel 1865, ma bande sporadiche di briganti continuarono a compiere attentati fino al 1870. L'operazione militare cancellò ogni residuo di banditismo e riportò l'ordine nelle regioni meridionali, ma non avviò a soluzione il problema agrario e sociale del Mezzogiorno. Infatti, la vendita di vastissimi terreni comunali e demaniali dell'ex Regno Borbonico e dei beni degli ordini religiosi, soppressi con la legge del 1866 (per un totale di circa un milione di ettari) avrebbe dovuto, secondo le intenzioni del governo, migliorare la distribuzione della proprietà fondiaria, incrementando la piccola e media proprietà. In realtà, l'operazione che serviva principalmente a coprire il deficit erariale non avvantaggiò i contadini i contadini che raramente avevano la disponibilità finanziaria per acquistare la terra e per sostenere le anticipazioni e i rischi della messa a cultura. Le nuove terre finirono perciò in massima parte nelle mani della borghesia agraria, la quale essendo padrona dei comuni riuscì con vari trucchi ad accaparrarsi migliori lotti di terra posti in vendita. Le masse contadine perdettero il godimento degli antichi 'usi civici', tra cui il diritto di pascolo e di raccogliere legna. Salari e condizioni di lavoro peggiorarono col passaggio dei contadini alle dipendenze dei proprietari borghesi, assai più attenti alla cura dei propri interessi e quindi più esigenti nei rapporti di lavoro. Il disagio meridionale aumentò al punto di esplodere in una grande rivolta scoppiata in Sicilia nel settembre del 1866 guidata dagli stessi uomini che sei anni prima avevano organizzato la rivoluzione popolare contro i Borboni. Il moto ebbe il sostegno del clero, dei lealisti Borboni, dei repubblicani e dei separatisti. Per sette giorni la città di Palermo rimase nelle mani dei rivoltosi; le perdite umane furono più elevate che nel '60. Seguì lo stato di assedio e una dura repressine. Anche in queste circostanze il risultato che si ottenne fu un più accentuato autoritarismo da parte del Governo. A tutto ciò si aggiunga, alla fine del '65, la politica finanziaria italiana era ancora gravemente deficitaria, tanto che le finanze italiane erano vicino al punto di rottura. Fu necessario, quindi, ricorrere a provvedimenti estremi che riuscissero in qualsiasi modo ad allontanare l'incombente minaccia di una bancarotta dell'Italia. Fu questa la situazione che dovette affrontare l'economista napoletano Antonio Scialoja, ministro delle finanze del tempo (1865-l867). Scialoja impostò la propria politica su due linee: prosecuzione dell'opera di ordinamento tributario, adozione di misure economiche eccezionali per far fronte alle ulteriori spese causate dall'entrata in guerra dell'Italia (terza guerra di indipendenza). Per il primo aspetto Scialoja elaborò un piano finanziario fondato sull'istituzione di un'unica grande imposta generale sul reddito che però non fu approvato. Il provvedimento più importante di Scialoja fu, quindi, l'introduzione del corso forzoso (1866) in base al quale i biglietti della Banca Nazionale, dichiarati per legge inconvertibili, venivano a sostituire l'oro che la moneta cartacea solitamente rappresenta, ponendo in tal modo lo Stato in condizioni di affrontare l'aumento delle spese con un semplice incremento della circolazione cartacea separandola 'forzosamente', cioè per legge, dalla massa d'oro ad essa sottostante. In pratica si trattò di una misura inflazionistica che alterò il rapporto tra valore reale e valore nominale della moneta con effetti negativi sui prezzi e sui salari, ma che consentì di sopperire ai bisogni dello Stato italiano, ostacolando nello stesso tempo l'afflusso di capitali e di merci estere che, a causa dell'inconvertibilità dei biglietti, trovavano in Italia un mercato poco remunerativo. Ciò permise alla debole struttura industriale del nostro