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Conflitto israeliano-palestinese
La questione israeliana-palestinese ha origine nella politica imperiale britannica.
La Gran Bretagna, infatti, per avere il sostegno degli arabi contro la Turchia durante la prima guerra mondiale, aveva prospettato la nascita di uno stato arabo indipendente in Palestina, allora sotto il dominio ottomano.
Non volendo inimicarsi le élite ebraiche occidentali simpatizzanti con il sionismo, che aveva fin dal 1882 spinto molti ebrei dell'Europa orientale a emigrare in Palestina, il governo britannico intendeva tenere aperto un focolaio di divisione in vista del proprio dominio sulla regione; perciò, il 2 novembre 1917, con la dichiarazione di Balfour, promise agli ebrei uno stato autonomo, pur con la contraddittoria promessa di non danneggiare le altre comunità già esistenti in Palestina.
Su questa base la Società delle Nazioni conferì all'Inghilterra il mandato su quella regione, che cercò di controllare giocando sulle rivalità etniche e religiose suscitate dal continuo afflusso di immigrati ebrei, spinti a lasciare l'Europa dal diffuso antisemitismo e dalle persecuzioni naziste.
Quando gli arabi arrivarono a prendere le armi contro gli inglesi (1936-l939), gli ebrei erano ormai 400.000 ed erano decisi a ricorrere anch'essi alle armi per difendere e ampliare i propri insediamenti nella Terra Promessa. La Gran Bretagna reagì con una dura repressione militare e limitando l'afflusso di altri ebrei.
All'indomani della seconda guerra mondiale le pretese imperiali britanniche erano molto ridimensionate, mentre cresceva il sentimento nazionalista dei paesi arabi. Nel 1947 la Gran Bretagna sottopose la questione palestinese all'ONU, che l'anno seguente approvò un piano che contemplava la divisione del paese in uno stato ebraico, uno stato arabo-palestinese e una zona, che avrebbe compreso anche Gerusalemme, sottoposta all'amministrazione fiduciaria delle stesse Nazioni Unite.
Il progetto fu accettato dagli ebrei, ma venne rifiutato con decisione dagli arabi di Palestina e dei paesi confinanti, che non ammettevano che il problema ebraico, di cui si era così tragicamente macchiata l'Europa, fosse scaricato in un'area ormai da secoli arabizzata.
In seguito al piano ONU, nel maggio del 1948 il mandato britannico in Palestina si estinse e il Consiglio provvisorio ebraico proclamò la nascita di una costituzione e, con essa, lo stato d'Israele, che fu subito approvato da USA e URSS, ma che provocò l'immediato intervento armato dei paesi arabi, che dettero inizio alla prima guerra arabo-israeliana, detta da questi ultimi "guerra di indipendenza".
Essi furono attaccati dagli eserciti di Siria, Egitto, Giordania, Libano e Iraq.
Mentre l'Haganah, l'organizzazione militare sionista costituita nel periodo del mandato, era scarsamente equigiata, i paesi arabi disponevano di truppe regolari. Tuttavia, a causa dei contrasti interni ai singoli paesi, Israele riuscì a neutralizzare rapidamente l'attacco.
Il 1° giugno, su pressione dell'ONU, fu stipulato un armistizio
Nelle settimane seguenti Israele poté rafforzare sensibilmente le proprie forze armate, ribattezzate Zahal, e la controffensiva inflisse agli arabi una pesante sconfitta. Nel 1949 l'Egitto concluse con Israele un armistizio, l'armistizio di Rodi, cui entro il luglio aderirono gli altri paesi arabi.
Israele si impossessò quindi di alcune zone destinate dall'ONU a far parte dello stato arabo, e in più delle alture del Golan, siriane; l'Egitto occupò la striscia di Gaza e la Cisgiordania fu annessa alla Giordania.
Centinaia di migliaia di palestinesi furono costretti a fuggire dal territorio israeliano cercando asilo nei paesi confinanti; molti furono espulsi con la forza, mentre i beni immobiliari dei fuggiaschi furono trasferiti ai coloni ebrei.
Lo stato di guerra nella regione rimase permanente, fino a sfociare nell'ambigua seconda guerra arabo-israeliana del 1956, la "guerra del Sinai", che aggravò la situazione di insicurezza in cui versava la popolazione araba.
