sociologia |
Progettare significa predisporre, per mezzo di uno studio attento e di adeguate previsioni, un piano per attuare un'idea o per superare una difficoltà.
Il progetto è un tentativo di risposta provvisoria, in quanto è l'anticipazione e la previsione di un risultato; è un'ideazione che richiede una riflessione relativa alla possibilità da attuazione.
Questa ideazione può avvenire grazie all'immaginazione, è grazie ad essa che si possono esplorare mondi possibili. Componente fondamentale dell'immaginazione è l'intuizione, grazie alla quale prendono corpo le ipotesi, le idee direttrici che conducono alla scoperta.
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AREZZO
Il comune di Arezzo ha cercato di sviluppare un percorso sulla cultura della sicurezza e della legalità, partendo dal presupposto secondo cui "la sicurezza personale dei cittadini e la possibilità di utilizzare tranquillamente tutti gli spazi delle città in ogni ora della giornata, così come di sentirsi sicuri nelle proprie abitazioni, costituiscono un diritto che sta alla base del patto sociale tra società civile ed istituzioni".
Il comune di Arezzo propone un modello di "sicurezza partecipata" che risponde ad un'esigenza di democrazia (potere del popolo) e che si articola in un complesso sistema di relazioni. L'assunto di base del modello di sicurezza partecipata è che non si contrastano le logiche illegali senza l'unione di istituzioni, cittadinanza e forze sociali. Il modello propone dunque un decentramento di ruoli e funzioni, verso la valorizzazione di una competenza comunitaria.
In che modo si è cercato di rendere possibile tutto questo?
Attraverso l'impegno di operatori sociali, attraverso degli incontri nei Comuni, tramite dei focus group con le polizie municipali (per la conoscenza delle diverse realtà territoriali), con dei seminari e con la partecipazione al Forum europeo ed italiano per la sicurezza urbana, che ha permesso il confronto con le altre realtà italiane ed europee.
Ha collaborato al progetto anche L'Osservatorio provinciale sugli incidenti stradali, che ha permesso la realizzazione, dopo lo studio dei dati, di allargamenti e risagomature dei tratti ritenuti più pericolosi.
È stato inoltre utilizzato, come modalità d'azione, un intervento di 8 ore su problematiche come la droga, l'alcool, il disagio, le norme, le regole e il comportamento giovanile, all'interno di un corso di formazione per apprendisti minori.
VALUTAZIONE
All'avvio del progetto non c'era un modello di valutazione che lo riguardasse nella sua interezza, le riflessioni e le iniziative da sviluppare venivano individuate in itinere. Le indagini informali conseguite a mano a mano che il progetto andava sviluppandosi hanno consentito che non fosse necessario prevedere un'indagine conoscitiva iniziale complessiva. È dunque mancato un modello generale di valutazione, sostituito da momenti di autovalutazione che non sono stati tuttavia affiancati da una valutazione esterna. Questo comporta ovviamente dei limiti pratici (legati alla consuetudine) e teorici (difficoltà di cogliere alcune implicazioni relative al proprio intervento).
RISULTATO
Alcuni obiettivi sono stati raggiunti, ma la fragilità di alcuni interventi ha ostacolato il crearsi di un'effettiva condivisione della cultura della sicurezza.
BAGHERIA
Esiste una grande divergenza (gap) tra lo stato dell'insicurezza della collettività che è la probabilità del soggetto di subire un'aggressione e la percezione soggettiva di sicurezza che è invece data dalla capacità che la persona si riconosce nel prevenire, controllare gli eventi negativi.
La reazione alla percezione soggettiva di sicurezza può collocarsi lungo un continum che va dall'evitare certi luoghi e/o persone definite all'cambiamento dello stile di vita. Per esempio l'anziano rischia di cambiare talmente tanto il proprio stile di vita che può arrivare ad essere un emarginato.
Il progetto Laerte del comune di Bagheria, di cui si è occupato il Commissariato di Polizia dello stesso Comune, mira proprio ad aumentare indirettamente la percezione soggettiva di sicurezza delle persone anziane.
In che modo?
Attraverso innanzitutto l'introduzione nel tessuto sociale quotidiano della polizia di prossimità con il compito di permettere una maggiore conoscenza del territorio, di prevenire eventuali eventi di inciviltà e criminalità, costruire un legame quotidiano con la comunità.
Il progetto Laerte è dunque rivolto agli anziani che nelle nostre città sono sempre più ostacolati da barriere tecnologiche come i computer, dall'organizzazione sempre più complessa dei mezzi di trasporto pubblici e dalla riduzione degli spazi classici di aggregazione (circoli, parrocchie). Tutto questo determina in definitiva una progressiva riduzione del sistema relazionale dell'anziano, che può dunque andare sempre di più verso l'isolamento e la depressione.
Attraverso il progetto il Comune si propone di:
attivare dei volontari che accomnino gli anziani per sbrigare le pratiche di routine (uffici, poste banche)
garantire la presenza di forze dell'ordine in orari e contesti determinati, d'intesa con gli operatori sociali
stipulare convenzioni con artigiani per risolvere nell'immediato alcune incombenze (apertura porta, sostituzione serratura)
fare assicurazioni per i danni da reati
organizzare delle attività di sostegno psicologico e delle riunioni per informare, prevenire su situazioni che rendono gli anziani più vulnerabili ai reati
sensibilizzare maggiormente l'Asl per l'assistenza/sostegno a domicilio e/o telefonica dopo il fatto reato
sensibilizzare la associazioni di volontariato, i privati cittadini, gli istituti di credito, le agenzie postali, gli istituti di vigilanza
VALUTAZIONE
Per questo progetto è stato previsto un impianto di valutazione partecipata condotto da un esperto in processi di valutazione.
COLOGNO MONZESE
La prevenzione può essere definita come l'azione del prevenire eventuali occasioni di danno alle persone; è una sorta di anticipazione della devianza e del disadattamento.
Una distinzione classica di prevenzione è quella che la differenzia in Primaria, Secondaria e Terziaria.
La prevenzione Primaria è quella diretta alla collettività anche se i destinatari sono quei soggetti specifici che già evidenziano segni di adesione a modelli comportamentali devianti.
La prevenzione Secondaria è diretta a quei soggetti specifici che già evidenziano segni di adesione a comportamenti devianti, con lo scopo di impedire che la condizione problematica si trasformi in condotta antigiuridica, per evitare dunque il consolidamento di comportamenti indesiderati. La prevenzione secondaria è rivolta anche all'ambiente del soggetto a rischio nel tentativo di operare una destrutturazione.
La prevenzione Terziaria è diretta a quei soggetti il cui comportamento è stato rilevante sul piano giuridico; per la prevenzione terziaria, prevenire significa dunque evitare le recidive, e questo intervento presuppone perciò una fiducia nella rieducabilità.
