storia |
I Romani primitivi erano frugalissimi, ma i loro discendenti, soprattutto nell'età imperiale, avevano per la buona tavola un amore che non risparmiava cure e non badava a spese.
Erano allevati razionalmente pesci, selvaggina, uccelli e, oltre al pollame, si ingrassavano lepri, i ghiri, persino le ostriche.
Quando la produzione indigena non era sufficiente, provvedeva il commercio; da tutte le parti del mondo conosciuto venivano a Roma vini prelibati e leccornie.
Cuochi comprati a carissimo prezzo profondevano tutti i ritrovati della loro arte, usavano ingredienti di gran costo per manipolare manicaretti complicatissimi.
Come noi i Romani erano ghiotti dei funghi, ma li cuocevano col miele; pregiavano le belle pesche, ma le trattavano a un disprezzo come facciamo noi con le anguille marinate; avevano una predilezione per molti dei pesci che anche oggi si vedono volentieri sulla tavola, ma li preparavano con certi intrugli preoccupanti, in cui entrava di ogni cosa un po', non escluso le susine e le albicocche spiaccicate e una poltiglia di mele cotogne.
Non esistevano nè liquori, nè caffè, nè tè; unica bevanda esilarante era il vino.
Anche nei bars (thermopolia), si beveva vino caldo.
Nei primi secoli il grano serviva a preparare la puls, una specie di pappa di frumento; l'uso del pane sembra fosse divenuto generale solo al principio del II sec. a. C..
Esso era di tre qualità:
il pan nero, di farina stacciata rada (panis plebeius);
il pane più bianco, ma non finissimo (panis secundarius);
il pane di lusso (panis candidus).
E' ricordato anche il pan da cani (panis furfureus).
Dei legumi i più usati erano le fave, le lenti, i ceci; degli ortaggi: le lattughe, il cavolo, il porro.
Gli asparagi e i carciofi erano rari e ivano solo sulla tavola dei ricchi; ricercatissimi i funghi; l'uliva era in grande onore e di rito negli antipasti.
In Roma si mangiavano molte rape, considerate un poco cibo nazionale; sconosciuti tartufi , patate, pomodori, fagioli e in luogo dello zucchero, anch'esso sconosciuto, si usava il miele o il mosto cotto.
I frutti d'uso erano mele, pere, ciliege, susine, uva fresca e uva passa, noci, mandorle castagne. I datteri venivano dai paesi caldi; erano invece rarissimi e non nostrani gli agrumi, importati dall'Oriente.
La selvaggina si allevava come noi facciamo con gli animali domestici, ed era molto più apprezzata del pollo, che i Romani, tenevano in poco conto.
Oltre alla carne ovina, la più usuale, e a quella di maiale, di cui erano ghiottissimi, mangiavano carne di cervo, d'asino selvatico e dedicavano cure scrupolosissime all'allevamento del ghiro, cibo molto raffinato.
Il fenicottero, di cui si pregiava in modo particolare la lingua, la cicogna, la gru, lo psitacco, uccellino ciarliero della famiglia dei papalli, e anche il pavone erano in onore.
Ma ad ogni altro cibo i Romani preferivano il pesce di qualità fine.
Del pesce si faceva in Roma un uso grandissimo; dai piccoli pesci conservati in salamoia, roba di poco prezzo che si smerciava fra il popolino, a quelli più ricercati come le sogliole, le triglie, lo scaro, lo storione, il rombo.
Ma la principale caratteristica della cucina romana consisteva nel grande uso di alcune salse di pesce, ottenute con un lungo procedimento, che venivano conservate in anfore.
Presso i Romani il pasto di mezzogiorno (prandium) consisteva, in qualche boccone buttato giù alla svelta senza nemmeno mettersi a sedere; il pasto principale si faceva la sera con la cena.
Nei tempi più antichi si cenava nell'atrium e, più tardi, nel cenaculum, una stanza costituita da un ammezzato sopra il tablinum; ma dopo il periodo delle guerre puniche, quando divenne generale l'uso greco di pranzar distesi, alla cena era riservata una stanza speciale: il triclinium.
Vi erano triclini per l'estate e triclini per l'inverno; differivano solo per l'esposizione.
Intorno alla tavola si disponevano tre letti; su ogni letto prendevano posto tre commensali che mangiavano stando sdraiati di sbieco col gomito del braccio sinistro appoggiato ad un cuscino e i piedi volti verso destra.
Nell'età imperiale venne di moda un letto arcuato(sigma), dove trovavano posto sei, sette ed anche otto commensali.
Il posto d'onore era alle estremità (cornua), dove minore era il disagio dello star pigiati insieme.
Ogni posto era separato dall'altro mediante dei cuscini messi sotto le coperte del letto tricliniare.