Lo stato ebraico ritenne di poter approfittare della tensione creatasi tra l'Egitto e le potenze occidentali, a causa della nazionalizzazione della comnia del canale di Suez decretata dal presidente Nasser, per attaccare l'Egitto.
Le truppe francesi e inglesi occuparono la zona del canale. Due giorni prima, evidentemente d'accordo con Francia e Gran Bretagna, Israele aveva già sferrato un attacco contro l'Egitto e nell'arco di pochi giorni conquistò la penisola del Sinai e la striscia di Gaza.
Tuttavia dopo le minacce dell'Unione Sovietica di intervenire militarmente a fianco dell'Egitto, Israele, Gran Bretagna e Francia, su pressione degli Stati Uniti, dovettero ritirarsi. Nella penisola del Sinai e nel golfo di Aqaba vennero dislocate truppe delle Nazioni Unite. Il successo militare di Israele e dei due paesi europei si tramutò quindi in una vittoria politica dell'Egitto nei confronti delle ex potenze coloniali.
Gli arabi ritennero però questo attacco come un motivo in più per considerare Israele un nemico alleato dell'imperialismo occidentale contro i loro tentativi di liberazione e di unità.
In esilio si costituirono diversi gruppi nazionalisti palestinesi disposti a prendere le armi. Nel 1964 vari movimenti di guerriglieri (fedayn) diedero vita all'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).
Nel frattempo si arrivò all'annuncio con cui l'Egitto dichiarò il blocco navale degli stretti di Tiran che controllano l'ingresso del golfo di Aqaba. Questo, unito alla presenza di truppe egiziane, giordane e siriane sul confine israeliano furono per Israele l'occasione per scatenare una guerra contro gli stati arabi confinanti.
Gli egiziani iniziarono a trasferire grandi quantità di truppe e veicoli blindati nella penisola del Sinai.
Nasser chiese che l'ONU ritirasse l'UNEF -forza d'emergenza dell'ONU per il mantenimento della pace- dal Sinai, e l'ONU acconsentì. Le truppe egiziane si ammassavano così lungo il confine meridionale di Israele mentre le truppe siriane occupavano le alture del Golan.
L'Egitto rese poi intransitabile l'unico porto israeliano sul mar rosso, negandogli l'accesso al suo principale fornitore di petrolio.
Appellandosi al suo diritto di autodifesa, Israele cominciò un'offensiva armata.
Il primo giorno, l'intera flotta aerea araba venne annientata e nei cinque giorni seguenti l'esercito israeliano attaccò le truppe di terra e conquistò la striscia di Gaza, la Cisgiordania, compresa la parte araba della città di Gerusalemme, la penisola del Sinai e le alture del Golan in Siria.
A causa della sconfitta, il presidente egiziano Nasser si dimise.
La tregua trovò Israele a occupare un territorio cinque volte superiore a quello precedente, che comprendeva la penisola del Sinai e la striscia costiera di Gaza, arrivando alla sponda destra del canale di Suez ad occidente e alla riva occidentale del Giordano a oriente.
Dopo la sconfitta degli arabi nella guerra dei Sei giorni del 1967, all'interno dell'OLP si produsse una svolta che la trasformò in una organizzazione di massa; nel 1968 ne divenne presidente Yasser Arafat. La questione palestinese dopo la guerra si aggravò, perché l'occupazione israeliana della striscia di Gaza, della Cisgiordania e delle alture del Golan moltiplicò il numero dei profughi, che trovarono rifugio soprattutto in Giordania, e accese ancor più focolai di malcontento arabo e di tensione internazionale.
La risoluzione n. 242 con cui l'ONU imponeva ai contendenti il riconoscimento di tutti gli stati esistenti nella regione (compreso quindi Israele) e a Israele il ritiro dai territori occupati, cadde completamente nel vuoto e, come già aveva fatto quella sionista prima del 1948, la guerriglia palestinese, anche contro le direttive ufficiali dell'OLP, ricorse sempre più spesso al terrorismo, soprattutto nel tentativo di contrastare la politica di insediamenti ebraici nei territori occupati, condannata anche dall'ONU.
Nel settembre 1970, sotto le minacce israeliane di rappresaglia e le pressioni dei paesi arabi filo-occidentali, re Hussein di Giordania espulse con le armi i profughi palestinesi, che mettevano a repentaglio il suo stesso regime e i cui campi erano divenuti base della guerriglia contro Israele; il nuovo rifugio dei palestinesi e dell'OLP divenne quindi il Libano.