Il progetto Deta del Comune di Cologno Monzese, è un progetto di natura preventiva. Il suo obiettivo è quello di ridurre a zero la tendenza della devianza giovanile a Cologno Monzese. Si propone inoltre 2 obiettivi intermedi che sono quelli di coinvilgere i giovani in questa progettualità preventiva e incidere sul rinnovarsi di condotte antigiuridiche di quei soggetti già entrati in contatto con agenzie di controllo sociale.
Si suggeriva la necessità di una prospettiva multidisciplinare, e quindi di un intervento criminologico affiancato da interventi di tipo psicologico e sociologico. Per questo era necessario che le diverse équipe avessero un'impostazione metodologica comune, ma ciò non è avvenuto.
Una delle difficoltà nel rendere operativo un progetto interdisciplinare è quella di integrare le diverse modalità di intervento.
"L'ambizione di ogni operatore dovrebbe essere quella di mostrare come sia possibile sviluppare lavoro sociale con azioni orientate alla costruzione di saperi e di competenze che superino ottiche settoriali ed egemonie professionali. Non avrebbe senso accogliere una prospettiva progettuale unicamente in quelle strutture organizzative che sono già pronte ad accoglierla.
() Occorre impostare la collaborazione affinché nessuna parte debba accettare livelli di mediazione che snaturino la specificità di compiti e ruoli, e ridurre la possibilità che il committente possa mettere in discussione, in ogni momento, gli accordi sulla cui base vengono approntati gli interventi. () Un progetto può essere rappresentato come un campo all'interno del quale agisce una rete di attori con competenze e saperi diversificati, che si attivano attorno ad un problema comune per raggiungere determinati risultati. Questo comporta costruire una metodologia di lavoro interprofessionale e interistituzionale, per cui il progetto diviene una scelta condivisa con obiettivi comuni e strategie di intervento differenziate, ma interagenti tra loro.
Riguardo all'intervento individualizzato, è stata la difficile interazione con la componente psicologica a influire negativamente. L'attività individualizzata a matrice criminologica era stata impostata assumendo come categoria quella dell'identità sociale.
Nel documento di avvio di affermava che si doveva tentare di trasformare le capacità individuali (le condizioni soggettive di compimento di atti) in competenza sociale, cioè in procedure di azione che comportassero il perseguimento di obiettivi all'interno di una progettualità collettiva.
Lo sforzo dell'équipe criminologica era diretto a far sì che i giovani non venissero più "presi in carico" dai servizi, ma che "si prendessero in carico", cioè affrontassero in maniera autonoma le situazioni individuali. Tuttavia questa prospettiva comportava che il soggetto si trovasse nella situazione (anche psicologica) per impegnarsi in questo sforzo. Indirizzare le capacità individuali al raggiungimento di obiettivi richiede, infatti, qualità personali che costituiscono prerequisito per l'attivazione di interazione sociale. Il soggetto deve acquisire competenze che riguardano la sua capacità di affrontare situazioni differenti.
Avere preurato una collaborazione con l'équipe psicologica rispondeva alla convinzione che uno sforzo di presa in carico del soggetto da parte del soggetto stesso avrebbe comportato una serie di problemi attinenti la sfera personologica, non di pertinenza della criminologia.
Il mancato concretizzarsi di questa collaborazione conferma che un intervento individualizzato a matrice criminologica non è sufficiente affinché i giovani possano maturare un impegno di confronto sociale.
Riguardo poi al coinvolgimento dei giovani nelle iniziative territoriali al fine di pervenire alla costruzione di una progettualità preventiva, ha inciso in maniera sfavorevole non avere maturato obiettivi e metodologie comuni con l'équipe sociologica.
Tentare di far crescere un impegno dei giovani in una progettualità preventiva aveva come condizione che la loro presenza sociale non venisse decontestualizzata, il che avrebbe comportato riuscire a coinvolgerli in modo che, partecipando alle iniziative, affrontassero i problemi connessi alla loro identità sociale e potessero trasferire all'interno dei luoghi istituzionali quanto avevano maturato partecipando alle iniziative del progetto.
Molto degli ostacoli incontrati avrebbero potuto essere superati se ci si fosse muniti, sin dall'inizio, di un modello e di strumenti di valutazione.
Non vi è riflessione valutativa efficace se essa non nasce contestualmente alla definizione del programma.
"È importante munirsi di modalità per una riflessione permanente sullo svolgimento delle azioni non solo per fare sì che un progetto sia, in ogni fase, aperto alle modificazioni di volta in volta necessarie, ma soprattutto perché la valutazione, oltre ad avere un valore in sé, è uno strumento che consente di verificare se il progetto ha un programma sufficientemente strutturato.
Il momento valutativo comporta misurarsi con la precisazione degli obiettivi finali, con la definizione delle tappe di lavoro parziali, con la natura delle risorse e degli impegni destinati ad ogni fase, con la priorità delle scelte da compiere, con le modalità del processo di negoziazione tra le parti.
Essa non deve essere intesa solo come strumento di controllo, bensì come modalità di lavoro che consenta l'introduzione di un elemento stabile di riflessività sulla propria azione. Valutazione, quindi, come conoscenza attraverso un processo riflessivo, come acquisizione di consapevolezza, some sforzo per migliorare la qualità del lavoro.
Valutazione non solo come insieme di strumenti tecnici per la verifica del lavoro compiuto, ma come riflessività per la riproducibilità dell'azione sociale."
AUTOVALUTAZIONE
Dal lavoro autovalutazione sono emersi alcuni elementi:
ai soggetti detenuto o segnalati dal Tribunale per minorenni sono state concretamente ed in maniera continuativa offerte opportunità per porsi in termini progettuali di fronte al proprio futuro, tuttavia questi soggetti hanno mostrato maggiore interesse a ottenere risposte ai bisogni immediati, piuttosto che nel farsi coinvolgere in una progettualità complessivo/qualitativa.
Infine il fenomeno della devianza non è affiorato come "problema" né per i giovani normoinseriti né per i giovani autori di reato. La devianza è stata rappresentata come una forma comportamentale estranea per i primi soggetti, e rilevante solo per i suoi aspetti "pratici" (conseguenze) per quanto riguarda i secondi.
Per quanto riguarda i giovani considerati problematici, ci si è scontrati con soggetti i cui comportamenti apparivano saldi all'interno di una "razionalità pratica", razionalità che "si riferisce pragmaticamente all'agire quotidiano in stretta relazione agli interessi (egoistici) dell'attore"; una razionalità che "non cerca di trasformare la realtà data, ma solo di trovare i mezzi più adeguati per superare le eventuali difficoltà e aumentare i vantaggi che se ne possono trarre"; una razionalità che è rivolta più ai mezzi che ai fini presenti nel sociale, i quali possono venire più o meno accettati e verso i quali non si ha, comunque, un atteggiamento critico. In sostanza una razionalità strumentale.[1]
Il progetto Deta seguiva una logica che implicava un interesse un interesse a rielaborare il significato delle condotte in termini di azione sociale. Il che comporta passare da una razionalità strumentale ad una "razionalità progettuale", impegnandosi nel costruire azione sociale.
