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STORIA DELLA LEGISLAZIONE URBANISTICA ITALIANA DALLA LEGGE URBAISTICA AI GIORNI NOSTRI.
CAPITOLO III DALLA
LEGGE URBANISTICA ALLA FINE DEGLI ANNI SESSANTA.
La legge 17 agosto 1942, n. 1150 è la prima legge organica in materia urbanistica.
Costituisce ossia il primo ordinamento sistematico di organi, strumenti e mezzi per una razionale sistemazione del territorio.
La L.U. del 1942 si avvale delle esperienze, dei concetti e dei principi già contenuti nelle varie leggi speciali, ed in particolar modo nella legge speciale 24 marzo 1932, n. 355, relativa all'approvazione del piano regolatore del comune di Roma, le cui norme erano state scritte da Virgilio Testa.
Virgilio Testa è stato un protagonista della L.U., di cui può anzi
ritenersi il principale artefice. Già segretario generale dell'INU, fin dal momento della fondazione
di questo, quale Ente di alta cultura di Diritto Pubblico, avvenuta nel
1930, venne chiamato nel 1935 da Bottai, allora Governatore di Roma, a
segretario generale del Comune. Fu tra gli ispiratori della localizzazione della
grande esposizione universale che avrebbe dovuto tenersi a Roma nel 1942
(nota come E 42); successivamente diventato Consigliere di Stato e nominato
Commissario dell'Ente, subentrato all'E 42 rimasta lettera morta, contribuì
a realizzare il quartiere romano dell'Eur, avvalendosi del meccanismo
dell'art. 18 della L.U.
La legge generale dell'urbanistica preceduta da un ampio dibattito culturale ed ideologico, durato un decennio, fu poi in realtà approvata in periodo di guerra nella sostanziale indifferenza dei più.
Scriveva, nel 1942 Virgilio Testa sulla rivista "Critica fascista", fondata da Bottai:
"La verità è che la formazione dei quartieri abitati da famiglie di potenzialità economica meno elevata dipende essenzialmente dal costo delle aree sulle quali i singoli fabbricati sono costruiti. Se si vuole, quindi, evitare la divisione sociale della popolazione nei vari quartieri, occorre essenzialmente influire sul costo delle aree. La soluzione, a parer nostro, è molto semplice e s'identifica in un deciso intervento di enti pubblici, statali o ausiliari, inteso a sviluppare l'attività edilizia di carattere popolare, intervento esplicato acquistando dai proprietari le aree fabbricabili al loro giusto prezzo e cedendole ai costruttori in base ad un corrispettivo adeguato al fitto ridotto che dovrà essere richiesto ai futuri inquilini. Tale acquisto, si tenga ben presente, non può e non deve essere fatto ad un prezzo inferiore al valore venale delle aree; i Comuni dovranno svolgere una avveduta politica fondiaria, pagando il prezzo di mercato per i beni che loro occorrono, avendo cura di rendersi acquirenti dei terreni edificatori in base a programmi bene studiati ed a lunga scadenza."
Ed è questa la filosofia di fondo della L.U., rivolta sostanzialmente a colpire la rendita fondiaria urbana.
Uno dei principali articoli della L.U. è l'art. 18, che dava facoltà ai Comuni, dotati di PRG approvato, di espropriare, al fine di predisporre l'ordinata attuazione del piano, entro le zone di espansione del piano, "le aree inedificate e quelle su cui insistono costruzioni che siano in contrasto con le destinazioni di zona ovvero abbiano carattere provvisorio".
E non si trattava di una norma qualsiasi. Lo stesso Ministro Gorla proponente della legge - in sede di discussione, ebbe del resto a dichiarare:
"L'articolo 18 è la spina dorsale della legge. Esso dà ai Comuni la facoltà di espropriare i terreni compresi nelle zone di ampliamento, al fine di creare un demanio comunale e di permettere ai Comuni di dominare il mercato delle aree e di avvantaggiarsi del plusvalore che vengono ad acquistare i terreni in seguito alla esecuzione delle opere di piano regolatore e alla estensione dei servizi pubblici nelle zone di ampliamento. Fino ad oggi chi ha approfittato delle espansioni che hanno avuto le nostre città è stato il privato, anzi, più che il privato, lo speculatore. Lo scopo della legge è proprio quello di impedire la speculazione, di togliere al singolo il vantaggio di appropriarsi di tutto il plusvalore che i terreni acquistano per lavori eseguiti dagli enti pubblici."
Altra norma importante era l'art. 23 che trattava dei "ti edificatori", consistenti nel raggruppamento anche coattivo di proprietà frazionate mediante la volontaria conversione, in quote indivise, di più vasto compendio immobiliare previa sua predeterminazione, resa necessaria da esigenze di omogeneità urbanistica e tipologica.
Gli articoli 18 e 23 prevedevano istituti che incidevano pesantemente sulla proprietà privata.
Primo aspetto rilevante della legge urbanistica è la previsione di una pianificazione urbanistica generale, secondo una serie di piani, sistematicamente e gerarchicamente ordinati su tre livelli .
Secondo una suggestiva immagine di M. ROMANO, L'urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo, 1942-l980, il sistema è assimilabile ad una croce, al cui centro è posto il piano regolatore (PRG) comunale, strumento base della pianificazione della L.U.
In alto si colloca il piano territoriale di coordinamento, che stabilisce le direttive generali dell'assetto territoriale, orientando e coordinando gli insediamenti secondo esigenze economiche, tecniche e sociali. È un piano di direttive rivolto ai comuni, non pone prescrizioni vincolanti per i privati. La legge non stabilisce per questo una dimensione territoriale. Venne peraltro generalmente intesa, come dimensione territoriale di questo, il livello regionale.
Il secondo livello di pianificazione è costituito dal PRG, che costituisce lo strumento preminente disciplinato dalla L.U.
A fianco di esso, ai lati della croce si collocano, sullo stesso piano, il fratello maggiore del PRG, ossia il PRG intercomunale (avente la stessa natura giuridica e i medesimi contenuti del PRG, ma abbracciante più comuni), e all'altro lato il piano minore il c.d. programma di fabbricazione, invero previsto come un piano di minima contenente solo le direttive di espansione, e costituente una tavola grafica da allegare al regolamento edilizio.
Al lato inferiore della croce si colloca (terzo livello di pianificazione) il piano di esecuzione particolareggiato (PPE), che rappresenta lo strumento di attuazione del PRG integrandolo con prescrizioni più dettagliate.
Mentre il PRG ha valore a tempo indeterminato ed è esteso a tutto il territorio comunale, il PPE ha durata decennale ed ha una estensione limitata a zone del territorio comunale.
La sua approvazione comporta per le opere in esso presenti la dichiarazione di pubblica utilità.
