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Zoran Music
Cenni biografici
Anton Zoran Music nasce nel 1909 a Gorizia ma, date le sue origini, assorbe in sé tre culture: italiana, slava e tedesca. Allo scoppio della prima guerra mondiale la sua famiglia si trasferisce in Carinzia e poi nella Stiria Slovena, dove il piccolo Zoran è suggestionato dalle verdi foreste austriache, che sostituiscono nella sua memoria il ricordo delle rocce carsiche.
La sua formazione artistica incomincia all'Accademia di Zagabria e poi prosegue, dal 1933 al 1936, a Madrid. Verso la fine degli anni Trenta è in Dalmazia e qui è affascinato dalla cultura e dal paesaggio, elemento che si ritrova in numerose sue opere. Per la sua attività antinazista Music subisce la tragica esperienza del lager (Dachau) negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale. Di questo momento l'artista lascia traccia in una serie di drammatici disegni.
Nel dopoguerra si stabilisce a Venezia, ove sposa Ida Barbarigo, lia di Guido Cadorin e, a sua volta, pittrice. Per venticinque anni Music dipinge paesaggi dalmati, umbri, senesi, cavallini visti di fianco, da dietro, in fila ordinata. La sua ispirazione sgorga dall'interiorità, è legata alla memoria benché l'artista trasformi in una dimensione metaforica tutti i motivi che zampillano dal suo sentimento o dal suo modo di captare la realtà. Music dipinge con grande delicatezza l'atmosfera di Gorizia "la piccola collina" dove è nato, ci offre inoltre sognanti visioni di Venezia, dove i colori sono costantemente un baluginante impasto di tono su tono.
Nel 1971 comincia a dipingere i morti di Dachau e per cinque anni ripropone con tenacia nei suoi dipinti questo soggetto. E' la tragedia di tutti i sopravvissuti alla deportazione nazista, tragedia che Zoran ripropone, a distanza di ventisei anni dalla fine della guerra, come monito per le generazioni di oggi e per quelle future. Ecco apparire nelle sue opere le ure dei deportati, avvolte nel grigio del colore, i cumuli di corpi che Music sente di dover rafurare per superare la dolorosa esperienza di sopravvissuto alla morte. Questo ciclo di opere ha un nome solo: Non siamo gli ultimi e sono lavori inquietanti e strazianti, anche nel segno pittorico, con il colore intriso alla tramatura della tela per ricordare una ferita sempre aperta.
Una pittura meditativa, che vive di lievi e modulate vibrazioni
luministiche, di bianchi calcarei, come calcinati al sole, di neri fumosi e
riarsi, di forme sfumate in atmosferiche dissolvenze. I contorni si sfrangiano
e ricostituiscono in una spazialità riassorbita da fondali monocromi,
luminosi alla maniera dei fondi oro bizantini e tardo gotici; travasano senza
soluzione di continuità nelle fitte trame segniche che screziano le
superfici o, ancora, s'infondono nelle velature trasparenti d'una gamma
coloristica parca e di calibrata intensità: grigi lavici, terre
bruciate, ocre, gialli ambra, verdi malva, rosa spenti, pallidi cobalti.
Tutto converge nell'unità poetica dell'immagine, nell'eco di remote memorie e di più recenti suggestioni: plastica etrusca, pitture rupestri e dei monasteri serbi, icone ortodosse, impressioni dei mosaici di Ravenna e Venezia in una sincronia di fonti, nella pacificazione del dualismo tra Oriente e Occidente, che è tra le altissime risultanze dell'arte di Music.
Fogli sporchi dell'orrore di Dachau
'Ancora oggi mi accomnano gli occhi dei moribondi come centinaia di scintille pungenti [ . ]. Vivevo in un quotidiano paesaggio di morti, di moribondi, in apatica attesa. Stecchiti e come congelati, i morti mi fanno comnia. A strati, una fila di teste in avanti, e sopra una fila con le gambe sporgenti'.
Zoran Music
Immaginare Dachau: la cenere fuoriesce appena dall'alta ciminiera, come uno sbuffo impiegato a pulire l'animo stanco, licenziare il terrore che spezza il cuore, ed il fiato. I cancelli si chiudono, l'odore di carne bruciata asfissia, fintanto non se ne impari l'acre sapore, poiché, in ultimo, anche questo è un sapore; e un'abitudine, quella della morte, dell'affanno, dell'addio, forse la fatica peggiore. Morire è il destino di ogni uomo, perciò un'arte ben banale, diceva Kierkegaard, tuttavia, la empietà dei campi nazisti e le guerre che ancora imperversano sulla crosta della terra, fin nel viscere del mondo, lo hanno reso un gesto estremamente individuale. Ricordare Dachau: si potrebbe descrivere la dolenza acerba delle camere a gas; acerba, siccome nessuno è maturo per morire, soprattutto quando coartato. Qui si resta come incollati di fronte alle incisioni asciutte di Zoran Music, alle cataste tumescenti, non ravvisando umanità alcuna nei grumi saponati di scheletri e pelli: la razza non conta, né qualità, né destino. E viene da lacrimare, all'idea dei lamenti, e delle angosce, e dei timori, e dei cedimenti. Lì, nel gelo di Dachau, ci si abbandona alla morte come in trionfo, se ne confida, per non proseguire a vivere: il peggiore guadagno.