I soggetti venuti in contatto con l'équipe avevano reiterato in condotte antigiuridiche.
Perché?
Non era la valenza fenomenica della recidiva a costituire il problema, ma la constatazione che questa (recidiva) si connotava come mera reiterazione comportamentale, e non come espressione di un'acquisita e consapevole dimensione progettuale.
Uno dei limiti del progettio Deta è stato pretendere di delineare come e perché i soggetti dovrebbero divenire protagonisti di azione sociale, senza aver verificato preventivamente se i contenuti del progetto rispondessero alle loro esigenze, esigenze di una razionalità strumentale e non progettuale!
L'équipe criminologica avrebbe dovuto uscire dalla logica delle iniziative culturalmente preconfezionate e fare realmente proprio il messaggio per cui per "costruire prevenzione" è necessario che l'impegno non sia interamente delegato alle istituzioni e agli operatori sociali. Un modo sarebbe stato far scrivere il progetto ai giovani stessi, per non viverlo come una realtà precostituita alla quale adeguarsi.
"La fecondità di un progetto non risiede solo nelle risposte che riesce a offrire, ma dipende soprattutto dagli interrogativi che riesce a formulare".
MILANO
GIOVANI CHE RAPINANO O GIOVANI RAPINATORI?
Attraverso questa indagine si è cercato di individuare quale sia la rappresentazione relazionale della rapina nei giovani. Si è per questo somministrato un questionario a studenti delle scuole superiori tra i 16 e i 18 anni.
Nella prima parte venivano presentate alcune parole-stimolo a cui soggetti dovevano associare alcuni termini. Le parole-stimolo erano: denaro, giustizia, rischio, persona, minaccia, dove.
Nella seconda parte venivano formulate delle domande a cui l'intervistato ha dovuto rispondere utilizzando alcuni dei termini associati alle parole-stimolo. 1) COS'è PER TE LA RAPINA? Per comprendere se le azioni per compierla hanno o no dimensioni progettuali. 2) CHE COSA DEVE FARE UNA PERSONA PER COMPIERE UNA RAPINA? Per comprendere se le azioni per compierla hanno o no dimensioni progettuali. 3) QUALI SONO I MOTIVI CHE POSSONO PORTARE A COMPIERE UNA RAPINA? Per comprendere se vi sono casi in cui la rapina è considerata giustificata. 4) SECONDO TE, QUALI SONO I LUOGHI IN CUI SI SVOLGE UNA RAPINA? ELENCANE TRE. 5) SECONDO TE, QUALI PERSONE SUBISCONO Più FACILMENTE UNA RAPINA? ELENCANE TRE. Per comprendere quale sia la tipologia di vittima maggiormente a rischio nell'immaginario dell'intervistato. 6) COSA DEVE FARE UNA PERSONA PER DIFENDERSI DA UNA RAPINA? Per comprendere cosa viene proposto come azione in risposta al crimine.
RISULTATI
Sia i giovani che gli adulti descrivono il reato in maniera funzionale: la rapina è considerata come un mezzo per ottenere in tempo brevi del denaro al fine di soddisfare necessità immediate. Si nota nella definizione una scarsa considerazione della vittima e si nega l'importanza dell'elemento costitutivo di una rapina, che è la minaccia. Entrambi hanno poi sottolineato la necessità di una pianificazione dell'atto. Secondo i giovani il motivo principale che può portare a compiere una rapina sono i soldi, mentre per gli adulti hanno perlopiù addetto come giustificazione la disperazione. Per entrambi valgono anche droga, disagio psicologico, elementi presenti ampiamente nel senso comune. Per quanto riguarda i luoghi entrambi hanno considerato le banche, i negozi, i supermercati e le gioiellerie. Per quanto concerne le vittime secondo i giovani sono a rischio: ricchi, deboli e negozianti. Secondo gli adulti: deboli, anziani, donne, negozianti. Alla domanda su come una persona può difendersi da eventuali rapine entrambi hanno risposto reagendo e installando allarmi.
Nei giovani emerge una immagine di rapina come mezzo per ottenere in tempi brevi del denaro al fine di soddisfare necessità immediate. ½ è una scarsa considerazione della vittima e quindi di conseguenza dell'elemento della minaccia. Solo metà degli adulti inserisce nella definizione di rapina l'elemento della trasgressione alla norma. Entrambi pensano che l'atto debba essere pianificato.
Nella seconda fase dell'indagine è stato somministrato lo stesso questionario a ragazzi di comunità minorili (Istituto Penale per Minorenni di Milano).
Sono emersi elementi significativi.
le persone più soggette alle rapine sembrano essere coetanei o individui benestanti (apparentemente), e non invece anziani e deboli come vuole il senso comune.
Il termine "rubare" è usato indifferentemente sia per furto[2] che per rapina , e questo evidenzia la non consapevolezza del significato penale di tali azioni. Vi è una conferma della negazione dell'elemento della minaccia e con esso vi è scarsa considerazione della vittima.
Alcuni degli intervistati afferma la necessità di uso di sostanze stupefacenti[4] (alcool, cocaina, oppio) o alcoliche per compiere una rapina.
Con questi nuovi soggetti, perlopiù di nazionalità straniere, si sono verificate delle lacune nel primo tipo di questionario, per cui si era deciso di impostarlo in maniera diversa ed in modalità orale.
Sono state quindi individuate 2 parole-stimolo: strada e comnia.
Queste due parole sono state scelte perché facenti parte dell'esperienza normativa dei ragazzi e in base al fatto che la rapina è un evento relazionale.
Si è deciso di condurre un'indagine qualitativa con i giovani dell'I. P. M. "Beccaria" per esplorare il fenomeno della rapina compiuta da minorenni.
Attraverso dei focus group ("intervista di gruppo") da 6 a 8 persone, con la presenza di un moderatore in qualità di conduttore dell'intervista e un osservatore, centrati su un argomento specifico. Le interviste di gruppo facilitano il confronto, l'interazione e la partecipazione.
I focus group prevedono elementi che li caratterizzano:
Omogeneità del gruppo, negli interessi: per facilitare la discussione sul tema proposto; riguardo all'età: quando i soggetti percepiscono di essere in un gruppo di pari saranno più a proprio agio nell'esprimere opinioni. Omogeneità anche per quanto riguarda le condizioni socio-culturali in quanto eventuali differenze potrebbero far insorgere il timore di essere giudicati, penalizzando la naturalezza del confronto.
Il nostro gruppo è omogeneo in quanto formato da soggetti maschi, di un determinato arco di età, ristretti in un istituto penale. Anche se diverso è lo stato socio-culturale e diversi sono i reati commessi.
Le domande fatte durante il focus group erano inerenti alle due parole-chiave "strada" e "comnia".
Si è deciso di interpretare i dati emersi durante la ricerca qualitativa attraverso la teoria sull'anomia[5] di Merton.