In questo terzo livello di pianificazione sono anche da collocare:
a) piani di lottizzazione, previsti dall'art. 28 della L.U., come piani di iniziativa privata, da predisporsi sia per l'attuazione del PRG, previa autorizzazione ministeriale, in assenza di PPE, sia per l'attuazione del PPE stesso (c.d. lottizzazione incorporata);
b) i ti edilizi, o edificatori, già precedentemente menzionati e di cui evidentemente si faceva gran conto, essendo previsti anche dal coevo codice civile (art. 870).
Importantissima era poi la previsione dell'art. 18, di cui si è già parlato e che avrebbe dovuto costituire la normale attuazione delle previsioni del PRG nelle zone di espansione, mediante la previa espropriazione di queste.
Nella L.U. 1942 la gestione amministrativa dell'urbanistica venne ripartita tra organismi statali (sostanzialmente Ministero dei Lavori Pubblici) e comuni, secondo una concettuale individuazione e determinazione di interessi pubblici, concorrenti nella pianificazione urbanistica.
Ai comuni vennero (e sono tuttora) affidati compiti di adozione degli strumenti urbanistici comunali, nonché tutta l'attività di vigilanza, controllo e repressione in materia edilizia.
Al Ministero dei Lavori Pubblici: la formazione dei piani territoriali di coordinamento, l'approvazione dei piani urbanistici comunali (generali e particolareggiati), la formazione di elenchi dei comuni obbligati alla formazione del PRG (la formazione di questo era infatti facoltativa per i comuni non inclusi negli elenchi; mentre era obbligatoria la redazione di almeno un regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione); e vari interventi repressivi e sostitutivi.
Dopo avere in un primo tempo conurato l'atto di approvazione ministeriale come atto di controllo; la giurisprudenza finì per attribuire all'approvazione statale il carattere di atto d'amministrazione attiva.
Si disse, così, che l'atto di approvazione statale era l'atto costitutivo del piano regolatore, un atto complesso ineguale, per cui era consentito all'Autorità Governativa la possibilità di introdurre modifiche di ufficio, prevalentemente per la tutela di interessi statali. Ciò fu anche normato successivamente con la Legge n. 765 del 1967.
La L.U. disciplinò anche altri istituti, quali la licenza edilizia, il regolamento edilizio e introdusse per la prima volta sanzioni penali per coloro che violassero le norme dettate sulla disciplina dell'attività privata, dando luogo ad una autonoma ura di reato: il reato edilizio.
Importanti furono anche i quattro articoli (da 37 a 40), relativi alla determinazione dell'identità di esproprio. Pur facendosi rinvio alle legge n. 2359 del 1865, si affermavano infatti alcuni principi importanti:
La legge n. 1150, dal punto di vista tecnico-giuridico e sotto il profilo urbanistico, era indubbiamente una legge fatta bene.
Del resto la stessa è rimasta, salvo qualche lieve modifica, sostanzialmente inalterata per 25 anni, fino alla legge ponte del 1967. Se fosse stata applicata molti guasti al territorio non si sarebbero verificati.
Il suo principale limite fu quello di essere una legge troppo avanzata per i tempi e la sua stessa adozione fu resa possibile in quanto nel periodo della sua emanazione si era nel pieno della guerra, e quindi in presenza di esigenze ben diverse.
Le cause del suo mancato funzionamento sono state molteplici:
La mancata emanazione del regolamento esecutivo, cui solo in parte è stato supplito con la circolare del Ministro del Lavori Pubblici del 7 luglio 1954, n.2495.
L'inerzia degli organismi ministeriali. Gli strumenti più avanzati, per concezione urbanistica della legge: piano territoriale di coordinamento e piano regolatore intercomunale, in ordine ai quali le competenze ministeriali erano rispettivamente totali ed ampie, non sono stati applicati
Il primo elenco dei Comuni, obbligati a redigere il piano regolatore, venne approvato del resto dal Ministero solo con D.M. dell'11 maggio 1954.
La scarsa preparazione tecnica degli amministratori locali e la mancanza d'una decisa volontà politica;
la creazione da parte del Legislatore nazionale, nel 1945 di quell'istituto emergenziale costituito dal piano di ricostruzione;
la sottovalutazione nella legge del 1942 dell'aspetto finanziario. La legge prevedeva a corredo del PRG, agli effetti dell'art. 18, e dei PPE un "piano finanziario", che a fronte delle difficoltà economiche dei comuni, finì per condizionare questi tipi di intervento.
Fatto è che il primo PRG di grande città risale al 1953; la prima circolare sulla legge urbanistica è quella già ricordata del 7 luglio 1954.
Queste ragioni, di per sé non sembrano tuttavia tali da giustificare la scarsissima attuazione (o rectius sostanziale non applicazione della L.U.)
Nella cultura urbanistica degli anni sessanta e nel dibattito, allora ideologicamente molto attivo, che si svolse, anche per merito dell'INU, si venne formando la convinzione che fondamentale causa del disordinato processo d'urbanizzazione, del fallimento della pianificazione urbanistica e del prevalere degli interessi privati, fosse da ricercare nella spinta derivante dal congegno speculativo delle aree.
Torna utile, prima di proseguire l'excursus storico e pervenire alla prima vera legge di modifica della L.U. (la c.d. legge ponte del 1967) ricordare alcune altre leggi di modifica, segnalando peraltro che queste non hanno alterato nella sostanza i contenuti della L.U.:
L 3 novembre 1952, n.1902 e sue successive modifiche (L.21 dicembre 1955, n. 1357; L.30 luglio 1959, n.615; L. 5 luglio 1966, n. 517 ed altre), relative all'introduzione delle misure di salvaguardia, con le quali viene colmata una delle lacune maggiori della L.U. Consistono, queste misure, nella sospensione di ogni decisione sulla richiesta di licenza edilizia, nelle more dell'approvazione di strumenti urbanistici, quando il progetto d'edificazione sia con questi in contrasto, determinando in tal modo, in via cautelare, il congelamento dell'attività costruttiva allo status quo, previsto dallo strumento urbanistico solo adottato, in modo da non recare pregiudizio alle prescrizioni in questo contenute.
L. 21 dicembre 1955, n. 1357, con cui:
Viene disciplinato, in maniera rigorosa, il rilascio delle licenze edilizie in deroga, al fine di porre fine ad un abnorme ricorso .a queste da parte delle Amministrazioni Comunali;
Viene prorogato il termine per l'attuazione dei piani regolatori, approvati prima della L.U., nonché dei piani di ricostruzione;
Vengono apportate ulteriori modifiche alla legge 1902/1952 sulle misure di salvaguardia.
Il coevo Codice Civile, pur essendo, sotto il profilo urbanistico, certamente in posizione meno avanzata, tuttavia conteneva disposizioni importanti facendo obbligo ai proprietari di osservare piani regolatori e regolamenti edilizi (cfr. art. 869 e 872); e disciplinando i ti edilizi.