La tavola posta dinanzi ai letti triclinari era rotonda, priva di tovaglia (mantele), che fece la sua sa solo nel I sec. d. C..
Invece il tovagliolo (mappa) esisteva: o era fornito dall'anfitrione, o i commensali lo portavano con sè da casa; e alcuni se ne servivano per metterci dentro gli avanzi del pranzo.
Prima di essere serviti, i cibi erano preparati da uno schiavo (scissor) che li tagliava in piccole porzioni rendendo inutile l'uso del coltello; quindi venivano portati sulla tavola o messi su di un mobile speciale, detto repositorium, che stava sulla tavola.
Sulla tavola c'era sempre anche la saliera e l'ampolla dell'aceto.
I commensali si potevano servire a volontà.
Tenendo poi con la sinistra il piatto (patina, patella o, se fondo, catinus) prendevano il cibo con le dita, poichè in questa età non vi era la forchetta.
Essendo uso dei Romani bere il vino caldo e annacquato (solo per le libazioni rituali il vino veniva servito puro), nel triclinio vi erano il recipiente del vino, quello dell'acqua calda e il cratere (grosso vaso dove si mescolava l'acqua col vino).
Con una specie di romaiolo (cyathus) si attingeva il liquido e si mesceva nelle coppe facendolo passare attraverso un filtro perchè gli antichi, per difetto di tecnica, non arrivarono mai a produrre del vino perfettamente limpido.
Gli schiavi addetti al servizio erano diversi secondo l'abilità e la grazia dell'aspetto.
Un tricliniarcha, esperto di etichetta, era incaricato dal padrone di casa di sorvegliare l'andamento del banchetto.
Vi erano anche schiavi di fiducia (pueri ad pedes) che ogni commensale portava con sè; questi schiavi assistevano al banchetto rimanendo in continua attesa degli ordini del padrone.
Quando i commensali si erano adagiati nel posto loro assegnato, gli schiavi porgevano l'acqua per l'abluzione alle mani e il banchetto cominciava; non finiva prima che fossero passate molte ore.
Si cominciava con l'antipasto (gustus o gustatio) formato di pietanze leggere, fra le quali non mancava mai l'uovo, e atte a stuzzicare l'appetito; con esse si beveva il mulsum, mescolanza di vino e miele.
Dopo veniva la cena durante la quale si beveva del vino e si servivano varie portate, ognuna chiamata cena; quindi prima cena, seconda cena, tertia cena significavano prima, seconda, terza portata.
Alla fine della cena i servi portavano nel triclinio e posavano sulla tavola le tavolette del Lari; si pronunciavano parole di buon augurio e si facevano delle libazioni con vino puro.
Dopo si riprendeva il banchetto ormai giunto alla sua ultima fase, cioè alle secundae mensae (dette anche, con parola greca, comissatio), durante le quali si mangiava roba piccante o secca che eccitasse la sete; nei grandi banchetti i commensali si inghirlandavano di fiori, si ungevano con grande profusione di unguento, bevevano copiosamente, non finivano più di fare brindisi.
La povera gente per mangiare si serviva di vasellame di coccio (vasa Saguntina).
Nei grandi banchetti piatti e vasi erano d'argento; le coppe erano di cristallo, di oro, di elettro, una speciale lega di metalli preziosi, di murra, una pietra opaca, costosissima, che aumentava, dicevano, la fragranza del vino.
Raramente queste coppe erano lisce, più spesso ornate di gemme o, se di metallo, di rilievi lavorati in cui si poteva ammirare al tempo stesso l'abilità e la fantasia dei cesellatori i quali, talvolta, osavano bizzarre decorazioni.
Naturalmente non si deve credere che in quelle ore non si facesse altro che mangiare e bere.
Oltre al conversare e al discutere, passatempo che ha sempre avuto la sua attrattiva, vi erano svaghi e trattenimenti di vario genere.
Molto in uso erano le letture che uno schiavo (lector) faceva ai commensali, le recitazioni, le declamazioni le audizioni musicali; artisti abili nel suonar la cetra (lyristae) o nel cantare (choraules) davan prova della loro arte dietro lautissimi compensi.
I buontemponi preferivano i banchetti in cui si giocava d'azzardo, o dove i lazzi e le impertinenze dei buffoni (derisores) facevano ridere la brigata; preferivano spettacoli che nell' età nostra sono andati in gran parte a finire nei teatri di varietà: molli danze di suonatrici di nacchere (crotalistriae) o di effemminati ballerini (cinaedi), e anche esercizi di acrobati (petauristarii).
C'era poi anche il sollazzo offerto dai moriones, nanerottoli mezzo idioti, venuti di gran moda nell'età imperiale, con le loro bestialità tenevano allegra la comnia
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