La teoria dell'anomia di Merton è basata sul concetto di devianza. Merton notò che all'interno della società certe mete vengono messe in risalto più di altre (es.: successo economico) e che la società ritiene legittimi certi mezzi per raggiungerle. Quando quelle mete vengono enfatizzate in modo pressante, si creano le condizioni per l'anomia: non tutti gli individui hanno uguale possibilità di successo economico con mezzi legittimi, di conseguenza tenteranno di raggiungere la stessa meta anche con mezzi illegittimi. Merton ha cercato di spiegare come una struttura sociale patologica, incapace di fornire a tutti i membri le stesse opportunità, finisce per indurre una certa tensione, spingendo gli individui verso la devianza, e che dunque sono le classi inferiori a soffrire in misura maggiore delle condizioni anomiche e ad essere coinvolte maggiormente in attività devianti.
Per Merton dunque la società è colei che genera qualunque comportamento, sia quello anticonformista che quello conformista. La classe dominante determina le mete sociali, mentre la classe subalterna interiorizza tali mete, ma non sempre dispone dei mezzi per raggiungerle.
Merton definisce 5 categorie, modi di adattarsi alla società:
CONFORMISTI (l'americano di successo): non hanno situazioni anomiche, non sono devianti, in quanto accettano sia le mete culturali sia i mezzi istituzionalizzati.
INNOVATORI (chi raggiunge il successo tramite per es. la corruzione): sono quelli che presentano la situazione più anomica, tali soggetti interiorizzano le mete culturali, ma le perseguono attraverso mezzi istituzionalmente proibiti (anche se funzionali al raggiungimento dell'obiettivo socialmente condiviso).
RITUALISTI (burocrate che fa il suo dovere senza pensare ai risultati, alle mete): accettano acriticamente i mezzi istituzionalizzati ma si rassegnano nel non poter ambire alle mete culturali.
RINUNCIATARI (tossicodipendenti, senza fissa dimoraEMARGINATI): rifiutano sia le mete culturali che i mezzi istituzionalizzati .
RIBELLI (i rivoluzionari): individui che hanno mete proprie e mezzi propri e che intendono sovvertire lo status quo.
Innovazione e Ritualismo sono casi esemplari di anomia secondo Merton, perché in entrambi i casi c'è discontinuità tra scopi e mezzi per raggiungerli.
Tutti, tranne il conformismo[6], sono devianti.
RISULTATI DELLA RICERCA QUALITATIVA
Le vittime non sono le persone indifese, ma sono i coetanei dei rapinatori. Perché in essi i rapinatori vedono il loro oggetto di interesse. La vittima risulta essere il modello da imitare, più che il nemico da combattere. Essere in possesso delle stesse cose che ha la vittima significherebbe acquisire un'identità. Gli oggetti per cui i giovani commettono rapine o furti hanno una valenza più simbolica: la finalità è fondata sull'essere e non sull'avere.
Gli atti vengono compiuti in comnia, comportando così una deresponsabilizzazione nei confronti della vittima. L'uso di sostanze stupefacenti risulta essere indispensabile per compiere tali azioni. Esse fungono da mezzo per acquisire coraggio e diminuire ancora di più il grado di responsabilità nei confronti della vittima. (Alcool e comnia per diminuire la responsabilità).
L'uso di sostanze assume inoltre una valenza ludica ed aggregativa. In quanto vengono usate per divertimento e in comnia, per stare bene insieme.
Un altro elemento interessante emerso è il nomadismo di comnie; il giovane non è inserito in un'unica comnia, ma le cambia in base alle opportunità che offrono. Più comnie aprono un ventaglio di scelte riguardo alle azioni da compiere. L'individuo risulta capace di riconoscere le norme e le regole di quel determinato gruppo in modo tale da poter anticipare mentalmente tutte le possibilità di azione.
È stata rilevata l'importanza della "strada" come contesto connotato da una valenza espressiva (luogo di incontro dove nascono amicizie), e da una valenza strumentale (luogo in cui si compiono azioni). L'amicizia è risultata essere il comune denominatore tra i concetti di strada e comnia, ma c'è spesso una sovrapposizione tra i ruoli amico e complice. Attraverso l'analisi dei termini "amico" e "complice" si può evidenziare se si è di fronte ad atti trasgressivi o al contrario di fronte ad atti devianti, e valutare da ciò la metodologia educativa.
NAPOLI
LA MEDIAZIONE
Dal latino mediare, essere in mezzo. Il mediatore è colui che mette in relazione due o più parti. La mediazione è un modo alternativo di gestione di un conflitto. Si tratta di un processo volontario per aiutare le parti in conflitto ed elaborare accordo. La MEDIAZIONE SOCIALE è una pratica informale di regolazione dei conflitti, è un METODO DI CONFRONTO REGOLATIVO finalizzato a comprendere e gestire le ragioni e le condizioni della compatibilità relazionale tra soggetti, gruppi, istituzioni. Lo scopo è quello di individuare modalità di regolazione sociale delle contraddizioni che sono espressione dei processi relazionali che caratterizzano la vita quotidiana. Può essere sia preventiva che curativa. La mediazione sociale gestisce il conflitto per far emergere le risorse positive latenti. Essa non teme il conflitto, perché sa che è fisiologico, che appartiene alla spinta evolutiva sei sistemi. Mediazoine sociale come processo costitutivo di uno spazio progettuale di regolazione e come risorsa di costruzione o ricostruzione delle regole dei contesti in cui si sviluppano azioni sociali e delle regole che nei contesti permettono relazioni e interazioni sociali.
La MEDIAZIONE PENALE è il tentativo di risoluzione di un conflitto sottostante ad un reato. Cerca di creare uno spazio sociale in cui possano svilupparsi gli incontri tra reo e vittima.
In entrambi i casi non bisogna negare la storia del conflitto e nemmeno ignorare le dinamiche interpersonali. La mediazione penale può essere vista come una TECNICA DI CONFRONTO SITUAZIONALE che contribuisce alla costruzione o ricostruzione di scambi comunicativi riguardanti situazioni problematiche circoscritte. Lo scopo è di facilitare la strutturazione o ristrutturazione delle relazioni interpersonali riparando un danno.
L'OPERATORE SOCIALE
È un educatore (educare: condurre, trarre fuori da), un facilitatore relazionale del territorio, facilita la comunicazione tra gruppi sociali. È un inconsapevole mediatore delle culture, delle relazioni e dei conflitti. Lavora in coppia o in gruppo, costituendo unità di strada. Il suo lavoro coinvolge la rete dei servizi educativi, sociali, sanitari, svolgendo la funzione di connessione tra i cittadini e tali servizi. Il suo contesto è la strada e il suo ambito di intervento è per questo al di fuori delle strutture e dei servizi formali.