Una delle cause della mancata attuazione della L.U. è stata individuata anche e soprattutto nelle esigenze della ricostruzione e nell'introduzione dei piani di ricostruzione.
Le ingenti distruzioni provocate dalla guerra posero in evidenza l'esigenza di disciplinare la ricostruzione, evitando peraltro gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando molti centri del Veneto, distrutti dai bombardamenti furono ricostruiti in condizioni identiche senza cogliere l'occasione per eliminare molte carenze d'ordine igienico e urbanistico.
Mentre gli urbanisti più attenti ponevano l'attenzione sulle esigenze della pianificazione, i comuni, pressati da esigenze gravi, quale il problema dei senza tetto, e quello dell'occupazione erano interessati più ad avere provvidenze per procedere a sollecite ricostruzioni, che alle esigenze dell'urbanistica.
Scrive al riguardo Leonardo BENEVOLO, Architettura
nell'Italia contemporanea, Laterza 1998: "Le Leggi sui c.d. piani di ricostruzione", dal 1945 in poi, si
propongono di non alterare l'assetto proprietario, accelerare le procedure
e ottenere l'operatività con erogazioni finanziarie a fondo perduto. La politica economica avviata da Luigi Einaudi per il terzo Governo
De Gasperi, dal 1947, include implicitamente le aree fabbricabili nel
progetto generale di liberalizzazione, e lascia che le grandi quantità edilizie
della ricostruzione del Boom siano giocate sulle aree private, accettando
il condizionamento speculativo che ne consegue. Infine, dopo il successo
elettorale del 1948, la DC vara nel 1949 la sua riforma: il programma di
edilizia sovvenzionata, pagato dai lavoratori e dai datori di lavoro,
volutamente esente da ogni pianificazione razionale per impiegare più mano
d'opera (l'operazione promossa da Amintore Fanfani come Ministro del
lavoro, porta il nome di "Piano d'incremento dell'occupazione operaia".
Inizia così la stagione in cui l'attività costruttiva viene usata come volano dello sviluppo economico.
Osserva o DE LUCIA, Questa è una città
Editori Riuniti 1989; "Mentre in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata
per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e
territoriale, in Italia viceversa, è stata utilizzata per fare marcia
indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva: con l'alibi,
appunto, di superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione
dei centri abitati" attraverso "disposizioni agili e d'emergenza" fu
accantonata la Legge urbanistica e fu varata la Legge sui piani di
ricostruzione, disciplinati da norme speciali, estesi solo a porzioni del
territorio comunale, causa di molte sciagure per le città italiane".
La ratio dei piani di ricostruzione, nelle intenzioni del legislatore era quella di contemperare, nei paesi danneggiati dalle guerra, le esigenze inerenti ai più urgenti lavori edilizi con la necessità di non compromettere il razionale futuro sviluppo degli abitati, come risulta dalla stessa lettura della Legge n. 1402.
Si presentarono quindi come veri e propri piani di emergenza, da compilare e approvare con estrema rapidità, rinunciando a procedure complesse, anche se tali da garantire migliori soluzioni urbanistiche.
Ed in effetti sia la procedura di approvazione, che la procedura di esproprio furono semplificate e rese più rapide.
La Legge attribuì a questi piani l'efficacia dei piani particolareggiati, la cui approvazione comportava ope legis la dichiarazione di pubblica utilità per tutte le opere in questi previsti.
Differivano tuttavia dai piani particolareggiati, in quanto:
a) potevano essere redatti anche in assenza di piano regolatore generale;
b) la loro procedura di adozione ed approvazione era molto semplificata; tra l'altro non era richiesta la presentazione di un piano finanziario;
c) potevano inoltre contenere anche previsioni generali, tipiche dei piani regolatori generali. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ebbe modo di affermare che l'ambito di applicazione di questi piani poteva estendersi anche al di là delle zone danneggiate dalla guerra, quando ciò risultasse necessario per coordinare la sistemazione di tali zone con i nuclei edilizi da ricostruire.
L'esecuzione del piano, che aveva validità per 5 anni, era rimessa innanzi tutto alla volontà dei proprietari delle aree.
Il comune aveva la possibilità di espropriare; ma tale facoltà era prevista solo per le aree occorrenti alla realizzazione di opere pubbliche.
Dovevano predisporre i piani di ricostruzione solo i Comuni compresi in appositi elenchi predisposti dal Ministero dei LL. PP.
La legislazione sui piani di ricostruzione presentava anche una interessante disposizione, laddove prevedeva per i Comuni, non in grado di provvedere, per ragioni tecnico-finanziarie, all'esecuzione delle opere pubbliche necessarie per l'attuazione del piano, la possibilità che il Ministero dei LL.PP. si sostituisse ai Comuni stessi con anticipazione della spesa da parte dello Stato e suo recupero, in trenta annualità costanti senza interessi, a decorrere dal terzo anno successivo a quello della redazione del verbale di collaudo.
Tale norma ha avuto peraltro scarsissima applicazione e con assegnazione di risorse finanziarie così limitate, che è valsa la pena di ricordarla solo per il suo carattere innovativo e per l'importanza che avrebbe potuto avere, ove fosse stata attuata con maggiore incisività e larghezza di mezzi finanziari.
Lo strumento del piano di ricostruzione è stato nuovamente utilizzato per alcuni abitati colpiti da calamità naturali. Tra i casi in cui la legislazione speciale ha adottato sostanzialmente il sistema dei piani di ricostruzione con riferimento alla Legge n. 1402/1951/ meritano di essere segnalati: quello del terremoto dell'agosto 1962 che colpì l'Irpinia (L. 5 ottobre 1962 n. 1431) e quello dell'alluvione dell'autunno 1968, che ha colpito in prevalenza il Piemonte (L.12 febbraio 1969 n. 7).
È difficile dare un giudizio storico equilibrato sul valore di tale strumento. Certo ebbe il pregio di impedire danni più gravi, specie per i Comuni del tutto sprovvisti di disciplina urbanistica (ed erano molti).
Ma è anche indubbio che tale strumento non si prestava a fornire soluzioni urbanistiche valide. Mancava un qualsiasi coordinamento non solo con piani urbanistici generali (in massima parte inesistenti), ma anche con le idee e le tematiche di un P.R.G.
In sostanza il piano di ricostruzione si pose essenzialmente come uno strumento di attività edilizia, non come uno strumento urbanistico.
Costituì oltretutto il "mezzo psicologico più efficace per moltiplicare gli impulsi, già di per sè abbastanza forti della speculazione privata a ricostruire nelle zone distrutte, che furono purtroppo, quasi sempre le più centrali e le più delicate da sistemare e che non avrebbero dovuto essere compromesse da affrettare soluzioni" (SAMONA': L'urbanistica e l'avvenire della città Laterza 1967).