Fu dopo questo sanguinoso episodio che nacque il Settembre Nero, organizzazione terroristica palestinese attiva dal 1970 al 1974.
Tra le azioni più clamorose compiute da questo vi fu l'assassinio del primo ministro di Giordania Wasfi Tel e il sequestro e l'uccisione di undici atleti israeliani in occasione delle Olimpiadi di Monaco.
In seguito, Israele si vendicò con incursioni contro i campi profughi palestinesi e i villaggi al confine tra Israele e Libano. Settembre Nero fu inoltre responsabile dell'assalto all'ambasciata saudita di Khartoum, durante il quale furono uccisi tre diplomatici occidentali.
Hussein offrì invano ai palestinesi la creazione di uno stato federale comprendente il proprio paese e la Cisgiordania, tuttora sotto occupazione israeliana.
La pace tra i paesi si prolungò fino al 1973, quando le truppe egiziane e siriane attaccarono Israele nel giorno della festa ebraica di Yom Kippur. Grazie alla sorpresa, Siria ed Egitto registrarono inizialmente considerevoli successi, rispettivamente sulle alture del Golan e nella penisola del Sinai. Con gli ingenti aiuti militari provenienti dagli Stati Uniti, Israele riuscì a capovolgere le sorti della guerra. Tuttavia, su pressione dell'Unione Sovietica e degli statunitensi, gli israeliani dovettero interrompere l'offensiva (risoluzione 338 dell'ONU).
Contando sulla grave sconfitta araba nella guerra del Kippur, gli Stati Uniti avviarono il primo processo di distensione, basato su trattative bilaterali tendenti a pacificare la regione, ma senza affrontare a fondo e nel concreto la questione palestinese.
L'OLP rivendicò allora la rappresentanza del popolo palestinese, che nel 1974 le fu riconosciuta dagli stati della Lega araba e quindi dalla stessa ONU, che le conferì lo status di osservatore permanente. L'OLP rivendicò inoltre la costituzione di uno stato palestinese autonomo, di cui le fu riconosciuto il diritto.
Grazie all'intervento statunitense però, Israeliani ed arabi arrivarono ad accordi economici e militari: le forze ebraiche evacuarono una parte del Sinai e l'Egitto rinunciò ad ogni azione bellica contro Israele per tre anni. Un accordo fu raggiunto anche con la Siria. In seguito il governo guidato da Begin, propose di invitare il presidente egiziano Sadat. Il 19 novembre 1977, per la prima volta dopo quattro guerre, un capo di stato arabo e un primo ministro israeliano si incontravano in un dialogo aperto.
Alla conferenza de Il Cairo, egiziani e israeliani si trovarono di fronte per gettare le basi di programma di pace.
A questa seguì l'accordo di Camp David, voluto da Begin, Sadat e sectiuner, che prevedeva la firma di un trattato di pace entro tre mesi e l'impegno da parte di Israele di ritirarsi interamente dalla Cisgiordania, dalla striscia di Gaza e dal Libano.
In entrambe le parti si verificarono discussioni e rivolte dell'opposizione, che si placarono quasi completamente con il Nobel per la pace a Begin e Sadat.
Fu quindi superato ogni ostacolo, ma proprio alla vigilia della firma del trattato di pace, a Washinton il 26 marzo, Israele decise, sfidando l'ONU, di creare nuovi insediamenti in Cisgiordania.
Nonostante questo e numerosi altri disordini politici interni, la pace con l'Egitto venne portata a termine e Israele ritirò completamente le truppe dal Sinai.
Dal fronte anti-israeliano si ritirò quindi il membro più potente, l'Egitto.
Rafforzato così il controllo israeliano in Cisgiordania e restando irrisolta la questione palestinese, gli altri paesi arabi si rifiutarono di firmare analoghi accordi.
Forte di questo risultato, nel 1981 Israele ricorse a nuove aggressioni contro i paesi arabi, fino ad annettere unilateralmente le alture del Golan e quindi a invadere il Libano, con l'intenzione di sopprimere l'OLP e instaurare a Beirut un governo filo-israeliano.
L'assassinio dell'ambasciatore israeliano a Londra fu il pretesto colto da Israele per invadere il Libano (1982), accerchiando l'OLP a Beirut ovest.