paese, in particolare a quella manifatturiera, di non dover più competere con quella straniera, assicurando il mercato interno. Il governo riconosceva il privilegio del corso forzoso ai biglietti della Banca Nazionale e, quindi, gli altri istituti (nel 1866 le banche italiane erano cinque, le principali erano: la Banca Nazionale del Regno d'Italia di origine piemontese e il Banco di Napoli operante nel Mezzogiorno) dovevano cambiare la loro moneta solo con essa e ciò poneva l'istituto piemontese in una situazione di vantaggio, mentre il Banco di Napoli era danneggiato. Inoltre lo Scialoja compì una massiccia alienazione dei beni demaniali ed ecclesiastici emanando (1866- 67) un decreto legislativo che in pratica colpì in maniera più pesante i beni della Chiesa del Mezzogiorno che furono devoluti al demanio dello Stato. Ma il provvedimento più impopolare del governo italiano fu la tassa sul macinato (1868) che fu definita 'tassa della disperazione'. Ma essa non fu la sola piaga del mondo rurale dell'epoca: il dazio sui consumi, Fesosità dei patti agrari, la malaria e la pellagra erano i mali che opprimevano la massa contadina, specialmente nel Sud, per questo quando nel 1866 il presidente del consiglio Minghetti annunciò che lo Stato aveva raggiunto il pareggio del bilancio, si può bene immaginare come il sollievo dei politici non corrispondesse per niente ad un effettivo sollievo delle condizioni di vita dei ceti medi e delle masse popolari specialmente nel Sud. Ma non si potrà mai capire la storia del divario tra nord e sud se non si ripercorre criticamente la storia delle due economie. Non vi è dubbio che alla base della crescita economica delle aree settentrionali vi fu la fitta diffusione di piccole e medie imprese artigiane, soprattutto opifici che davano a lavorare la lana, il cotone, il lino alle famiglie contadine: questo rapporto fra economia agricola e fabbrica dei tessili continuerà anche quando subentreranno i telai meccanici. L'utilizzazione della manodopera contadina è una delle caratteristiche più evidenti dell'evoluzione economica delle zone settentrionali nella seconda metà del XIX secolo e la lavorazione della seta riusciva a sostenere la concorrenza sui mercati nazionali. A Sud le cose sono andate diversamente, perché come è già stato detto l'economia dello Stato Borbonico era già in ritardo rispetto a quello del Piemonte, del Lombardo -Veneto e della Toscana. Eppure nel Sud vi erano industrie sia tessili sia alimentari, ma queste presenze industriali, in buona parte dovute ad imprenditori stranieri, non influivano nello sviluppo dell'economia meridionale, ne erano favorite da un sistema viario interno, mentre le comunicazioni marittime a vapore e quelle ferroviarie erano finanziate da capitali stranieri (da ricordare che la ferrovia che collegava Napoli a Castellammare fu la prima ferrovia italiana). Tutta l'attività industriale e meridionale era accentrata intorno a Napoli e del tutto assente nel resto del Mezzogiorno e ciò indica una situazione di squilibrio e di debolezza della struttura industriale meridionale che si può dire sia durata fino agli anni Cinquanta del nostro secolo. La stessa legge speciale del 1904 per Napoli, varata dal Governo Giolitti, sullo sviluppo industriale della città non riuscì a modificare tale assetto insediativo, nonostante tra i suoi obiettivi vi fosse anche l'estensione della zona industriale verso il resto del Mezzogiorno. Il nucleo industriale campano può essere descritto come un triangolo avente come vertice il distretto di Sora, in Terra di Lavoro, e come base la direttrice geografica Napoli - Salerno. L'industria più diffusa era quella del cotone; meno diffusa, ma tecnologicamente avanzatissima era la manifattura lino-canapiera; importante era anche l'industria laniera e quella serica, ma quasi tutta