Ed è stato proprio nel decennio di maggiore operatività del piano
di ricostruzione, che si è avuta la massima espansione del settore
edilizio, culminata nel 1955: crescita del settore violenta, tumultuosa,
favorita da grosse speculazioni edilizie. Il settore
edilizio operò allora come "volano" della nostra economia, con delle scelte
che avrebbero condizionato in prosieguo tutto il nostro sistema e che
stanno alla base della stessa fragilità dell'attuale struttura economica.
Lo Stato al fine di garantire i livelli occupazionali, specie nelle
ricorrenti crisi cicliche del settore, e lo sviluppo economico del paese
(stante ormai l'equivalenza: crescita edilizia = crescita economica),
contribuì ad incoraggiare tale abnorme sviluppo, sia con la concessione di
mutui a basso costo ed altre facilitazioni creditizie, sia con esenzioni o
agevolazioni fiscali e tributarie.
Da tale situazione si avvantaggiò soprattutto l'edilizia privata,
con la realizzazione di alloggi di alta qualità e a prezzi sostenuti, ove
era possibile realizzare forti speculazioni. Per averne
conferma non resta che esaminare le rilevazione ISTAT ove si vede che gli
investimenti in abitazioni effettuati in Italia dal 1951 al 1961, hanno
oscillato tra la percentuale massima del 25,9% (anno 1951) e quella minima
del 9,9% (anno 1955) del totale degli investimenti; per pervenire a
percentuali irrisorie negli anni successivi, ove la punta massima di
investimenti pubblici si è avuta nel 1968, con la percentuale del 7,7%.
Nel lungo periodo della ricostruzione fu soprattutto l'edilizia privata di alta qualità ed a prezzi alti ad avvantaggiarsi, favorita dalla speculazione sulle aree edilizie.
Trattavasi in gran parte infatti d'edilizia speculativa realizzata nelle aree più pregiate generalmente poste nel centro degli abitati.
L'edilizia economica e popolare, rigettata nella periferia, in carenza non solo di strumenti urbanistici, ma spesso anche d'opere di urbanizzazione si sviluppava in un contesto quanto mai disordinato e di degrado.
Per sopperire alla crescente "fame" di alloggi a basso costo, inseriti in quartieri organici sotto l'aspetto urbanistico e funzionale, fu finalmente approvata la Legge 18 aprile 1962, n. 167, la c.d. Legge sui Piani di zona.
Non che in precedenza fossero mancate leggi, relative all'edilizia
economica e popolari. I primi interventi risalgono agli inizi del secolo e
anche poco prima dell'inizio della guerra era stato approvato un importante
Testo Unico (RD. 28 aprile 1938, n. 1165), contenente le indicazioni per
l'edilizia economica popolare e che ha costituito il Testo base della
materia. Trattatasi peraltro sostanzialmente di una Legge sul credito
diretta fondamentalmente a favorire la proprietà della casa. Nell'immediato dopoguerra erano intervenute varie leggi, di cui due
importanti nel 1949: La Legge n. 408/1949, nota
come legge Tupini; La Legge n. 43/1949, nota
come Legge Fanfani o INA casa, ma titolata (e questo è già significativo)
come "incremento dell'occupazione operaia agevolando la costruzione per le
case dei lavoratori", legge sicuramente positiva che consentì nel
successivo decennio la realizzazione di un vasto programma d'edilizia
sovvenzionata. Ma tutti gli
interventi, che si sono succeduti in materia d'edilizia economica e
popolare sono avvenuti in modo scoordinato ed al di fuori di una
pianificazione urbanistica.
Approvata dopo una breve discussione parlamentare, (nel pieno del dibattito culturale e ideologico sulla riforma urbanistica) e oggetto in precedenza di una lunga elaborazione (un primo disegno in materia, d'iniziativa governativa, risaliva al 1955 e benché approvato al Senato era decaduto per fine legislatura), la Legge 18 aprile 1962, n. 167 si proponeva la realizzazione di organici quartieri economici e popolari in zone residenziali già urbanizzate, su aree sottratte al libero mercato e la cui acquisizione non comportasse oneri eccessivi.
Con la Legge n. 167 per la prima volta il regime delle incentivazioni, inerenti dell'edilizia economica e popolare, viene collegato con la disciplina urbanistica.
Infatti l'edilizia economica e popolare deve essere inquadrata nell'ambito di piani inseriti in uno strumento urbanistico generale.
Dispone infatti, l'art. 3, della Legge che:
Le aree da comprendere nei piani d'edilizia economica e popolare (c.d. PEEP) devono essere scelte di norma in zone che il P.R.G. destina ad edilizia residenziale;
Ove si manifesta l'esigenza di reperire aree al di fuori delle zone residenziale è possibile apportare varianti al PRG. In questo caso l'approvazione del PEEP costituisce anche variante al PRG;
Ove il Comune non sia dotato di PRG., al fine di garantire comunque l'inserimento del piano in una visione urbanistica generale, il piano deve essere inserito quanto meno in un programma di fabbricazione (P. di F.).
Si volle in tal modo evitare la realizzazione di quartieri popolari dormitorio, "ghettizzati" dal resto della città.
Altro aspetto positivo della Legge 167 era la possibilità per i Comuni di acquisire le aree mediante esproprio, attraverso un meccanismo che, basato su un valore delle aree retrodatato, avrebbe dovuto consentire l'eliminazione delle plusvalenze o di parte di queste determinate dall'espansione della città.
Mediante l'esproprio delle aree, fino al massimo del 50%, i Comuni avevano la possibilità di costituire cospicui patrimoni di aree da poter urbanizzare e successivamente cedere in proprietà o in diritto di superficie dietro corrispettivo determinato in base al costo d'acquisto o di esproprio dell'area e delle opere di urbanizzazione.
L'indennità d'esproprio era da determinare in base al valore venale delle aree, che queste peraltro avevano due anni prima della deliberazione di adozione del piano, in modo da non tener conto dell'incremento dipendente, in via diretta o mediata, dalla formazione ed attuazione del piano stesso.
La Corte Costituzionale, con una delle sue prime sentenze in argomento, (sentenza n. 22 del 9 aprile 1965) rilevò peraltro l'incostituzionalità di tale meccanismo, in quanto potendo avere i piani di zona validità per dodici anni (10 più 2 di proroga), ne derivava un indennizzo incerto ed aleatorio, che avrebbe potuto anche divenire irrisorio. La Legge sostanzialmente non garantiva un "serio ristoro", presupposto dall'art. 42, comma 3 della Costituzione.
Il vuoto legislativo fu riempito con la Legge 21 luglio 1965, n. 904, in base alla quale l'identità espropriativa veniva stabilita sulla base della Legge di Napoli del 1885, sui cui criteri la Corte Costituzionale si era pronunciata favorevolmente, con l'aggiunta di una somma pari al 2% per ogni anno o frazione d'anno compresa tra la data di approvazione del piano e la data del decreto di esproprio.