Il CONFLITTO nella mediazione penale è una modalità della relazione interpersonale. Nella mediazione sociale invece è una condizione della relazione. Per questo il mediatore sociale può intervenire significativamente se si colloca come operatore di contesto.[7]
Secondo questo punto di vista diventa prioritario potenziare gli aspetti mediativi presenti in professionisti e soggetti che non hanno come competenza specifica quella di svolgere mediazione, ma le cui funzioni e ruoli prevedono un'appartenenza a contesti in cui prendono corpo le situazioni conflittuali. (polizia, assistenti sociali, educatori).
Se la mediazione non diventa uno strumento che metta in discussione competenze considerate immutabili, essa è destinata a divenire una scorciatoia che consente di rifugiarsi in interventi precostituiti senza doversi misurare con l'opportunità di nuovi modelli di regolazione sociale.
Occorre partire dalla strada ed intersecare l'attività di mediatore con quella dell'operatore di strada.
Caratteristiche della strada: ha una dimensione informale, meno regole, ruoli meno definiti, è un fatto sociale (le vie sono istituzioni sociali in quanto accettate da una comunità), è movimento umano istituzionalizzato (trama di attività, percorsi, significati), è luogo in cui hanno accesso conflitti e soluzioni di conflitti, è determinata/indeterminata, concreta/evanescente, prevedibile/imprevedibile. La strada offre palcoscenici diversi. LA STRADA è SPAZIO DI MEDIAZIONE CONTINUA.
Chi opera nella strada entra in relazione con l'altro in un contesto non protetto.
È strada il parco (mamme, li, anziani), le vie un cui stazione l'unità mobile, la piazza, il ritrovo, il quartiere (case, abitanti e loro relazioni), stazione ferroviaria
Gli operatori di strada pur non essendo mediatori professionisti fanno emergere in maniera non intenzionale le istanze di mediazione. Alcune competenze specifiche che vengono agite più o meno consapevolmente e che si sono sviluppate attraverso il fare degli operatori, oggi vengono trasmesse nei processi di formazione.
Queste competenze non sembrano essere sempre consapevoli tra gli operatori, perché non sono ancora esplicite le funzioni di mediazione sociale messe in atto nel lavoro di strada.
CONOSCENZA DIRETTA DEI CONTESTI del territorio e del sistema di relazione delle persone che lo abitano
CAPACITÀ DI STRUTTURARE CONNESSIONI PROGETTUALI il lavoro di strada è sempre costruito in una dimensione progettuale e ciò entra in relazione con le altre organizzazioni del territorio
CAPACITÀ DI RISOLVERE PROBLEMI individuazione e definizione dei problemi e capacità IDEATIVE, CREATIVE per sperimentare possibili soluzioni. Capacità cognitive unite ad un approccio creativo facilitano un atteggiamento aperto alla sperimentazione.
COMPETENZA RELAZIONALE capacità di sviluppare modalità di aggancio informale. Incontro come strumento di intervento, l'incontro è mezzo e non obiettivo.
CAPACITÀ DI NEGOZIAZIONE sviluppo di processi di connessione che diano spazio agli interessi e ai diritti degli attori.
Molte delle situazioni che vivono gli operatori di strada rimandano ad una funzione di mediazione perché richiedono competenze e capacità proprie della mediazione.
La mediazione non è presente, quando invece dovrebbe esserlo!
Assente, chi è lontano da qualcosa o qualcuno, che dovrebbe essere dunque presente là dove non c'è. L'assenza indica mancanza, ma anche appartenenza.
L'operatore di strada è chi è costretto a immaginare l'assente possibile e a dare a partire da questa assenza una possibile risposta. Egli è mediatore in quanto risorsa di connessione tra la situazione problematica e la risorsa possibile, in quel momento assente.
OLEVANO DI LOMELLINA
Progettazione di una comunità per minori dell'area penale, attraverso l'inserimento di 6 minori: 3 seguono un programma pedagogico riabilitativo, altri 3 sono in osservazione per vedere che bisogni hanno per poter costruire un percorso educativo idoneo.
La COMUNITÀ è un luogo, un sistema di relazioni umane e professionali, orientate allo sviluppo di processi significativi individuali e collettivi.
La comunità permette l'esperienza della reciprocità, lo sviluppo del senso di responsabilità di sé, della tolleranza, della valorizzazione della diversità.
Questa comunità ha una posizione strategica, che permette di favorire la riflessione, è fuori città.
La struttura è dotata di una grande falegnameria e si prevede l'opportunità per alcuni giovani di accedere a questa attività. Il lavoro è infatti uno strumento di evoluzione e integrazione sociale, che offre la possibilità di presentarsi in una dimensione relazionale paritaria, non caratterizzata dall'apparenza a categorie sociali diverse (devianti/non devianti). C'è anche una scuola per corsi di licenza media o corsi di alfabetizzazione per stranieri.
La funzione della comunità come servizio di pronta accoglienza prevede l'accoglimento del minore, l'analisi del caso, un periodo di osservazione (in cui il giovane partecipa alla vita comunitaria), l'individuazione di strutture o servizi più idonei al proseguimento di un percorso educativo, infine le dimissioni.
Per tutti i ragazzi è prevista una fase di conoscenza iniziale, accoglienza, gestione del progetto personalizzato, fase di chiusura.
Nella maggior parte dei casi questi inserimenti si concludono con l'abbandono o la fuga dal percorso comunitario.
PADOVA
PERCHÉ OCCUPARSI DELLE VITTIME DI REATO?
Perché affrontare la questione criminale tralasciando la realtà delle vittime significa ridurne la complessità.
Riproporremo alcune riflessioni legate ad un esperienza che è stata attivata anni fa a Padova, il Centro Iniziative Vittima.
Anche quando il tema della vittima è collocato all'interno di progetti riguardanti la sicurezza, non vengono connesse le situazioni individuali a questioni come le funzioni degli organi di polizia, le procedure del sistema giudiziario, la funzione dei servizi sociali. La prospettiva di tipo individualistico non fa altro che confermare la visione trasmessa dalla vittimologia tradizionale secondo cui una vittima è significativa solo in quanto è una persona colpita da un evento negativo conseguenza di un altro evento negativo (reato).
Come se la sicurezza di ogni cittadino no fosse determinata, oltre che dall'autore di reato, anche dal sistema di controllo!
La microcriminalità o meglio DELINQUENZA DIFFUSA (rapina, scippo, borseggio, furto) è quotidiana e imprevedibile, continuativa nel tempo, di carattere situazionale (le vittime non sono scelte in base a criteri specifici). Gli effetti di questa delinquenza diffusa sono danni psicologici, fisici, morali, economici.
È dunque difficile individuare strategie, ipotesi, modalità d'azione per il controllo e la prevenzione che per essere efficaci dovrebbero essere diffusi nel territorio e continuativi nel tempo e con un'adeguata copertura penale. Per questo un impegno che riguarda unicamente la fase successiva alla vittimizzazione rischia di risultare sterile.
Delineamo le 3 prospettive di intervento che emergono dalle esperienze sviluppatesi all'estero:
La PROSPETTIVA UMANITARIA E ASSISTENZIALE in cui la vittima è vista come una persona che ha subito un danno e che esprime bisogni ai quali occorre rispondere.
