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Scultura Gotica

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Scultura Gotica


BENEDETTO ANTELAMI, l'architetto del battistero di Parma e di Sant'Andrea a Vercelli, è anche lo scultore con cui si inizia la storia dell'arte urativa italiana del XIII secolo. Nel 1178 firma la deposizione, già nel pontile del duomo di Parma; in questa città, tra il 1196 e il 1218, lavora alle sculture del battistero ed è probabile che, nel lungo intervallo, sia stato in Francia; tra il 1214 e il 1216 lavora alla cattedrale di Fidenza e, a partire dal 1219, in Sant'Andrea a Vercelli. Com'è chiaro, l'opera dello scultore è connessa a quella dell'architetto. La deposizione ha il fondo decorato a nièllo (intarsio metallico) con ornati e iscrizioni: è una tecnica bizantina, che tende a presentare il fondo del rilievo come una ina miniata, un piano coloristico. Qui serve, invece, a dare spicco alle ure, le cui forme arrotondate sono increspate, in superficie, dalle pieghe fitte, regolari, appena rilevate delle vesti. Il rapporto tra ure e fondo è dunque il rapporto tra due qualità di colore, due diverse intensità di luce. Per ottenerlo, l'artista rompe il tradizionale parallelismo della composizione, l'identità di situazione delle ure. Gli angioli volano parallelamente al fondo, paralleli al fondo sono i tronchi della croce. Ma la ura di Cristo forma un arco a cui si contrappone, come in architettura un contrafforte o un arco rampante, la ura che lo sorregge: con un'inclinazione a cui corrisponde, dall'altra parte, quella del devoto che schioda la mano di Cristo dalla croce. Due onde di movimento partono da questo contrapposto architettonico di forze: una più debole percorre la fila delle ure a sinistra, prospettandole di traverso rispetto al fondo; l'altra, più forte, investe la fila di destra, fa perno sullo scudo rotondo, si conclude nelle ure che dividono la veste di Gesù. È un movimento che non scatta da gesti, ma nasce da uno spostamento di assi, da un mutamento del ritmo lineare. L'Antelami, dunque, non respinge la tradizione plastica bizantina; la dinamizza con correnti di forze che impara a conoscere e dominare facendo l'architettura. Il contatto con l'arte francese gli offre altri mezzi: nelle statue e nei rilievi del battistero, la linea agisce direttamente sulla massa, la percorre, la solca con le sue linee di tensione, la spiana per condurre la luce, lungo i piani sdruccioli, verso i punti dove il nodo del ritmo si serra. Nel martirio di Sant'Andrea, a Vercelli, il processo di liberazione dalla ieratica presentazione bizantina è ancora più avanzato. Non si vede, o quasi, la croce; le ure sono isolate sul fondo, ciascuna col proprio gesto; la disparità dimensionale delle ure accentua la densità dello spazio; il fregio che corre ad onda entro il margine della lunetta raccoglie la luce e la rimanda, intensificata e radente, sulle ure.



L'Antelami ebbe séguito, specialmente nella regione padana. L'autore della serie dei Mesi per un portale della cattedrale di Ferrara ha imparato da lui l'equilibrio dei vuoti e dei pieni, la loro identità come valori plastici; il limite che li separa e contrappone è anche quello che determina il movimento delle ure. La influenza lombarda, sempre associata a quella del più sensibile linearismo francese, scende in Toscana, nel Lazio. La deposizione in legno, a ure isolate, della cattedrale di Volterra, è antelamica nella curvatura ad arco del corpo del Cristo e nel puntello architettonico delle due ure laterali; ma anche nel modellato uniforme, compatto, quasi compresso dalla fermezza d'immaginari contorni. Una deposizione simile, ma più affusolata nelle forme e più patetica, è nel duomo di Tivoli. Più legate alla cultura bizantina, con le sue masse larghe e risaltanti dal fondo per la blanda curva dei piani, sono le regioni venete e la Dalmazia.