l'industria tessile alla quale il governo aveva assicurato la protezione, era quasi tutta nelle mani degli imprenditori svizzeri con le conseguenze sopradette per l'economia della zona. Si aggiunga a tutto ciò il fatto che l'economia del Mezzogiorno era prevalentemente caratterizzata da un'agricoltura statica ed arretrata per l'assenteismo dei padroni e per i tanti vincoli arcaici che sottomettevano i contadini ancora all'arbitrio dei signori. Dopo l'unità d'Italia il Meridione ebbe un alto incremento demografico che si è accentuato ulteriormente subito dopo la fine della grande guerra e precisamente dal 1921 al 1951, dopo di che il ritmo di crescita della popolazione meridionale è molto diminuito sia per la ripresa del movimento migratorio sia per una netta diminuzione della natalità prodotta dal diffondersi delle pratiche contraccettive. L'intera emigrazione italiana nel periodo 1871-l951 è stata di 6.897.000 unità, di cui il 46% proveniente dal Mezzogiorno, il che significa che la perdita di popolazione per effetto dell'emigrazione ha raggiunto nel Sud oltre 1'86% dell'incremento determinato delle nascite. L'emigrazione meridionale non coinvolse solo vaste masse di proletariato continuo, ma anche gruppi consistenti di piccola e media borghesia: artigiani, commercianti, imprenditori, ex militari, piccoli proprietari, ecc. Costoro furono costretti all'emigrazione per sopravvivere ad una povera e precaria condizione di vita aggravata da una dura politica fiscale. Fu il napoletano Pasquale Villari, storico e patriota risorgimentale, che scrisse le prime analisi sulle misere condizioni del Mezzogiorno in una serie di 'Lettere meridionali', pubblicate fin dal 1861 e proseguite fino al primo decennio del '900. Sul suo esempio nacquero numerosi contributi dedicati all'analisi della società meridionale, analisi che continua ancora ai nostri giorni e di cui i più rappresentativi sono stati: Giustino Fortunato (uomo politico meridionale che si scagliò contro il trasformismo parlamentare, il protezionismo agrario e tutta la classe dirigente meridionale, assenteista e clientelare); Gaetano Salvemini (sostenitore del suffragio universale e dello stato federale); Antonio Granisci (per il quale la questione meridionale era dovuta ad una rivoluzione 'agraria mancata', ossia all'assenza di una riforma agraria che avesse creato nel Mezzogiorno una classe di piccoli proprietari terrieri di origine contadina che avrebbero potuto dare il loro consenso allo Stato Risorgimentale, costringendoli poi ad una più giusta retribuzione delle terre. Granisci, come Salvemini, auspicava l'alleanza tra le masse contadine meridionali e classi operaie settentrionali, entrambi dirette da un partito rivoluzionario che avrebbe completato effettivamente l'unità d'Italia); Luigi Sturzo (conoscitore profondo della struttura agraria della Sicilia, sfidando più volte la mafia del luogo, si batté per la liquidazione del latifondo, per una riforma agraria che consentisse la formazione di medie aziende agricole, capaci di autofinanziarsi, e per tante altre iniziative basate sull'effettiva capacità economica che il territorio offriva. Infine, non possiamo non ricordare i grandi letterati che ci hanno dato dei capolavori ponendo al centro delle loro opere, sia di tipo saggistico sia di tipo narrativo, la gente del Sud. La storia dei braccianti e dei pescatori trova in alcuni scrittori meridionali degli attenti e sensibili testimoni. Vanno citate per il loro valore documentario sulla situazione sociale del Mezzogiorno le opere di Verga: 'I Malavoglia' (1881) e 'Mastro don Gesualdo'(1889). Opere espressive sul periodo dell'unificazione sono: 'I Viceré' (1894) di De Roberto; 'I vecchi e i giovani' (1913) di Pirandello e il 'Gattopardo' (1858) di Tommasi di Lampedusa. In epoca fascista la questione meridionale subì una