La PROSPETTIVA RIPARATIVA E DI TUTELA in cui la vittima ha dei diritti che devono essere tutelati, non solo rispetto all'autore di reato, ma anche rispetto al sistema giudiziario.
La PROSPETTIVA REGOLATIVA E COMUNITARIA che considera la vittimizzazione come indice di frattura nelle relazioni sociali, la finalità dell'intervento quindi non è solo di sostegno alla vittima, ma anche ricostruzione della comunicazione tra cittadini.
Le prime 2 vedono la vittima come un soggetto che ha bisogno di aiuto, il problema della vittima è identificato con i bisogni personali di chi è stato vittimizzato. Pone l'attenzione alla fase che segue il reato!
La terza prospettiva invece pone l'attenzione sulla realtà relazionale in cui matura il divenire vittima del singolo! Si prendono dunque in considerazione non solo le condizioni situazionali che fanno acquisire a un cittadino lo status di vittima, ma si prendono in considerazione anche le condizioni che rendono OGNI cittadino potenziale vittima di reato. In questa prospettiva la vicenda della singola vittima diventa l'occasione per attivare una valutazione responsabilizzante da parte della collettività nei confronti degli aspetti della questione criminale che la vittimizzazione mette in luce. L'esperienza della singola vittima acquista così anche la valenza di risorsa per la comunità.
VALUTAZIONE
La valutazione è la ricerca di conoscenze per verificare il significato dell'intervento nel suo complesso e nello specifico delle azioni che si intendono attivare, si stanno attivando, oppure sono state attivate. È una riflessione sull'azione sociale. In quanto riflessività sull'azione sociale la valutazione deve valorizzare tre dimensioni.
Visto che la finzione della valutazione è quella di produrre conoscenze significative per migliorare l'agire sociale, essa dovrebbe accomnare l'attività sin dall'inizio come momento interno (autovalutazione condotta dagli stessi operatori per consentire di riflettere sul proprio lavoro) e momento esterno ( per consentire agli operatori di mettere in luce aspetti che sfuggono all'autoriflessione).
Il Centro Iniziative Vittima di Padova (CIV) ha fatto riferimento alla metodologia di lavoro per progetti; questa esperienza ha preso avvio nel 1992 ed è terminata nel 1993. è stato il primo centro in Italia che si occupasse delle vittime delle delinquenza quotidiana o delinquenza diffusa.
È stato pensato all'interno di un altro progetto, il Progetto Carcere di Padova (1987), attraverso il quale era apparso chiaro come concentrare l'intervento unicamente all'ambito penitenziario determinava più contraddizioni di quante ne risolvesse. Si mostrava necessario collegare l'intervento all'interno del carcere con l'intervento nella realtà esterna. Per recuperare il detenuto alla società era necessario innanzitutto rendere il carcere un patrimonio della società, secondo l'idea-guida che il carcere è territorio, e riappropriazione del territorio da parte del detenuto.
Il comune aveva così dato vita al Centro iniziative Prevenzione e Trattamento, per aprire un confronto con i cittadini su contenuti e funzioni della pena, contenuti e modalità di prevenzione, quali obiettivi, attraverso tale prevenzione, si sarebbero potuti raggiungere. Il richiamo congiunto alle due parole chiave prevenzione e trattamento voleva indicare che se il punto di partenza era la prevenzione della recidiva sviluppata tramite il trattamento penitenziario, non si poteva allora lasciare inesplorato lo spazio sociale nel quale dovrebbero svilupparsi iniziative che tendono ad anticipare la maturazione dei reati!
Quindi una prevenzione terziaria non poteva essere totalmente utile senza una prevenzione primaria (finalizzata a restringere lo spazio sociale che rende ogni cittadino potenziale vittima di eventi delittuosi) rivolta alla collettività.
Questa la prospettiva da cui è partito il progetto del centro iniziative vittima nel 1993.
Accordare centralità alle vittime avrebbe potuto delineare un percorso per venire incontro alle istanze di rassicurazione sociale.
Per tentare di abbassare l'allarme sociale e per rendere visibile un'assunzione di responsabilità rispetto all'emergere di situazioni socialmente negative.
Queste condizioni avrebbero facilitato l'accoglimento delle proposte legate al settore penitenziario e il miglioramento generale della qualità della vita della collettività.
L'IPOTESI era che sarebbe stato sterile affrontare le situazioni individuali di vittimizzazione se non si fosse tenuto conto del contesto collettivo e istituzionale al quale esse rinviano. E quindi se non si fosse riuscito a coniugarle con i problemi connessi al controllo sociale. Sarebbe stato altrettanto sterile occuparsi del controllo sociale, senza accomnare tali interventi ad un'attenzione per la sofferenza individuale delle vittime.
Il tentativo di coniugare dimensione individuale e dimensione collettiva.
Riguardo agli interventi individualizzati rivolti alle vittime, con particolare riferimento all'analisi delle conseguenze del reato sulla persona era stato costituito un gruppo di supporto psicologico dal quale è stato possibile individuare 3 momenti del divenire vittima:
Il reato è un atto di tipo relazionale che si conura quindi come episodio di frattura del sistema relazionale individuale. E come momento indicativo di una crisi all'interno della rete di istituzioni e di sistemi deputati ad assicurare ai cittadini sicurezza e qualità positiva della vita.
Nel caso in cui un ente locale decida di impegnarsi sul problema della sicurezza, è facile che il confronto interistituzionale divenga conflittuale. In Italia, controllo del territorio e interventi preventivi e di recupero sono ancora percepiti come competenze parallele, caratterizzate da logiche e da modalità operative che stentano a comunicare. Un'iniziativa come questa, rivolta alle vittime di reato dovrebbe costituire, piuttosto che il momento iniziale, il punto di arrivo di un percorso di assunzione di responsabilità da parte di un'amministrazione comunale.
Un centro rivolto alle vittime dovrebbe essere espressione di una politica sociale che ha già messo in atto una logica partecipativa della comunità rispetto alla questione criminale, e che ha già sperimentato modalità comunitarie di risoluzione dei conflitti quotidiani che guardino alla vittima, non solo come ad un potenziale utente di un servizio, ,a come ad una risorsa effettiva per la costruzione di una convincente politica territoriale.
QUALE METODO PER PROGETTARE?
OPERATIVITÀ DI SITUAZIONE E INTERVENTO DI SERVIZIO
L'intervento di situazione sa caratterizza per il fatto di affrontare la realtà dei soggetti e gli eventi sulla base dell'evidenza fenomenica, e per il fatto di accogliere una modalità operativa di servizio che si esplica sulla base di competenze, ruoli e compiti sovente rigidamente prefissati e standardizzati.
Si prenda il caso della costituzione di un Centro rivolto alle vittime di reato. Se la finalità del centro è di fornire assistenza giuridica, economica, psicologica a chi ha già subito un reato, l'intervento si caratterizza come operatività di situazione in quanto l'attività può essere considerata soddisfacente se fornisce risposte, anche parziali, alle situazioni individuali, sulla base delle competenze disciplinari e professionali coinvolte nell'attività.