La scuola pisana - A Pisa, centro di cultura classica in contatto continuo con l'Oriente, si forma la prima, grande scuola di scultura. Questa non è più un'attività complementare dell'architettura, legata al cantiere e alle sue maestranze; è un'arte o una disciplina la cui autonomia è tanto più legittima in quanto più direttamente collegata con l'arte antica, romana, i cui documenti urativi sono appunto opere di scultura. Una personalità ben definita, anche se anonima, è quella dello scultore che all'inizio del 1200 esegue i Mesi e gli Apostoli, negli stipiti, e le storie del Battista nell'architrave del portale del battistero. Intreccia un'iconografia tradizionale ed una plastica finemente modulata, ancora bizantina, ad un sentimento, che può già dirsi classico, dell'inquadratura delle ure nello spazio, ad un ordine 'storico' della composizione. Questo scultore, di cui il Vasari fa il maestro di Nicola Pisano, sembra intuire l'antica, profonda radice classica della uratività bizantina e superare così l'antitesi, che già si profilava, di 'greco' e 'latino' . A lui è collegato, a Lucca, l'autore della coeva carità di San Martino, nella cattedrale: un'opera che ritrova d'un tratto, spontaneamente, la misura morale della statuaria romana, ma l'esprime in una più concisa densità di masse e di linee.

In questo ambiente, già tendenzialmente umanistico, dovette compiersi la formazione di NICOLA PISANO, di cui si indica la prima opera, verso il 1259, nella deposizione in una lunetta del Duomo di Lucca: un rilievo intensamente drammatico, in cui le masse, per comprimersi nella curva dell'arco, si torcono in gesti che le costringono a flettersi, a sovrapporsi, ad addensarsi. Lo scultore conosce evidentemente il modo 'storico' della composizione classica dei sarcofagi antichi, ma conosce anche l'intensità espressiva della scultura francese.

È dubbio tuttavia che Nicola, più volte citato dai documenti come 'de Apulia' , fosse toscano: più probabilmente era pugliese e la sua prima formazione si compì nell'ambiente artistico, programmaticamente classicista, della corte di Federico II: un classicismo non più favoloso o astrattamente teorico, ma qualificato come deliberato 'ritorno all'antico' . Questa corrente antichizzante, ma nello stesso tempo inquadrata nel 'modernismo' politico e culturale di Federico, si è chiaramente espressa nelle sculture di Castel del Monte e, più ancora, in quelle che ornavano la distrutta porta di Capua, tipico 'monumento' del classicismo federiciano. Nicola, tuttavia, supera quanto di scolastico e di letterario era in quel programmatico ritorno all'antico, così come supera quanto di aulico e di vagamente estetistico era in molta parte del gotico francese: l'antico e il moderno egli stringe in una sintesi ch'è coscienza della storia e, più precisamente, della intrinseca storicità della scultura. 'Il tracciato del percorso di Nicola si è andato schematizzando in una traiettoria che va dal classicismo al goticismo, mentre occorre vedere l'esperienza classica inclusa in un cammino orientato in una coerente direzione gotica che si sviluppa, agli inizi, dalle forme romaniche' (Gnudi).