Zoran Music, Non siamo gli ultimi..
Con che coraggio si può raccontare un dolore altrui? I testimoni se ne stanno andando nell'oblio della storia, permangono i memoriali e le cronache dei libri di testo, di un'interminabile inventario di nomi: fantasmi che un tempo ebbero il sorriso. La memoria non basta a preservare dalla follia. Music non ci lascia dimenticare, ma impetra uno sguardo caritatevole e il silenzio della vergogna.
L'eredità del lager ripone in un rotolo di carta qualche decina di disegni, fogli nascosti per timore, e sporchi dell'atrocità di Dachau. Questi primi abbozzi di sfacelo smettono per un ventennio di urlare, caduti nel sonno della ragione, pur con le loro piaghe scoperte. Negli anni Settanta il credito che la devastazione ferale della shoah ha capitalizzato a suo discapito, torna a marchiare l'epidermide pittorica del maestro, e deflagra in una serie intensa di ure fantasmagoriche, dipinte nei colori spenti della sofferenza, stilate in parchi toni fangosi; spesso Music disegna le mani delle persone simili a uncini, perché afferrino l'aria, e con essa il denso nulla del loro intorno; Insieme ai dipinti stampa numerose incisioni: fogli acri, aguzzi, più brutali degli oli brumosi e sfumati. In queste acqueforti non si può sfuggire allo squarcio, al bulino che incide la lastra, penetrata come da un bisturi, e di ciò s'infetta col nero pecioso dell'inchiostro che tatuava i reclusi sagomando i resti di un addio, involontario, obbligatorio come quello che proffersero al mondo i deportati. Cadastre de cadavres nebulizza il lutto per renderlo etereo, usufruendo della polverosa filigrana litografica col suo segno sbavato e grave.
Contemporaneamente a Non siamo gli ultimi, Music appronta anche alcune tele a Motivo vegetale, in cui i tralci, le radici e i rami si attorcigliano come braccia, gambe, addomi sgonfiati. Si tratta dell'identico motto ispirante, dell'identica dolenza da amalgamare alle paste pittoriche, e ai rimandi della memoria. Quindi, gli odori delle capanne, e le grida dei campi, dileguano nuovamente.
Zoran Music, Autoritratto.
La parentesi si richiude ancora una volta con una serie di autoritratti, e di nuovo i volti servono a cancellare le storie, anzi le nascondono nel fondo del cranio, dietro alle pupille allampanate per la carestia di pietà. Nel 2001, benché novantenne, egli propone una serie allucinata di autoritratti; allucinati d'ombra, abbagliati dall'oscurità che intorno si solleva, e forse altresì nell'intimo. È come se ci fosse nebbia in casa, e la scorgesse lui solo, aspirandola, trattenendola addosso. Questi disegni mantengono inalterata la forza dei cadaveri, sono essi stessi salme che si accartocciano come la foglia secca. Non vi è distinzione fra autore ed esperienza passata. Non distanza fra soggetto e fenomeno, fra sguardo e catastrofe.
La catastrofe è dunque uno sperpero di corpi, di anime, massacrate in virtù di un progetto distorto e micidiale, cieco e ferino nel contraddire il futuro. Quale domani attende i deportati di Dachau, i prigionieri dei gulag e della Siberia, dei nuovi campi in cui si disperde la parte dignitosa dell'essere vivente? Gli autoritratti di Music pretendono un futuro, per converso negato ai suoi comni di sventura nazista, a quelli che, diversamente da lui,conobbero la mano del boia, o il gas venefico della follia omicida. Ebbene, poter vantare un avvenire, un giorno successivo a quello vissuto, ne ricorda all'uomo la condizione emancipata; la libertà profonda cui partecipa attimo dopo attimo, costantemente.
Ad Auschwitz s'offriva un futuro di morte, che a Dachau viceversa si taceva, lasciando all'incertezza il nero della paura e del terrore che arreca l'ignoranza circa il proprio destino. Non vi era libertà di pensare il futuro. Non la minima avvisaglia di una decisione finale. Si stava sospesi in 'apatica attesa'.
Zoran Music, Non siamo gli ultimi..
Grovigli di
membra, scarni corpi trasportati a braccia, frutto dell' "incredibile
frenesia di disegnare [] come in trans, mi attacco morbosamente a questi
fogli di carta [] accecato dall'allucinante morbosità di questi campi
di cadaveri [] irresistibile necessità [] per non farmi sfuggire
questa grandiosa e tragica bellezza".
In Music, manca la disperazione; vi è già il verdetto della condanna, la sconfitta, oppure la serenità dello scampato pericolo, o la calma degli ignari. Silenzio e rovina coesistono come due diversi esiti di uno stesso significante; non vi è differenza fra morte e vita, poiché ne coincidono gli estremi, nel circolo vorticoso e costante dell'esistenza. Si tratta di una composizione intensa e spasimante: chi si ferma è finito.
Zoran Music, Cataste di cadaveri.
Music trascrivendo i ricordi di Dachau dimostra come proprio la vita prosegua a dispetto del dramma: nonostante l'incubo della notte, il mattino porta la quiete. La sua testimonianza s'incastona nella pittura, che diviene il vestigio della nostra presunta (o desiderata) eternità. Noi, non siamo gli ultimi.
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