In questo caso non viene affrontato un aspetto fondamentale del problema "vittima di reato", quello del controllo del territorio, ma si offrono risposte in termini di servizio ai bisogni di chi è stato vittimizzato. Si può intervenire con queste modalità se si ritiene non vi siano ancora le condizioni per operare rispetto alla complessità del problema, oppure perché l'amministrazione locale non è interessata ad impegnarsi nell'elaborazione di politiche sociali che affrontino i nodi costitutivi del divenire vittima. In entrambi i casi un intervento così impostato lascia inesplorata la questione del controllo del territorio.
Compito dell'operatore sarebbe quello di mettere sotto verifica la logica su cui si basa l'intervento, e far emergere le contraddizioni che derivano dall'utilizzare una prospettiva operativa di situazione e una modalità di servizio nell'affrontare aree problematiche che sono indicative della complessità espressa dalla ura sociale della vittima. L'operatore potrebbe per esempio sottolineare come circoscrivere l'attività al supporto individualizzato rischierebbe di avallare la tendenza delle vittime di reato a riprodurre un ruolo passivo nei confronti di altri problemi sociali. Coerentemente egli dovrebbe farsi carico di stimolare l'elaborazione di un progetto specifico d'intervento che prenderebbe avvio dalla sofferenza delle singole vittime, aspetto non certo sottovalutabile, per affrontare i nodi che rendono ogni cittadino potenziale vittima di condotte socialmente negative.
Egli dovrebbe allora porsi alcune domande: quali frammenti del problema verrebbero trascurati se si caratterizza l'intervento unicamente in termini di supporto individualizzato? Quali frammenti del problema verrebbero trascurati se l'intervento, pur affrontando la valenza relazionale del singolo evento di vittimizzazione, lasciasse inesplorati i rinvii istituzionali?
Quale aiuto si offre ad una vittima se si affronta unicamente la dimensione individuale dell'esperienza di vittimizzazione, lasciando inesplorata la realtà territoriale al cui interno ha preso corpo il divenire vittima? Quale aiuto si offre effettivamente alla vittima se non si affrontano i nodi del controllo della criminalità, delle attività rivolte all'anticipazione delle situazioni socialmente negative, e degli interventi finalizzati al rientro della società libera degli autori di reato? Se si ristrutturano questi interrogativi in un'ipotesi di lavoro, questa potrebbe venire così formulata:
a) sarebbe sterile affrontare le situazioni individuali di vittimizzazione se non si tiene conto del contesto collettivo e istituzionale al quale esse rinviano e quindi se non si riesce a coniugarle con i problemi connessi al controllo sociale.
b) Sarebbe, per altro, altrettanto sterile occuparsi della questione del controllo sociale se interventi in questa direzione non sono accomnati da un'attenzione per la sofferenza individuale delle vittime.
Sul piano operativo, coniugare dimensione individuale e dimensione collettiva comporta costruire lavoro interprofessionale e interistituzionale.
Si tratterebbe di accogliere una logica di intervento di problema e una modalità operativa di progetto, ovvero una prospettiva che non rifugga dal mettere in discussione eventuali finalità dell'intervento predefinite.
INTERVENTO A VENTAGLIO
Nella logica del lavoro sociale si può denominare intervento a ventaglio l'attività che è indirizzata su una serie di situazioni. Chi interviene espleta i propri compiti sulla base di codici, regole e tecniche che sono determinati in modo sufficientemente rigoroso e ai quali è necessario attenersi. Tale intervento non richiede una progettazione condivisa, e questo può comportare conflitti o malintesi con altre agenzie od operatori che si trovano a lavorare nella stessa situazione o sullo stesso problema. La frammentarietà discende dal fatto che vengono espletate mansioni pressoché interamente codificate sulla base di istanze ed esigenze sulle quali non vi è margine di negoziazione. Il metodo a ventagli è tipico dell'intervento clinico e degli interventi di tipo assistenziale.
OPERARE DI PROBLEMA E INTERVENTO DI PROGETTO
Qualora si ritenga opportuno nell'impostare e nell'attuare un intervento che le ipotesi di lavoro, le strategie d'azione, le forme di intervento e le modalità di collaborazione siano l'esito di una progettazione condivisa, può essere utile fare riferimento al metodo operativo a ricalco. Con questo approccio operativo si tenta di costruire ciò che ancora non si vede; lo sviluppo dell'azione sociale avviene grazie all'elaborazione di ipotesi, strategie e modalità operative comuni a coloro che intervengono e che intersecano le diverse competenze in un sistema aperto e coordinato di relazioni. Questa potenzialità progettuale può coniugarsi anche con l'intervento di situazione, ma è specifico dell'intervento di problema.
Operare in termini d problema significa assumere una logica d'intervento che traduca le richieste di chi è rimasto coinvolto in situazioni socialmente significative in azioni che non si limitino a offrire risposte alle istanze più immediate, ma siamo indirizzate ad affrontare il significato sociale delle situazioni. Offrire risposte non contingenti comporta riuscire a coinvolgere le parti in un 'esperienza progettuale collettiva. Le ipotesi di lavoro, le strategie d'azione, le forme di intervento e le modalità di collaborazione devono allora essere l'esito di una concertazione collettiva.
Nell'operare di problema la finalità non è tanto, o unicamente, quella di fornire risposte pratiche a singole situazioni, bensì quella di delineare modalità, strategie e obiettivi che permettano di far emergere il significato di aspetti evidenziati dalle situazioni specifiche.
ROMA
Realizzazione di un progetto europeo per la realizzazione di un centro diurno per minori a rischio in collaborazione tra università, ufficio di servizio sociale minorile della giustizia e privato sociale.
Il progetto si chiama "Youthstart: scuola della seconda opportunità".
L'obiettivo è la costituzione di un'équipe che avesse competenza in merito all'intervento psicosociale con la devianza minorile. Il coinvolgimento in questo progetto è legato allo svolgimento di una richiesta di consulenza e monitoraggio.
Il contesto del gruppo è formato da diverse professionalità provenienti dal mondo della scuola, dei servizi e della giustizia minorile che non avevano mai lavorato insieme. Il progetto ha previsto lo svolgimento di attività scolastiche o reinserimento sociale, attività di tempo libero, colloqui individuali e familiari. Alternati a momenti di verifica in cui viene fatto un bilancio dall'équipe sul raggiungimento degli obiettivi previsti. La fase finale prevedeva il conseguimento della terza media o l'inserimento in un contesto lavorativo.
Sarà posto qui in evidenza il lavoro di formazione e di supervisione che è stato svolto.