Al successo di Israele contribuirono anche la mancanza di reazione da parte degli eserciti siriano e libanese, il sostegno statunitense e l'assoluta indifferenza internazionale di fronte all'invasione di un paese da sempre pacifico e neutrale. In Libano l'intervento israeliano scatenò uno scontro tra opposte fazioni politico-religiose, ciascuna sostenuta da un paese confinante, che si tradusse in una sanguinosa guerra civile.
Dopo aspri combattimenti, i palestinesi si ritirarono, trasferendo la sede dell'OLP in Tunisia, a Tunisi, (dove, nell'ottobre 1985, un'incursione israeliana cercò di annientarla), mentre le truppe israeliane rimasero nella zona meridionale del paese. Ma ormai la brutalità del continuo ricorso di Israele alle armi e le astute iniziative diplomatiche di Arafat, nonostante il perdurare di atti terroristici di organizzazioni arabe esterne all'OLP, allargavano l'area del consenso internazionale alle rivendicazioni palestinesi.
Nel dicembre 1987 cominciò la rivolta di massa (intifada) dei palestinesi nella striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Il termine in arabo significa 'sollevazione".
La scintilla
che fece scoppiare l'insurrezione fu la morte di quattro profughi del campo
di Jabaliya, nella Striscia di Gaza, travolti da un
grosso automezzo israeliano mentre viaggiavano su due taxi collettivi.
significativo dell'esasperazione cui una repressione sempre più
pesante e accomnata da quotidiane vessazioni aveva portato gli animi, e che
l'incidente sia stato percepito come determinato da deliberata volontà
di uccidere da parte del conducente israeliano, un colono.
I funerali, cui parteciparono quattromila persone, si trasformarono in una
manifestazione di protesta.
La polizia
israeliana aprì il fuoco, uccidendo due giovani e ferendone altri
trenta, in un copione - eccidio, funerali, altro eccidio - destinato a
ripetersi all'infinito, tanto nella Striscia quanto in Cisgiordania.
Nella prima settimana di scontri, i morti furono venticinque.
Esplosa spontaneamente, l'Intifada covava tuttavia da
qualche tempo, come risposta a un'occupazione che si protraeva ormai da vent'anni e che, mistificata come 'benevola', era
già stata contrassegnata da assassini, persecuzioni, arresti e
brutalità di ogni genere.
Come è stato da diverse parti rilevato, i palestinesi si sono ribellati
perché 'non avevano più nulla da perdere', è stata
proprio la consapevolezza di rischiare comportamento, l'incolumità, la
libertà e la vita stessa a spazzar via passività e paura.
L'obiettivo
che gli insorti si sono posti è il ritiro delle truppe d'occupazione:
è un obiettivo che spiega l'esclusione sia del ricorso ad armi
più letali che le pietre, sia dello sconfinamento oltre la 'linea
verde', nei territori che facevano parte di Israele prima del giugno 1967;
che punta quindi, in termini di logica politica, a una soluzione del problema
palestinese nell'ambito dei Territori, quale l'OLP ha effettivamente
prospettato con la proclamazione, nel novembre dell'88, ad Algeri, di uno Stato
palestinese conforme alle raccomandazioni dell'ONU.
Vale anzi la pena di sottolineare che alle varie forme di lotta adottate nelle
diverse fasi che l'Intifada ha attraversato nei primi
tre anni - manifestazioni, scioperi, sassaiole di strada, disobbedienza
civile - sotto la direzione di un 'Comando unificato' clandestino
e di una rete di comitati popolari nei quali sono rappresentati le
organizzazioni e i partiti presenti nei Territori, si è accomnato uno
sforzo più o meno sistematico per creare, nella lotta, strutture di
autogoverno.
Il suo primo risultato fu la dichiarazione, con cui il re Hussein di Giordania rinunciava alla sovranità sulla Cisgiordania a favore di uno stato palestinese autonomo.
L'OLP decise di accettare integralmente le risoluzioni 242 (1967) e 338 (1973) dell'ONU, che riconoscevano il diritto alla sovranità, all'integrità territoriale e all'indipendenza politica di tutti gli stati del Medio Oriente, compreso quindi Israele, e imponevano a quest'ultimo il ritiro dai territori occupati dalla guerra dei Sei giorni.
L'OLP proclamò anche la costituzione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme come capitale. Su questa e sulla base del diritto palestinese all'autodeterminazione, l'OLP si dichiarava disposta a prender parte ad una conferenza internazionale di pace.