La prima opera pisana di Nicola è il pergamo del battistero, finito nel 1260. È un organismo unitario, isolato, autonomo; ed in esso, tanto sono fusi, sarebbe difficile distinguere l'elemento architettonico da quello scultorio. Portata in alto da colonnine con archi tondi trilobati, la cassa del pergamo è un esagono, con fasci di colonnine agli angoli: una forma prediletta da Nicola, che la riprenderà in tutte le sue opere, e di cui non è difficile indicare il prototipo architettonico in Castel del Monte. Le sculture sono ordinate in tre zone: in basso, i leoni e le ure accosciate che fanno da piedistallo alle colonne; in mezzo, i profeti e gli evangelisti nei pennacchi degli archi e le statue angolari di santi e di ure allegoriche; nel parapetto, i rilievi con la Natività, l'Adorazione dei Magi, la Presentazione al tempio, la Crocefissione, il Giudizio. V'è un concetto di fondo: la gerarchia ideale dai simboli profondi e dalle forze naturali (i leoni e i telamoni) al dominio delle forze spirituali (le Virtù e i profeti) e da questo al tempo storico della rivelazione divina, che si identifica con la vita terrena del Cristo e ha, come ultimo termine, il Giudizio. Nel giro di questo pensiero ogni immagine ha significati complessi, di cui sono stati rintracciati i precedenti nelle tradizioni dottrinali e iconografiche dell'arte lombarda, toscana, francese. Nicola ope ra dunque una sintesi di culture, tanto nell'ordine delle forme che in quello, inseparabile, dei contenuti; ed è sintesi, e non combinazione o compromesso, perché individua il principio e il fondamento di quelle culture nel loro comune legame con l'antichità romana e cristiana o, più precisamente, in una coscienza 'classica' della storia, fatta propria dal cristianesimo e finalizzata alla salvezza. Se la 'forma' della rivelazione divina è la storia, la urazione storica dell'arte romana è la guida più certa: di qui lo studio della composizione articolata dei sarcofagi antichi. Così la rappresentazione è tanto più drammatica quanto più è storica; e il classicismo o il sentimento dell'antico non contraddice ma si sviluppa di pari passo con il 'modernismo' o il sentimento drammatico del presente. Per queste due vie convergenti del classico e del gotico, Nicola giunge ad eliminare ciò che non è storia né dramma: la tradizione ormai ferma, la presentazione di immagini sacre, il lascito bizantino. Evita ugualmente l'inarticolata narrazione, la mera successione dei fatti: in ogni 'storia' scolpita isola un fatto, sintetizzando il prima e il dopo, le cause e gli effetti, e presentando l'azione come antica ed attuale ad un tempo. Fissa un centro compositivo, un nucleo dell'azione; porta le ure lontane, benché dimensionalmente più piccole, al livello delle più vicine; tutte, infatti, sono ugualmente astanti, necessarie. Ogni ura è dunque 'storica' e della storia ha la dignità, la grandezza; è una massa compressa, che occuperebbe da sola tutto lo spazio se non fosse limitata da altre presenze, ugualmente essenziali: da questo coesistere nasce la concatenazione del fatto, il conurarsi della storia eterna in una condizione specifica di tempo e di spazio. Nasce così la struttura interna della forma, il movimento dall'interno della massa, il suo aggregarsi nel profondo dello spazio e del tempo per emergere alla superficie del piano e del presente. Se certi volti ritrovano l'intensità espressiva dei ritratti romani, non è per gusto realistico, ma perché l'umano non è mai tanto umano come quando si inserisce nella storia, soprattutto nella storia 'sacra' che è il punto d'incontro dell'umano e del divino.

Il secondo pergamo, per il duomo di Siena (1266-68), a cui già collaborano il lio Giovanni e il grande discepolo Arnolfo di Cambio, amplia con perfetta coerenza la tematica e la ricerca plastica del primo. 'Il passaggio dall'esagono all'ottagono è un altro passo che allontana dal quadrato e va verso il circolo, dalla ura geometrica che esprime staticità a quella che suggerisce movimento' (Nicco-Fasola). Le urazioni storiche sono più numerose e alla serie si aggiunge la Strage degli innocenti, tragica e piena di violenza. Il Giudizio assume un'importanza preminente: occupa due lati con la ura del Cristo al centro, che separa gli eletti dai reprobi. Spesso la medesima composizione comprende più episodi ideologicamente collegati: Visitazione, Annunciazione, Natività; Presentazione al tempio e Fuga in Egitto. Non c'è più cesura architettonica tra le storie; ma ure di evangelisti, dottori, la Madonna col Bambino, Cristo apocalittico e giudice. Nelle storie le ure si infittiscono; le masse si frangono nel ritmo incalzante dei gesti concatenati; la linea continuamente spezzata sottolinea lo scatto dei movimenti, concentra la forza espressiva dei volti. Indubbiamente la componente gotica è più forte che nel pergamo pisano, ma è anche più forte l'interpretazione delle fonti romane, non più soltanto nell'equilibrio, ma anche nell'asprezza drammatica della storia.

La fontana di piazza a Perugia (compiuta nel 1278), con il suo giro di due fasce poligonali rispettivamente di venticinque e dodici facce, si avvicina sempre più alla forma ideale del circolo. L'assunto ideologico è complesso: 'La Caduta come antefatto del lavoro umano, i mesi e le arti ne seguono come svolgimento del mondo dottrinale (mentre i segni zodiacali possono rappresentare in ristretto il mondo naturale); la parte etico-politica è quasi del tutto limitata ad ammonimenti di pratica politica, condensata nelle favole di Fedro, che nel XIII secolo erano coltivate per il loro significato moralizzante' (Nicco-Fasola). I cicli fanno capo all'idea di Roma caput mundi ed ecclesia e ad Augusta Perusia, con allusione al fondamento storico-ideologico della realtà politica del Comune.