Terzo aspetto positivo della legislazione, collegata alla Legge 167, fu quello quanto meno di avere "tentato" un autofinanziamento del processo urbanizzativo. Il sistema posto in atto utilizzò tre meccanismi o canali di finanziamento:
a) Venne istituita con L. 5 marzo 1963, n. 246 l'imposta di incremento sulle aree fabbricabili;
b) I Comuni vennero autorizzati con L. 25 settembre 1964, n. 847 a contrarre mutui per l'acquisizione delle aree, di cui alla Legge n. 167;
c) Vennero accollati ai privati, cessionari delle aree comprese nei PEEP, gli oneri relativi alla acquisizione delle aree, maggiorati, in proporzione del volume edificabile del costo delle opere di urbanizzazione.
La Legge n. 246 non dette i risultati sperati. La medesima presentava difatti un congegno oltremodo macchinoso e di scarsa redditività. Su di esso intervenne anche, con una dichiarazione di incostituzionalità, relativamente alla parte che prevedeva la tassabilità retroattiva degli incrementi (speculativi) di valore verificatisi sul decennio antecedente all'entrata in vigore delle Legge, la Corte Costituzionale con sentenza n. 44 del 23 maggio 1966. Infine l'imposta venne sostituita dall'INVIM, che si proponeva meri compiti fiscali dissociati del tutto da ogni finalità urbanistica.
La Legge n. 167 prevedeva la compilazione dei piani di zona come obbligatoria per tutti i Comuni con popolazione superiore a 50.000 abitanti; inoltre era data facoltà ai più Comuni limitrofi di costituirsi in consorzio per la formazione di un piano consortile.
La "Relazione sull'applicazione della Legge 18/4/1962, n. 167" resa dal Ministero dei lavori pubblici indicava che alla data del 15 febbraio 1967:
Su n. 114 Comuni obbligati a dotarsi dei piani di zona, solo n. 9 comuni non l'avevano ancora adottato, e che ben 64 PEEP risultavano essere stati approvati;
Molti Comuni non obbligati si erano infine dotati di tale piano.
L'importanza del PEEP fu anche quella di costituire uno strumento immediatamente operativo (e non meramente vincolistico, come era stato per lo più il PRG), uno strumento ossia anche di programmazione.
Non è certo un caso che in quel periodo si discuteva animatamente di rapporti tra programmazione urbanistica e pianificazione economica, dibattito che sfociò successivamente nella L. 27 luglio 1967, n. 685, di approvazione del "Programma Economico 1966 - 1970".
Con Legge n. 60 del 14 febbraio 1963 viene approvato il " Programma decennale di costruzione di alloggi per lavoratori". Viene soppresso il vecchio organismo dell'INA - Casa, sostituito dalla Gescal, avente il compito di attuare il programma di costruzione degli alloggi alla cui esecuzione vengono deputati gli Istituti autonomi per le case popolari (Iacp).
Gli interventi previsti dalla Legge devono essere localizzati nei piani di zona e sono finanziati, come per i precedenti piani INA - Casa, con i contributi versati dai datori di lavoro e dai lavoratori.
La Legge n. 167 cade, come ricordato, nel pieno del dibattito sulla riforma generale della Legge urbanistica. Essa stessa ebbe il grande merito di aver sensibilizzato le amministrazioni comunali, anche dal punto di vista psicologico, nei confronti delle problematiche relative alla pianificazione urbanistica.
Sono questi gli anni del boom edilizio e della speculazione più
retriva, sono gli anni del c.d. sacco edilizio, dell'alluvione di cemento
portato avanti dalle lottizzazioni, in cui il lottizzatore non è quasi mai
un imprenditore, ma come ebbe a scrivere M. Martuscelli un semplice
"mercante di terreni". Sono gli anni in cui CEDERNA scrive i suoi articoli di denuncia su
"Il Mondo", poi raccolti nel 1965, nel volume dal significativo titolo "I
Vandali in casa"; Italo CALVINO, il romanzo breve "La speculazione
edilizia" (1963); in cui Francesco Rosi gira il film (1963), "Le
mani sulla città". E nel 1953 Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Giorgio Bassani ed
altri fondano l'Associazione "Italia Nostra".
Il dibattito sulla riforma urbanistica ebbe inizio, in maniera organica, con la presentazione all'VIII Congresso nazionale dell'INU (Roma dicembre 1960) del c.d. "Codice dell'Urbanistica", che prevede una integrazione dell'urbanistica con la programmazione economica.
Il progetto non prevede l'esproprio generalizzato; ma impone l'obbligo per i proprietari di cedere al Comune nelle zone d'espansione il 30% delle aree da destinare ad opere d'urbanizzazione. Viene previsto un largo uso dell'Istituto del to edificatorio.
In sede ministeriale la proposta dell'INU viene in gran parte ripresa da Benigno Zaccagnini nel 1961, dopo che il Governo Fanfani è subentrato al Governo Tambroni caduto dopo i fatti di Genova del luglio 1960.
Ma la proposta più avanzata e seria, quella che avrebbe in radice risolto il problema della rendita fondiaria, è presentata nel giugno 1962 dal Ministro Sullo, a cui merito va l'approvazione della Legge n. 167/1962.
Il disegno di Legge Sullo si basa su alcuni criteri di fondo:
Esproprio generalizzato di tutti i suoli necessari all'espansione ed alla trasformazione degli insediamenti;
Determinazione dell'indennità di esproprio, in modo da ridurre al minimo il riconoscimento della rendita fondiaria urbana;
Cessione dei suoli, successivamente all'esproprio ed alla loro urbanizzazione, in diritto di superficie in modo da evitare il formarsi di plusvalenze .
Il disegno riconosce altresì che la dimensione comunale non è la più idonea a garantire un corretto Governo del territorio, anche nei rapporti con la pianificazione economica. I rapporti tra questi due aspetti, urbanistico ed economico è uno dei temi dominanti del periodo ed anche uno degli aspetti innovativi del progetto Sullo.
Il progetto Sullo prevede due piani sovracomunali: il Piano regionale (dove aspetto urbanistico ed economico sono in equilibrio) ed il Piano Comprensoriale, in cui il contenuto urbanistico è prevalente su quello economico, che comunque è presente.