Ciò indebolì la posizione di Israele e permise agli Stati Uniti di avviare un dialogo diplomatico diretto con l'OLP.
Nel gennaio del 1993 anche Israele revocò il divieto ai propri cittadini di avere contatti con l'OLP.
La possibilità di dialogo diretto tra l'OLP e Israele, aprì uno spiraglio che portò nel settembre del 1993 Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin a siglare a Oslo un accordo di pace, che prevedeva una relativa autonomia palestinese nei territori occupati da Israele.
Nel maggio del 1994 le truppe israeliane si ritirarono da Gerico e dalla striscia di Gaza, lasciandone la gestione all'Autorità nazionale palestinese (ANP) sotto la presidenza di Arafat.
Nonostante tutto, il ripetersi di attentati alla fine del 1994 e per tutto il 1995 indusse Israele a sospendere gli accordi sull'estensione dell'autonomia alla Cisgiordania e sull'apertura di corridoi protetti tra Gaza e Gerico.
L'escalation del terrorismo ebbe riflessi anche sulla situazione politica interna di Israele, indebolendo il governo Rabin. I negoziati sfociarono tuttavia nell'accordo di Washington del 1995, che estese l'autonomia a sei città della Cisgiordania e parzialmente a Hebron.
L'assassinio del primo ministro israeliano Rabin, fautore della pace, 1995, seguito da nuovi attentati e ulteriori misure repressive, impose un'altra battuta di arresto ai colloqui di pace, resi più ardui e complicati dalla vittoria della destra alle elezioni israeliane del maggio 1996.
La seconda fase dei negoziati doveva, infatti, risolvere numerose e gravi questioni in sospeso.
La tensione non impedì comunque una svolta nel processo di pace: il 15 gennaio 1997 Arafat e il nuovo leader israeliano Benjamin Netanyahu firmarono un accordo che prevedeva il progressivo ritiro degli israeliani da Hebron e dalla Cisgiordania. Tuttavia, nonostante gli sforzi da parte della comunità internazionale per arrivare a una definitiva ed equa sistemazione della questione palestinese, il processo di pace è ancora in una situazione di difficoltà, sia per le resistenze israeliane a rispettare gli accordi precedenti, sia per le tensioni che ancora minacciano l'area e che rischiano in ogni momento di provocare un pericoloso deterioramento nelle relazioni israeliano-palestinesi. Il susseguirsi di attentati quotidiani ha, infatti, bloccato le trattative. Dall'inizio del 2002 è stata ripresa in considerazione la proposta del principe saudita Abdullah Aziz che:
- Chiede ad Israele di impegnarsi solennemente per:
- Il ritiro
da tutti i territori occupati dal 1967 in poi, tra cui le Alture del Golan siriane fino alla linea di confine del 4 giugno 1967,
oltre che i restanti territori libanesi occupati nel sud del Libano.
- L'accettazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano sui
territori occupati dal 1967 in Cisgiordania e nella
Striscia di Gaza, con Gerusalemme Est come sua capitale.
2- In conseguenza di ciò, i Paesi arabi si impegnano solennemente
a:
-considerare concluso il conflitto arabo-israeliano, a stipulare un
accordo di pace con Israele e a adoperarsi per la sicurezza della regione.
-allacciare normali relazioni con Israele nel contesto di questa pace
globale.
3- Chiede al governo e al popolo di Israele di accettare la presente
iniziativa per salvaguardare le prospettive di pace ed impedire un ulteriore
spargimento di sangue, in modo che i Paesi arabi e Israele possano vivere
in pace e in un rapporto di buon vicinato e garantire alle generazioni future
sicurezza, stabilità e ricchezza.
Questa proposta potrebbe rimettere in moto le trattative: la linearità del piano, infatti, costringe finalmente le potenze mondiali a dichiarare una volta per tutte le loro posizioni e a rivelare le proprie intenzioni di gioco.
Gli Stati Uniti sono quindi tornati in prima linea dopo la politica di disimpegno degli ultimi anni.
L'unione europea ha subito mandato il suo rappresentante Javier a colloquio con Abdullah, e risulta d'accordo a ricoprire il ruolo di mediatore tra i palestinesi e le altre parti in causa, anche se deve far ancora i conti con gli israeliani che li accusano ancora di antisemitismo.