IL PERCORSO DI FORMAZIONE
La formazione si è basata sul sapere e sul saper essere e saper fare dell'operatore rispetto al comportamento deviante, riferendoci ai principali modelli di lettura della devianza minorile:
giustificazione morale la violazione della norma è giustificata con un valore più alto da quello suggerito dalla norma (gli ho dato un pugno per difendere un mio amico)
etichettamento eufemistico il linguaggio utilizzato per giustificare la propria azione sminuisce il valore del danno prodotto (è una ragazzata)
dislocazione della responsabilità il soggetto si deresponsabilizza giustificandosi di aver agito per ordini superiori (l'ho picchiato perché me lo ha chiesto lui)
diffusione della responsabilità l'azione è giustificata attraverso un'azione di gruppo o un'azione in generale (ho rubato perché tutti rubano)
confronto vantaggioso il comportamento è confrontato con comportamenti peggiori (ho rubato mentre altri uccidono)
distorsione delle conseguenze l'azione è giustificata ignorando o distorcendo gli effetti delle proprie azioni (non gli ho fatto male, è solo andato in ospedale)
deumanizzazione della vittima la vittima perde il valore di essere umano
attribuzione di colpa alla vittima il comportamento è giustificato spostando la responsabilità sulle vittime (l'ho picchiato perché mi ha offeso)
Ancora per quanto riguarda il processo formativo si sono messi a fuoco alcuni aspetti significativi:
a) la responsabilità del soggetto che è agente attivo del proprio comportamento e si autoregola in funzione dei sistemi di relazione in cui è inserito. Lavorare sul senso di responsabilità significa lavorare sulla consapevolezza delle proprie azioni e delle conseguenze del proprio comportamento.
b) monitoring: come tendenza dell'adolescente a farsi monitorare, non da ure istituzionali, ma da altri referenti inseriti nel circuito deviante, nel momento in cui il ragazzo interrompe il monitoraggio con gli adulti di riferimento
c) il senso di autoefficacia percepita, che è la convinzione che le persone hanno di sentirsi efficaci nell'ambito nel quale operano
d) la resilienza, come sviluppo della capacità di resistere alle pressioni del gruppo deviante
Venendo a conoscenza degli indicatori di rischio della devianza si può andare nella direzione del potenziamento e sviluppo delle competenze prosociali.
Altro tassello formativo ha riguardato la conoscenza delle agenzie istituzionali in termini di ruolo, funzioni e cultura operativa: il CPA (Centro di Prima Accoglienza), l'USSM (Servizio Sociale Minorile), l'IPM (Istituto Penale Minorile) e il TM (Tribunale Minorile).
Inoltre sono state definite e analizzate le tipologie dei provvedimenti penali: misure cautelari, affidamento in prova al servizio sociale, messa alla prova, semi-libertà.
Ci si è poi preurati la tipologia di rapporto tra il centro e le altre agenzie (servizi sociali, tribunale, scuola) si è poi cercato di costruire significati condivisi sulla natura organizzativa di un centro diurno che lavora con ragazzi con diverse problematiche e con finalità articolate e complesse (scuola, lavoro, prevenzione, comportamento deviante).
Al livello del SAPER FARE e SAPER ESSERE dell'operatore si è lavorato su alcuni criteri per osservare il comportamento del ragazzo. Tale comportamento si può osservare direttamente oppure attraverso i suoi resoconti e le sue narrazioni. Attraverso queste osservazioni è possibile analizzare le sue competenze relazionali, interattive e scolastiche, i suoi aspetti problematici. (confrontare l'ambiente narrato e quello osservato dagli operatori, il rapporto che ha con le regole, quali ruoli assume nei diversi contesti, situazioni, attività). Questi criteri di osservazione pur essendo sempre utili risultano particolarmente efficaci nella fase di accoglienza in cui l'operatore osserva al fine di formulare idonee ipotesi di intervento.
METODOLOGIA della formazione
È stata utilizzata una metodologia fondata sul gruppo: lezioni d'aula interlocutorie, chiarificazioni metodologiche, momenti di discussione, lavoro su casi esemplificativi con esercitazioni in sottogruppi. Ciò ha permesso agli operatori di conoscersi meglio, chiarire i reciproci ruoli, le differenze di compiti e funzioni, i diversi obiettivi di intervento, le finalità comuni. Ci sono stati momenti della formazione in cui gli operatori si sono "calati nella situazione", anticipando procedure, metodologie operative creando un "come se" operativo i membri dell'équipe hanno potuto confrontarsi in modo più distaccato ed osservare le proprie e altrui modalità di intervento con il minore.
La SUPERVISIONE
Supervisione come consulenza alla costruzione di un percorso, parte dal presupposto che il gruppo possiede le potenzialità di risolvere i problemi al proprio interno. La supervisione diventa per innescare il processo di soluzione, ma non mira ad offrire soluzioni predefinite. I ragazzi seguono le regole tanto più quanto sono legate ai rapporti per loro significativi. È il rapporto che fonda la regola.
La dimensione delle regole ha rappresentato una delle aree centrali del nostro intervento. La REGOLA rappresenta il confine relazionale e contestuale; la trasgressione ha una funzione comunicativa sulla relazione e sul ragazzo. Come si può intervenire rispetto alla trasgressione? C'è una dimensione reciproca osservatore-autore, tra operatore e ragazzo. Ogni risposta data contiene un aspetto di rischio e uno di risorsa. Es.: rinviare all'autorità del centro può contenere il rischio di delega, oppure può risultare un efficace richiamo normativo. Bandire il ragazzo dalle attività può essere una mossa strategica per far succedere qualcosa o una mossa senza alcuna strategia.
Evidentemente un aspetto importante della risposta alla trasgressione risulta essere legata alla "qualità" e al "come" essa viene proposta.
CONCLUSIONI
Questo progetto si è posto nuovi obiettivi, derivati da un cambio di paradigma: non offrire opportunità al ragazzo, ma attivare la sua agentività, intesa come potenziamento e sviluppo delle competenze prosociali. Sono stati raggiunti alcuni risultati significativi in termini di attivazione di alcune potenzialità del ragazzo che possono essere protettive del rischio di commettere azioni violente.
Anche se in uno dei tre casi avuti le pressioni esterne erano tali per cui, nonostante il rafforzamento delle competenze sul piano relazionale e sociale il ragazzo non sarebbe uscito dal circuito deviante.
L'attore è dotato di preferenze riguardo a futuri stati del mondo, tali che da ciascuno egli trarrà un certo livello di utilità; allo stesso tempo l'attore conosce, o immagina, i possibili corsi d'azione da intraprendere e le conseguenze che essi avranno sulla probabilità dell'avverarsi di ciascuno di questi stati del mondo; incrociando tali corsi d'azione con le utilità attese dal loro dispiegarsi, l'attore sceglie di agire nel modo che massimizza la sua utilità attesa. (wikipedia)
Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene.
Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene.
Che hanno proprietà stupefacenti, cioè proprietà chimiche o biochimiche che sono in grado di indurre variazioni nel funzionamento dei neurotrasmettitori nel sistema nervoso in modo da alterare lo stato cosciente.
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