La prova indiretta della coesistenza e della sintesi, in Nicola, del sentimento antico e moderno, classico e gotico, è data dall'orientamento divergente dei suoi due maggiori allievi e collaboratori: Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio. ARNOLFO (morto nel 1302), prima ancora di collaborare al pergamo senese, appare accanto a Nicola nei rilievi dell'arca di San Domenico a Bologna, iniziata nel 1264. Lo ritroviamo a Roma nel 1276, autore del monumento del cardinale Annibaldi a San Giovanni in Laterano; e l'anno seguente scolpisce la statua di Carlo d'Angiò, allora Senatore dell'Urbe. Tranne qualche parentesi (a Perugia per una fontana nel 1281 e a Orvieto per il monumento del cardinale de Braye, morto nel 1282), opera lungamente a Roma: vedi il ciborio di San Paolo (1285) e quello di Santa Cecilia (1293) e, per la chiesa di San Pietro, il monumento di Bonifacio VIII e la statua bronzea di San Pietro. Concluse la sua attività a Firenze, con le sculture per il duomo.

L'importanza storica di Arnolfo è decisiva: diffonde in quasi tutta l'Italia la tematica classica della scuola pisana, rianimando i sedimenti classici latenti nell'ambiente romano e campano e orientando la cultura artistica in una direzione che può già dirsi umanistica. La stessa prontezza con cui assimila gli elementi locali, si tratti del classicismo severo federiciano o della decorazione policroma della scuola romana dei Cosmati, dimostra come il suo classicismo non sia un ritorno a un linguaggio antico e colto, ma il fondamento storico di un linguaggio moderno. Umanistico è il tema ricorrente della statua, come consacrazione del personaggio alla storia; umanistico è il tema del monumento funerario, che del personaggio illustre celebra l'esemplarità nel luogo sacro della comunità cittadina non tralasciando di ammonire che la potenza è caduca e se ne risponde a Dio; umanistico è il nuovo legame, non più di decorazione e nemmeno di struttura, ma di profonda analogia di significati, che si stabilisce tra architettura e scultura. Umanistico, infine e in senso più profondo, è il modo di comporre entro spazi misurati, con un'alternativa metrica di ure e vuoto, sicché ogni immagine si situa come un volume preciso entro una cubatura ideale: le linee tese trasformano le masse in piani, ogni piano è limite a due porzioni equivalenti di spazio, quella che si condensa nella ura e quella dello spazio in cui idealmente si situa. Così la ura torna ad essere 'misura delle cose' : nel suo limite largo e preciso è capace di contenere tutta la realtà.

Quasi negli stessi anni in cui Arnolfo ideava, in forme che dovevano essere di classico equilibrio, la facciata di Santa Maria del Fiore, GIOVANNI PISANO (morto dopo il 1314) lavorava a quella del duomo di Siena. I tre archi cuspidati, chiusi tra i contrafforti, definiscono, come già dicemmo, una zona di luce intensificata: di questo spazio ideale, quasi una sfera superiore in cui tutto è luce, le ure scolpite sono i beati abitanti. I loro atteggiamenti, il modellato delle forme sono fatti per intensificare la ricezione luminosa e trasmettere il raggio in profondità. La luce di Giovanni è 'divina e penetrante' come quella del Paradiso di Dante; nemica di tutto ciò che è inerte ed opaco, distrugge della ura tutto ciò che non è vita spirituale, moto, tensione. Ogni ura si riduce al proprio impulso di moto, al proprio principio ritmico: ogni peso di materia, che non si lasci coinvolgere, è eliminato.