L'Arabia Saudita, la leadership della Lega Araba ha almeno tre buone ragioni per sperare che la proposta vada a buon fine: innanzi tutto l'Arabia ha ancora qualcosa da farsi perdonare dagli USA dopo l'11 settembre; la componente saudita dei dirottatori e la mancata autorizzazione per l'utilizzo della base di Prince Sultan per i bombardamenti contro l'Afghanistan, hanno, infatti, evidenziato un ambiguo legame tra stato arabo e terrorismo.
C'è poi la questione di Gerusalemme: l'Arabia che è già in possesso di La Mecca e di Medina, non si disdegnerebbe di poter toglierla dall'influenza di altre nazioni arabe.
È quindi una proposta che però non ha suscitato le reazioni sperate nei diretti interessati: Arafat e Sharon.
Entrambi i leader si trovano in una posizione estremamente ambigua: Arafat, infatti, è costretto a riacquistare la mancata fiducia in campo diplomatico, ma ad essere interventista in politica interna per accontentare gli estremisti.
Sharon invece dichiara di volere la pace ma di non riuscire ad ottenerla per la mancata risposta della controparte, sa però bene di dovere il suo ruolo di Primo Ministro solo alla situazione di emergenza del paese.
Il risultato di questa doppiezza è quindi quello di una terra lanciata sempre più alla rovina.
Così nel periodo che va dal Marzo 2002 fino ad oggi, solo un mese ha registrato un numero di attentati minori a 10 solo da parte del terrorismo palestinese: il cosiddetto periodo dell'operazione "Scudo difensivo", l'aprile 2002.
Anche in quel caso solo la pressione militare, non quindi il dialogo riuscì a diminuire la capacità operativa dei terroristi. Tra gennaio 2003 e oggi invece il numero degli attentati è drammaticamente cresciuto: 65 solo a gennaio e 57 a febbraio.
Anche le azioni belliche di Israele non si fanno però attendere: le camne di vaccinazione per i bambini palestinesi sono completamente bloccate perché i 90 blocchi realizzati dall'esercito israeliano in Cisgiordania impediscono l'accesso dei servizi sanitari.
Sempre a causa di questi il 70% della popolazione palestinese è impossibilitata a raggiungere gli ospedali. Sono stati uccisi più di 500 civili palestinesi e distrutte ben più altrettante case o istituzioni civili.
In questo contesto va anche messa in evidenza la situazione di impoverimento continuo della popolazione palestinese, aggravata dall'impossibilità materiale di lavorare in conseguenza del blocco dei territori e dall'assenza di nuove occasioni di lavoro nei territori stessi, ridotti alle aree chiuse e non comunicanti fra loro.
Ultimamente il conflitto così complesso si è ridotto ad un singolo problema: la presenza di Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Vari portavoce palestinesi e i loro sostenitori hanno compiuto grandi sforzi per far passare la tesi secondo la quale uno stato di occupazione è illegale.
Questa affermazione non è sostenuta né dal diritto internazionale, né dagli accordi tra Israele e l'Autorità palestinese, ma continuamente ripetuta mira a promuovere nuove norme internazionali.
L'ordinamento giuridico internazionale non vieta, infatti, l'occupazione: molti stati hanno, infatti, mantenuto e mantengono tutt'ora territori presi nel corso di una guerra -in particolare se questa difensiva- finché non sia raggiunto un trattato di pace.
Lo status attuale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza può essere poi definito come un accordo tra le parti, come fu stabilito negli accordi di Oslo. Non c'è inoltre nessun trattato che dimostra la sovranità di questi territori prima della guerra dei Sei giorni, in modo che questi non possono essere occupati, ma contesi.
È per questo che molti stati palestinesi considerano Israele come un cancro nella regione, come se in realtà gli ebrei avessero interrotto i legami con le loro tradizioni bibliche sulla loro Terra Promessa.
Queste affermazioni mirano inoltre ad alimentare il mito che uno stato palestinese esistesse nell'area prima della fondazione dello stato di Israele.
In realtà nessuno stato arabo o palestinese è mai effettivamente esistito in Palestina.
Tutto questo avviene da entrambe le parti ogni giorno nel pieno disprezzo di tutte le regole di comportamento verso la popolazione civile, in contravvenzione alla leggi internazionali e in particolare alla IV Convenzione di Ginevra.
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