La
successiva vicenda del Progetto Sullo è paradossale. Dopo che il Consiglio
dei Ministri aveva "condiviso in via di massima i criteri informatori della
nuova disciplina urbanistica" (14 luglio 1962), il disegno di Legge viene
rinviato in attesa del parere del CNEL. Nel
frattempo, avvicinandosi le elezioni politiche fissate per il 28 aprile
1963, si scatena contro il disegno di legge una campagna di stampa
"velenosa", finché "Il Popolo", con una "dolorosa nota" comunica che la DC
dissocia la propria responsabilità da quella del Ministro Sullo, che viene
brutalmente scaricato e finisce nei fatti la propria carriera politica dopo
essere stato per ancora un breve periodo di tempo Ministro dei LL. PP. I
fatti verranno raccontati dallo stesso Ministro Sullo nel volume Lo
scandalo edilizio. "A
casa mia, con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità,
miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi togliere loro
davvero la casa [..] Ed io, confesso, non sapevo più come difendermi da una
allucinazione generale: non bastava a difendermi il tentativo di spiegare
gli errori giuridici degli oppositori, né il rammentare che in Parlamento,
nell'ottobre 1962, avevo dichiarato che del diritto di superficie si
sarebbe potuto fare a meno. Non c'era che una strada: spiegare al video a
milioni di telespettatori la realtà e la fantasia. Ma questo non mi fu
permesso. Invece, senza affatto consultarmi, mentre ero assente dalla
capitale e con una comunicazione postuma alla mia segreteria di Roma, venne
una doccia fredda; la dissociazione delle responsabilità del mio partito
dalle mie. Fui sbalordito per l'oggettiva ingiustizia morale verso di me".
I successivi disegni di legge dei governi Moro di centro-sinistra, presentati dai Ministri Pieraccini e poco dopo Mancini, segnano dei passi indietro. Viene abolito il diritto di superficie. In particolare il progetto Mancini, prevedeva così tanti casi di esonero dagli espropri che è passato alla storia come la legge, non dell'esproprio, ma "dell'esonero generalizzato".
Intanto lo sviluppo edilizio continua all'insegna dell'abusivismo e del caos edilizio.
L'azione delle Amministrazione comunali è poco coerente. Il territorio è lasciato privo per lo più non solo del PRG, ma anche di qualsiasi strumento di regolamentazione urbanistica. Spesso, anche lì ove i piani urbanistici esistono, sono oggetto di ampia e sistematica violazione.
L'istituto cui nel periodo viene fatto maggiormente ricorso è la lottizzazione.
Una indagine ministeriale, pubblicata nel febbraio del 1968 ha accertato che ben 2203 Comuni erano interessati alla fine del 1967 dal fenomeno, per ben 18.273.970 vani realizzabili.
Tale fenomeno, di cui sono evidenti dai dati sopraindicati le dimensioni, era dovuto al fatto che, in carenza nella legge urbanistica del 1942 di una dettagliata disciplina, era lo strumento che meglio di ogni altro consentiva la speculazione edilizia.
L'art. 28 della L.U. era chiaro in proposito; ma, confortati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'articolo fu forzato, consentendo la possibilità di lottizzare non solo in carenza di piano particolareggiato, ma anche in mancanza di piano regolatore generale.
La lottizzazione, strumento di speculazione, specialmente allora in quanto non garantita da alcun obbligo di accollo degli oneri urbanizzativi da parte dei privati, divenne lo strumento normale di espansione delle città, obbligando il Comune ad intervenire, a posteriori, per la realizzazione delle infrastrutture urbanizzative, con l'assunzione di pesanti oneri finanziari e obbligandolo altresì, capovolgendo ogni normale schema, a "registrare le scelte di parte-privata".
Concepita dalla Legge urbanistica come mezzo per ovviare al disordine edilizio, la lottizzazione finì per diventare essa stessa, causa non ultima, non solo di disordine, ma anche del ritardo nella predisposizione da parte dei Comuni degli strumenti di disciplina generale del territorio.
Scriverà
in relazione a questi G. ASTENGO "Alla
radice di ognuno di essi sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto
forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati
ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del
suolo a scopi edificatori. In entrambi casi, la natura, irragionevolmente
sfidata, ha scatenato d'improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici.
In entrambi i casi, alla radice è l'imprevidenza umana. E se,
nell'imminenza del repentino maturare della tragedia, è mancata anche la
più rudimentale forma di preavviso organizzato, alle origini giganteggia
una ben più ampia e continuativa imprevidenza, che si concreta nel mancato
uso razionale degli strumenti della pianificazione territoriale ed
urbanistica". Ancora maggiore era stato l'impatto nell'opinione
pubblica della frana di Agrigento, del 19 luglio 1966, quando "una frana di
inconsuete dimensioni, improvvisa miracolosamente incruenta, ma terribile
nello stritolare o incrinare immediatamente spavalde gabbie di cemento, ed
impietosa, al tempo stesso, nello sgretolare vecchie abitazioni di tufo, in
pochi istanti, ha buttato fuori casa migliaia di abitanti, ponendo
Agrigento sotto nuova luce e nuova dimensione".
Mentre il territorio italiano viene "lottizzato" e le riforme
procedono a rilento, per quanto assunte tra gli impegni politici dei governi di
centro sinistra, si verificano le alluvioni di Firenze e di Venezia, i
disastri del novembre 1966.
Sono le parole scritte da Michele Martuscelli, Presidente della
Commissione d'Inchiesta nominata dal Ministro Mancini, al Ministro stesso
nel fornire la relazione. La lettera prosegue affermando che la
Commissione: nel rimettere atti, sente il dovere di segnalare
all'attenzione del Signor Ministro, dei Parlamentari e di tutti i
responsabili della amministrazioni pubbliche e degli enti locali, la
gravità della situazione urbanistico - edilizia del paese, che ha trovato
in Agrigento la sua espressione limite. E non può, non concludere, non
auspicare che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre
un arresto - deciso ed irreversibile - al processo di disgregazione e di
saccheggio urbanistico. Il problema non può ovviamente essere risolto che
con una nuova legge urbanistica, la cui emanazione non dovrebbe essere
ulteriormente rinviata; ma in attesa che tale legge entri in vigore e
dispieghi i suoi effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed
urgente l'adozione, eventualmente anche nella forma del Decreto legge, di
alcune essenziali ed incisive norme di immediata operatività atte ad
affrettare la formazione dei piani, ad eliminare nei piani e nei
regolamenti le più gravi storture relative ad indici aberranti e a troppo
estese facoltà di deroga e ad impedire i più vistosi fenomeni di evasione e
di speculazione".
Sull'onda di questi gravosi eventi, vengono sollecitamente approvati la L. 6 agosto 1967, n. 765, chiamata "legge ponte", perché avrebbe dovuto costruire il ponte su cui traghettare alla riva di una più organica disciplina, e subito dopo il D.M. n. 1444 del 2 aprile 1968, che fissa limiti generali di edificabilità e di dotazione di servizi pubblici.
Scopo della legge fu quello di porre un freno al disordine edilizio, obbligando i comuni a dotarsi di strumenti urbanistici e predisponendo mezzi adeguati a reprimere violazione e inosservanze della normativa.
La legge ponte 765 si propose in particolare di porre un freno all'edificazione senza limiti e di incentivare la formazione dei piani.