La scelta formale di Giovanni è ben chiara: dal 'sistema' di Nicola isola e accentua la componente gotica o moderna, così come Arnolfo isola e accentua la componente classica o antica. Il contatto con l'arte francese, sempre più drammatica, andrà progressivamente stringendosi. Il pergamo di Sant'Andrea a Pistoia (terminato nel 1301) dinamizza, anche nelle strutture archiacute e nei sostegni urati delle colonne, lo schema di Nicola. Le storie sono portate al colmo dell'intensità drammatica. Sono composte per direttrici trasverse, incrociate, che si addentrano in profondità e hanno la forza penetrante di raggi luminosi. Il moto, il gesto di ciascuna ura vale in quanto si inserisce in queste direttrici invisibili, si espone ai raggi della luce penetrante: attraverso un movimento complesso di angoli e oblique, di riprese a distanza dello stesso spunto di moto, la composizione si presenta tutta agganciata, concatenata, nelle tre dimensioni dell'altezza, della larghezza e della profondità. Né il ritmo è prescelto o preordinato, imposto alla composizione, perché nasce all'interno di essa, dal groviglio delle ure e dalla dinamica dei loro gesti: e, determinandosi, determina lo spazio ed il tempo universali, della storia, nello spazio e nel tempo particolari di un dato evento.

Questo continuo rilancio del moto, che si proa per impulsi d'onde come la luce, impedisce ovviamente l'isolamento statuario prediletto da Arnolfo. Anche in ure isolate, come le Madonne col Bambino del Museo del duomo a Pisa, di Santa Maria della Spina, della Collegiata di Prato, della cappella degli Scrovegni a Padova, Giovanni tende linee di forza nell'arco del corpo o nella spirale delle pieghe; e queste portano oltre la ura, la pongono come un nucleo solido modellato dalle correnti e dalle tensioni dello spazio. Perfino la plastica dei volti è in funzione di questa visione dinamica: nelle Madonne, per esempio, l'arco delle sopracciglia e la struttura dell'occhio sono in funzione dello sguardo saettato verso il Bambino, e la linea immaginaria che esso traccia ha tanta forza che il Bambino si ritrae, compensando così l'opposto inarcarsi del corpo della Madonna.

Il pergamo del duomo di Pisa (1302-l310) è architettonicamente, plasticamente, dottrinalmente complesso: sta al pergamo di Pistoia come, nella Divina Commedia, il Paradiso al Purgatorio. La forma poligonale ha ormai quasi raggiunto quella circolarità che è espressiva del continuo o dell'eterno; anche le lastre con le storie sono segmenti circolari. La circolarità è ribadita dalla sostituzione di alcune colonne con gruppi statuari, degli archi con mensole a volute. Nel parapetto, le ure angolari di profeti hanno una palese funzione luminosa: essendo molto più grandi delle ure dei rilievi (che diventano sempre più piccole e folte) offrono alla luce piani più larghi e specchianti, con minori contrasti d'ombra. La luce che colpisce quei piani obliqui si riflette sulle lastre dei rilievi e si proa, frangendosi, di risalto in risalto: alla luce universale delle verità eterne succede la luce franta, contrastata dall'ombra, dell'esistenza terrena. Sono dunque queste alte ure di profeti che ricevono la luce celeste e la rifrangono sul mondo, dove si irradia, frantuma, dissocia negli innumerevoli volti delle cose: ciascuna delle quali, tuttavia, ne trattiene una scintilla. Perciò l'attenzione dell'artista non si concentra più, come a Pistoia, sul nucleo drammatico dell'azione; trapassa, rapida, di cosa in cosa, sorvolando o indugiando, sempre pronta a cogliere i particolari senza turbare l'unità dell'insieme. ure accessorie e tuttavia non secondarie, e poi cavalli, asini, cani, cammelli, alberi, rocce, architetture: tutto può divenire scultura, materia formata e luminosa di ciò che forma lo spettacolo del mondo, infinitamente vario negli effetti prodotti dall'unica causa. Non è che il dramma gotico si plachi, nella maturità dell'artista, in una divertita visione del mondo: il dramma è proprio in quel frammentarsi dell'esperienza, in quel dover cercare l'unità della causa nella molteplicità infinita degli effetti. Neppure è vero che il classicismo di Nicola si dissolva totalmente nell'opera di Giovanni: che forse, nel profondo, è anche più classica di quella di Arnolfo perché, attraverso l'esperienza gotica, raggiunge e ricupera la sorgente che l'arte bizantina aveva finito per inaridire: quella della cultura ellenistica e della sua 'filosofia naturale' .

Lo stesso ideale romano di Arnolfo, religioso e civile, appare così assai più limitato, nell'austerità ciceroniana dell'eloquio, che l'ideale di Giovanni, col quale l'idea della storia diventa il punto di partenza di una nuova concezione della natura.




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