battuta di arresto, il regime si alleò con i grandi proprietari terrieri, come denunciò emblematicamente il romanzo 'Fontamara' (1930) di Silone che racconta i soprusi patiti dai cafoni abruzzesi e la loro presa di coscienza politica. Delle lotte dei contadini molisani narra 'Le terre del Sacramento' (1950) di Jovine e dei braccianti lucani 'Cristo si è fermato ad Eboli' (1945) di Carlo Levi. In epoca più recente, oltre alla cospicua produzione cinematografica sul Meridione, si segnala l'opera di Leonardo Sciasela, sia narrativa che saggistica, importante soprattutto per l'analisi del fenomeno della mafia in alcune zone del Meridione. A partire dal 1950 col l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, un ammontare notevole di risorse è stato destinato allo sviluppo del Sud Italia. Schematicamente si possono distinguere due periodi. 11 primo tra il 1950 e metà anni Settanta, vide la questione meridionale al centro dell'attenzione culturale e politica come un grande problema nazionale, se non il maggiore. L'industrializzazione del Mezzogiorno era considerata lo strumento fondamentale per il raggiungimento di un più generale processo di crescita economica e sociale, per i suoi effetti occupazionali, di reddito e di trasformazione sociale. La politica di industrializzazione oscillò in questo periodo tra due concezione: da un lato, la promozione di iniziative locali prevalentemente medio -piccole e collocate nei settori tradizionali; dall'altro lato, il trapianto dell'esterno dell'area di grande iniziative, spesso ad alta intensità di capitale. Nel periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta l'incentivazione era diretta quasi esclusivamente alle piccole imprese; dal 1965 in poi anche le grandi imprese poterono accedere a queste agevolazioni, ottenendone una quota molto elevata. Gli strumenti principali sono stati i contributi in conto capitale, agevolazioni fiscali per chi investiva al sud, la fiscalizzazione degli oneri sociali. In questi anni il divario tra sud e centro - nord si riduce e aumenta il tasso di industrializzazione dell'aria meridionale. Sono stati favoriti insediamenti ad alta intensità di capitale concentrati nelle produzioni di base (petrolchimica e siderurgia) che 'hanno creato relativamente poca occupazione in relazione al capitale investito. A partire da metà anni Settanta, l'emergere di crisi economiche e politiche che hanno investito il paese nel suo complesso portano a un ridimensionamento e a una modificazione della politica meridionalistica. L'attività della Cassa per il Mezzogiorno è limitata per legge al completamento delle opere già intraprese e alla realizzazione di alcuni progetti speciali. Nel frattempo è esteso l'uso della fiscalizzazione degli oneri sociali. Sono create delle istituzioni volte al sostegno delle piccole imprese, sono introdotti nuovi tipi di incentivo volti a facilitare la creazione di centri di ricerca nel Mezzogiorno.
A partire dal 1986 è apparso sempre più chiaro che alcuni dei gravi problemi sociali ed economici che gli anni Cinquanta e Sessanta ponevano per il Mezzogiorno si sarebbero riproposti drammaticamente, in particolare il problema della disoccupazione. È stata varata una nuova legislazione per intervento straordinario nel Mezzogiorno. La Cassa è sostituita da una agenzia che ha la struttura di una finanziaria, mentre la gestione dei programmi di intervento è decentrata agli organismi locali. L'intervento straordinario previsto dalla nuova legislazione comprende l'estensione dell'agevolazione agli interventi di ristrutturazione e riconversione, l'introduzione delle attività di ricerca tra quelle incentivate, la conferma ed estensione delle agevolazioni automatiche, e costituisce un forte stimolo alla ripresa della localizzazione al sud di imprese industriali e di centri di ricerca.