Furono così stabiliti:
la fissazione di termini perentori per l'adozione degli strumenti urbanistici generali (PRG o PdF), con l'obbligo per gli organi del Ministero dei LL. PP., in caso di inosservanza e inadempienza da parte dei Comuni, di adottare interventi sostitutivi;
la possibilità, per gli organi ministeriali, in sede di approvazione degli strumenti urbanistici, di introdurre modifiche di ufficio, al fine di garantire determinati interessi statali;
il divieto per i comuni privi di strumenti urbanistici di adottare lottizzazioni;
notevoli limitazioni all'attività edilizia, in caso di mancanza di strumenti urbanistici;
l'obbligo per i Comuni in sede di adozione di nuovi piani o di revisione di quelli esistenti di osservare i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza e di osservare determinati rapporti tra insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati ad attività collettive, verde pubblico o a parcheggi (c.d. standards urbanistici), da definirsi per zone omogenee;
una più efficace articolazione e inasprimento delle misure repressive e delle sanzioni in presenza di abusi edilizi.
La legge 765 pur intervenendo con rilevanti modifiche sulla legge urbanistica, restava pur sempre nell'ambito del sistema precedente. Basti considerare che dei 22 articoli di cui componeva la legge ponte, ben 19 sono andati a sostituire o integrare articoli della legge urbanistica e solo tre articoli (2, 21 e 22) non facevano espresso riferimento ad articoli di questa.
Prima della legge 765, in carenza di uno strumento urbanistico, il proprietario poteva costruire sul proprio terreno senza incontrare limiti all'edificabilità, se non posti da leggi speciali. Per di più non era neppure tenuto, al di fuori del centro abitato, a chiedere licenza edilizia.
Con la legge ponte (art. 17) viene assunto come parametro naturale di edificabilità, in carenza di disciplina urbanistica, l'indice di 0,1 mc/mq, elevabile per le zone dell'abitato ricadenti in centri abitati e come tali perimetrali fino a mc 1,5/mq.
Si incentiva così la formazione degli strumenti urbanistici.
Altre importanti novità introdotte dalla legge ponte sono:
l'obbligo di richiedere la licenza edilizia per qualsiasi costruzione da realizzare nell'ambito di tutto il territorio comunale;
la determinazione di alcuni contenuti minimi necessari cui devono rispondere tutti gli strumenti urbanistici. Sono i c.d. standards urbanistici.
Gli standards urbanistici costituiscono quantità di spazi pubblici o di uso pubblico, espressi in metri quadrati per abitante, che devono essere obbligatoriamente riservati nei piani, sia generali che attuativi.
Essi vengono quantificati dal D.M. 2 aprile 1968 in almeno 18 mq per abitante (cui corrispondono salvo diversa indicazione dello strumento urbanistico 80 mc), così ripartiti:
4,5 mq per asili nido, scuole materne e dell'obbligo;
2 mq per attrezzature d'interesse comune (assistenziali, amministrative, sanitarie, religiose ecc.),
2,5 parcheggi pubblici,
9 mq per verde pubblico.
Scopo degli standards era quello di evitare il ripetersi degli inconvenienti del passato, quando interi quartieri erano stati costruiti caoticamente, eccessivamente addensati, senza dotazione di servizi e impianti pubblici e senza neppure che fosse possibile realizzarli nel futuro per la indisponibilità venutasi a determinare di aree libere.
Pur costituendo questi standards quantità piuttosto basse (ma erano comunque quantità minime e inderogabili), il passo in avanti era notevole.
Terza novità della legge ponte sta nella nuova disciplina delle lottizzazione e della licenza edilizia e nel nuovo concetto di opere di urbanizzazione.
Nel periodo del c.d. "boom edilizio" l'edificazione era stata caratterizzata da una crescita incontrollata dei tessuti urbani, in modo particolare tramite lottizzazioni indiscriminate senza la previsione delle relative opere pubbliche e dei servizi necessari ai nuovi insediamenti.
I comuni vengono così costretti a intervenire successivamente per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione, finendo per subire le scelte dei privati ed accollandosi degli oneri per la realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Con la legge765 la lottizzazione viene a perdere il carattere di "pre-licenza", come l'aveva qualificata la giurisprudenza del Consiglio di Stato e viene disciplinata come un vero e proprio piano urbanistico, d'iniziativa privata, disposto per l'attuazione del PRG, ma anche del PdF, ed alternativo al piano particolareggiato.
La lottizzazione viene subordinata alla stipula di una convenzione, con la quale il soggetto lottizzante deve obbligarsi, tra l'altro:
a) ad assumere gli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e quota parte degli oneri di urbanizzazione secondaria;
b) a cedere gratuitamente le aree per l'urbanizzazione primaria e quota parte delle aree per l'urbanizzazione secondaria.
La convenzione assume nella legge una tale rilevanza che le lottizzazioni vengono ad assumere nella legge la denominazione di "lottizzazioni convenzionate".
Afferma al riguardo il Ministero dei LL.PP. nelle conclusioni alla "Indagine conoscitiva sulle lottizzazioni di terreni a scopo edilizio", presentata il 5 febbraio 1968 che ".la legge ponte urbanistica, anche se si fosse limitata a disciplinare soltanto le lottizzazioni, sarebbe stata ugualmente un fatto di grande importanza, per la notevole incidenza che tale disciplina non potrà non avere - in termini non soltanto urbanistici - sulla razionalizzazione dello sviluppo delle nostre città".
Per quanto concerne la licenza edilizia, viene stabilito che il suo rilascio è subordinato all'esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, o alla previsione da parte del comune dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio o all'impegno dei privati di procedere all'attuazione delle stesse contemporaneamente alle costruzioni oggetto della licenza. Viene così ad inserirsi anche la licenza edilizia in un contesto urbanistico, rafforzato dal fatto che qualsiasi richiesta di licenza al di fuori del centro urbano dovrebbe ricadere, nel sistema della legge, sotto il regime lottizzatorio e come tale essere negata.
Da quanto espresso pare possano desumersi, ed in ciò si ravvisano gli aspetti più "positivamente rilevanti della legge-ponte, i seguenti tre principi fondamentali:
nessuna costruzione può più essere effettuata se non esiste o non venga realizzata nel contempo l'urbanizzazione del territorio, dovendosi intendere per tale:
a) la dotazione di servizi e di attrezzature per rendere le aree idonee all'uso edificatorio;
b) il raccordo e l'integrazione di queste al tessuto urbanistico;
gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria devono fare carico alla proprietà fondiaria. Tale principio, anche se non attuato pienamente con la legge 765, mostra peraltro il suo carattere di norma di tendenza;
la licenza edilizia ha cessato di essere un'autorizzazione in senso tradizionale. Con la legge ponte si rafforza la tesi che lo ius aedificandi non è una facoltà connaturale al diritto di proprietà, un diritto originariamente esistente, in attesa di essere attivato dalla licenza edilizia (un "diritto in attesa di espansione"); è viceversa un potere autonomo, nascente con e dalla licenza.
