storia |
ANTINOO
Per la maggior
parte degli studiosi di arte antica l'accostamento proposto dal titolo potrebbe
risultare alquanto inconsueto se non addirittura bizzarro, in realtà vi
è un sottile fil rouge che collega intimamente le due statue
attraverso l'opera intermediatrice dell'arte policletea.
Queste brevi riflessioni prendono spunto dal mio lavoro di tesi sull'arte adrianea e, in particolare, sulle riproduzioni di Antinoo, il giovane efebo, amante prediletto
dell'imperatore Adriano.
L'Antinoo Farnese, conservato
attualmente al Museo Archeologico di Napoli, è il simbolo, l'espressione
della corrente scultorea dominante nel ventennio del principato adrianeo. La scultura di questo meraviglioso periodo di
pace e prosperità per l'impero di Roma segue, come tutta l'arte, i
dettami e gli stili che le sono più congeniali, e che derivano dai
modelli adottati con più dedizione dai singoli artisti. La scelta
principale di questo periodo segue e ricalca per certi versi quella dell'arte augustea, ma raggiunge e supera il freddo e monotono neoatticismo, arrivando a perseguire traguardi ben
più elevati. Questo secondo "ritorno" alla classicità greca,
intesa come forma canonica ed espressiva pura e perfetta, fu con molta
probabilità auspicata dallo stesso imperatore Adriano, il cui marcato
filellenismo era ben conosciuto nell'antichità ed additato come una
delle debolezze e stravaganze dell'imperatore. Nel discorso ben si inserisce la
ura del giovane Antinoo di cui Adriano si
invaghì e che amaramente pianse quando, nel 130 d. C. , questi
annegò misteriosamente nelle acque del Nilo.
Dallo studio dei ritratti di Antinoo si evince
quindi, in ossequio con la moda artistica del tempo, un ritorno a canoni e
atteggiamenti scultorei propri della tradizione greca. In particolar modo nell'Antinoo Farnese, opera nella
quale il giovane efebo è ritratto in nudità eroica, si notano
echi e accenti che possiamo ascrivere certamente alla corrente artistica di Policleto imperante alla metà del V sec. a. C. . La posizione del corpo, di ogni singola membra,
richiama l'opera più famosa dell'artista argivo, il Canone, citato
dalle fonti come misura della perfezione del corpo umano.
Con ciò, naturalmente, non si vuole affermare che la statua Farnese sia una diretta emanazione del Doriforo
di Policleto (come si può invece constatare
osservando un'opera come l'Augusto di Prima Porta che il Bandinelli
affermò essere un Doriforo con corazza), ne
che tantomeno ne voglia riprodurre il pathos o
il significato reale e latente. Il Doriforo è
un portatore di lancia, un guerriero, atleta, un vincitore di giochi olimpici,
che incede con la sua lancia (dory) ed
il suo scudo (aspis); egli rappresenta la giovinezza aristocratica,
il fiore della potenza e della supremazia degli aristoi,
dei buoni e degli eletti dal fato.
Le due statue si accomunano invece nelle loro precipue particolarità
esteriori, nell'estetica che traspare dai due pezzi di marmo lavorati,
riproducendo un canone che si può definire "perpetuo". Nondimeno
possiamo avvertire come un senso di continuità, che travalica il tempo,
per definire nell'Antinoo Farnese
una sorta di summa delle prerogative artistiche provenienti dall'arte
classica greca filtrate attraverso l'esperienza ed i secoli nell'eclettismo
proprio dell'arte romana. In questo contesto si inseriscono le ure degli
antecedenti artistici dell'arte peloponnesiaca di Policleto. Con la fine del VI sec. a.
C. l'arte greca determina e porta a compimento le progressive scoperte ed i
miglioramenti evolutivi, soprattutto nel linguaggio espressivo scultoreo.
Terminata la fase del gigantismo, propria di una società nella quale
rivaleggiano tirannidi e tiranni nel superamento di rivali ed antagonisti,
comincia la produzione dei kouros e korai testimoni di un
mondo arcaico legato soprattutto alla visione frontale, al trattenimento delle
masse e dell'energia dei corpi, che divengono ben compressi in
muscolature più o meno evidenti, esplicate nella ben nota formula
icastica di "energia di moto trattenuta". Lo scioglimento di questa visione
frontale, quasi bidimensionale, del corpo avviene in modo lento e graduale, ma
è evidente in leggere asimmetrie del volto e del corpo che si
percepiscono già in un opera celeberrima come il Cavaliere Rampin, databile al
Concludendo, come si sarà ben capito, il filo rosso che congiunge un kouros della
fine del VI sec. a. C. con la statua del giovane Antinoo divenuto eroe, e ben presto, in altre
rappresentazioni posteriori, dio (si pensi ad esempio all'Antinoo
Braschi dei Musei Vaticani), non è di tipo
subito visibile e facilmente riconducibile. Questo accade perché non vi
è rapporto diretto tra le due opere, esso non esiste, e non potrebbe
essere altrimenti; il collegamento che suggeriamo, e che individuiamo si evolve
e viaggia lungo il corso dei secoli, come se si trattasse di un eredità
tramandatasi di generazione in generazione, che non smarrisce il retaggio
più antico e genuino, a dispetto delle mere trasposizioni, che di sicuro
gli artisti di Adriano avranno provveduto ad operare per ritrarre il giovane amasio dell'imperatore. Se postuliamo un raffronto tra il Doriforo e la statua dell'Antinoo
Farnese, dobbiamo poi necessariamente chiederci chi e
cosa attirò ed istruì Policleto alla
scultura, quale sia stato il sostrato sul quale si venne a creare la sua arte .
La riproduzione pedissequa dello schema del Doriforo
si inserisce a più riprese nell'arte romana e si sublima nell'Antinoo di Napoli. Egli, come prima detto, non è un doriforo, non porta la lancia, anzi credo che l'avrebbe
aborrita, delicato efebo di corte, nondimeno segue lo schema chiastico di Policleto, con accenti
e modi differenti, ne segue l'eredità, forse inconsciamente, ma a
modo suo, evidente ricordo dell'amore del suo imperatore e dell'arte di un
periodo giustamente definito "aureo".
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