Profilo giuridico
Il diritto del lavoro, regola un rapporto caratterizzato dalla subordinazione di un soggetto, il lavoratore, nei confronti di un altro, il datore di lavoro. La subordinazione che risale alla fine del secolo passato è mutata in ragione dello sviluppo economico, tipico di una società industriale e delle innovazioni tecnologiche, che ha comportato un diverso modo di lavorare. Altro fattore di mutamento è stata l'espansione del lavoro impiegatizio e dirigenziale. SÌ possono distinguere due tipi di subordinazione: una socioeconomica e l'altra tecnica. La subordinazione economica di un soggetto ad un altro, specie nella fase di formazione del rapporto e quindi della conclusione del contratto, si presenta in molti contratti di scambio. La subordinazione tecnica consiste nell'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale. Il contratto di lavoro ha per oggetto non il godimento di una cosa, quale certamente non può essere considerato il lavoratore, ma un'attività svolta in regime di subordinazione. Il codice civile attuale è stato emanato nel 1942 quando era ancora vigente il sistema corporativo. N'è derivata una definizione di lavoro subordinato impegnata d'elementi corporativi, dei quali essa si è liberata solo a seguito di una lunga interpretazione evolutiva, d'adeguamento ai principi costituzionali. E prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettivo o manuale, alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore. È importante osservare che la disposizione fa riferimento alla collaborazione 'nell'impresa', non alla collaborazione 'all'impresa' che comporterebbe una fiducia molto intensa tra datore e prestatore. La collaborazione nell'impresa sta a significare piuttosto una caratteristica della prestazione di lavoro e cioè idoneità ad essere inserita nell'organizzazione dell'azienda. Se il risultato finale può essere realizzato solo con il potere di coordinamento del datore, ricadendo dunque su di lui il rischio, questo non significa che la prestazione di lavoro non possa essere diretta ad un risultato intermedio, come un servizio (trasporto, mandato, ecc.), che a sua volta dovrà concorrere, in quanto coordinato dal datore, al risultato finale. Gli aspetti dell'art.2094 c.c. su cui occorre fermare l'attenzione per individuare l'essenza del lavoro subordinato sono la dipendenza e la soggezione al potere direttivo. I due concetti sarebbero equivalenti, lavorare alle dipendenze significherebbe lavorare sotto la direzione. Non vi è dubbio che sono complementari, ma a ciascuno può essere attribuito un significato diverso. Per il concetto di dipendenza, la dottrina fa ricorso alla subordinazione socioeconomica, intendendo con essa l'estraneità del lavoratore rispetto ai mezzi di produzione e rispetto al risultato. L'estraneità rispetto ai mezzi di produzione consente di precisare il carattere esclusivamente personale della prestazione di lavoro. Gli strumenti di lavoro di proprietà del lavoratore devono essere di scarsa importanza, tenuto conto delle circostanze di svolgimento del lavoro. Mentre l'estraneità rispetto al risultato, sta a significare che il datore di lavoro organizza l'attività del prestatore anche quando questa consiste in un'opera o in un servizio, realizzando un risultato ulteriore a quello lavorativo, l/art.2094 c.c. ha sancito l'inserimento della prestazione di lavoro nell'organizzazione aziendale in tutti i suoi segmenti temporali, ne consente, da parte del datore, la direzione continuativa a cui il prestatore di lavoro è assoggettato. Si tratta di assoggettamento gerarchico (art.2086 c.c.) secondo cui l'imprenditore è capo dell'impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori. L'art.2094 c.c. fa riferimento anche alla retribuzione. La quale, tuttavia, non è un elemento idoneo a qualificare la fattispecie di lavoro subordinato, in quanto è ad essa esterna, rientrando nella sfera degli effetti: solo una volta accertata la natura subordinata di un determinato rapporto, ad esso dovrà applicarsi la retribuzione. Nei paesi meno sviluppati, il settore 'informale' dell'economia comprende una miriade di piccoli mestieri urbani, come quello di venditore ambulante senza licenza, e lavori precari nelle camne, come quello di bracciante a giornate. Rientrano in questo settore anche molti lavoratori artigianali e di fabbriche di piccole e medie dimensioni che producono in genere per l'esportazione. L'esistenza di un gran numero di persone in cerca di lavoro e l'espansione del settore 'informale' dell'economia hanno determinato, in molti paesi, un calo di salari reali: nel decennio 1980-89, in America latina, il salario minimo è diminuito in media di circa il 25% e, nel settore 'informale', di oltre il 40%. Il fenomeno è diffuso anche nei paesi economicamente più sviluppati. In Italia, secondo una recente ricerca dell'Eurispes sull'economia sommersa, vi sarebbero quasi 11.000.000 di lavoratori irregolari, di cui 7.000.000 con doppio lavoro presenti in tutte le aree geografiche per la maggior parte nel mezzogiorno, e in tutti i settori economici soprattutto nell'agricoltura, nei servizi e nell'edilizia. Si valuta che in quest'ultimo settore, oltre il 50% degli occupati sia costituito da lavoratori irregolari. Il lavoro nero, sfuggendo agli obblighi fiscali e contributivi, comporta una frode fiscale annua di circa 60.000 miliardi.
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