Tra le altre innovazioni apportate dalla legge ponte alla legge urbanistica, possono essere elencate:
a) la sostanziale equiparazione tra piani regolatori generali e programmi di fabbricazione, che si diversificano tra loro prevalentemente per aspetti procedimentali. Sul contenuto del P. di F. è in piedi un contrasto tra la giurisprudenza che, dopo aver assunto un atteggiamento oscillante, sembra ora decisamente orientata a negare tale equiparazione (cfr. particolarmente Consiglio di St,Ad.plen, 9 aprile 1974 n. 3) e il costante comportamento dei Comuni, che adottano Programmi di Fabbricazione, del tutto assimilabili, per contenuto a piani regolatori, senza incontrare ostacoli, sotto tale aspetto, a quel che risulta, presso gli organi di controllo. Gli orientamenti che stanno manifestandosi nelle varie regioni sono: o per la soppressione di tale strumento, che è ormai diventato un doppione del P.R.G. o per la sua equiparazione a questo, sancita in via legislativa;
b) l'obbligatorietà delle misure di salvaguardia, a tutela del P.R.G. e del piano particolareggiato. Per il programma di fabbricazione la loro obbligatorietà era stata invece estesa solo con la L. 1 giugno 1971 , n. 291;
c) l'abolizione del "piano finanziario" previsto per il P.R.G., per gli effetti dell'art. 18, e per il piano particolareggiato e la sua sostituzione con una semplice "relazione di previsione di massima delle spese";
d) un decentramento per l'approvazione degli strumenti urbanistici, correlato ad un accrescimento e potenziamento dei poteri del Ministero dei LL.PP. e suoi organi periferici (maggior estensione dei poteri sostitutivi e repressivi; possibilità di introdurre modifiche d'ufficio in sede di approvazione dei piani ecc.);
e) la previsione della pubblicità delle licenze e della possibilità per chiunque di ricorrere contro il rilascio, introducendosi così nell'urbanistica l'istituto dell'azione popolare.
La partecipazione popolare, cui detta azione è riconducibile, è stata sostanzialmente trascurata nella disciplina urbanistica. La pubblicità delle licenze intende in parte valorizzarla.
La materia urbanistica già conosce, in quanto disciplinato nella legge del 1942 l'istituto delle osservazioni e delle opposizioni, che enti pubblici, associazioni sindacali e privati cittadini possono presentare avverso i piani urbanistici, una volta adottati.
Trattasi peraltro di istituti, scarsamente significativi ai fini di una effettiva partecipazione popolare, strumentali, come sono, più che altro ad una tutela diretta o indiretta ("apporto collaborativo") di interessi particolari, ed intervenienti a posteriori quando le scelte urbanistiche si sono già formate.
I principali difetti della legge 167 sono sostanzialmente di tre ordini:
non aver toccato alcuno dei temi fondamentali della riforma urbanistica, predisponendo e disciplinando istituti, il cui prevalente (se non esclusivo scopo) era quello di migliorare e rivitalizzare gli strumenti esistenti. Unico istituto nuovo è stata la "perimetrazione dei centri abitati", che la dottrina ed ancor prima la giurisprudenza ha catalogato come piano urbanistico, importantissimo ove lo si consideri sotto il profilo dell'effettività e frequenza di utilizzazione: ma limitato, come contenuto e significato urbanistico, avendo la finalità di consentire, senza disciplinare, una maggiore edificabilità. Modifiche sono state apportate alla disciplina dei PRG e dei PdF; ma modifiche rilevanti sono introdotte solo ai piani di lottizzazione. Nessuna modifica viene disposta per i piani territoriali di coordinamento e per i piani regolatori generali intercomunali, che non avevano funzionato prima e hanno continuato a non funzionare dopo, finendo per costituire solo dei modelli teorici, senza esempi di concreta attuazione. In teoria invece costituivano i due strumenti di più pregnante significato urbanistico;
l'altro aspetto critico è nei rapporti fra Stato e comune, instaurati dalla legge 765 e disciplinati sempre in chiave centralistica e antiautonomista. In sostanza il legislatore, invece di far luce sulle cause che hanno determinato le aberrazioni speculative e la cattiva prova degli amministratori comunali, per intervenire quindi alla radice, ha agito come se la responsabilità dei nefasti urbanistici fosse veramente tutta da ascrivere ai comuni ed ha emanato una legge che rafforzava il potere centrale, affidando a questo ampi poteri ed attribuzioni (cfr. determinazione degli standards urbanistici, facoltà di apportare ai piani modifiche di ufficio ecc.);
e siamo al terzo aspetto critico. Nel mentre il legislatore implicitamente riteneva i comuni responsabili del pessimo governo del territorio, poneva in essere una norma, che doveva essere causa di guasti edilizi rilevantissimi. Durante il dibattito parlamentare per evitare che l'attività edilizia rimanesse bloccata, fu approvato un emendamento che rinviava di un anno l'applicazione delle limitazioni alla edilizia, poste dall'art. 17.
Dall'1/9/1967 (data di entrata in vigore della legge) al 31 agosto 1968 (scadenza dell'anno di moratoria) in tutta Italia è stato rilasciato un numero enorme di licenze (le c.d. "licenze di agosto"). Un'indagine condotta dal Ministero del LL.PP. e dall'Istituto Centrale di Statistica ha rilevato che nel periodo di moratoria sono state rilasciate licenze per otto milioni e mezzo di vani residenziali, quasi il triplo della media annuale di vani autorizzati nel decennio precedente. Il principio di salvaguardia applicato esattamente alla rovescia.
I guasti provocati da tale serie impressionante di licenze rilasciate (e la corsa alla licenza fu maggiormente sfrenata proprio laddove la licenza non si sarebbe potuta rilasciare) e l'alto potere inflazionistico che ne conseguì, dapprima nel settore edilizio e poi in tutto il settore economico, furono davvero ingenti.
Scrive al riguardo o DE LUCIA, Se questa è una città, Editori riuniti, 1989
"sul finire dell'agosto 1968 l'attività degli uffici tecnici e delle commissioni edilizie è frenetica. Sono stati accertati infiniti casi di licenze edilizie che, in data 31 agosto 1968, sono state presentate al comune per l'approvazione, "istruite" dagli uffici tecnici comunali, esaminate ed approvate dalla sovrintendenza ai monumenti e dal genio civile, discusse in commissione edilizia e firmate dal Sindaco".
Come era inevitabile, il principale nodo che la legge ponte aveva accantonato, avendo escluso dai suoi fini quello della riforma urbanistica, scoppiava ugualmente.
Secondo l'intenzione del legislatore del 1942 il PRG avrebbe dovuto avere carattere precettivo, nei confronti dei privati, esclusivamente per le "linee e prescrizioni di zona", mentre le restanti indicazioni (le c.d. localizzazioni") avrebbero dovuto avere solo carattere programmatico.
La prassi costante dei comuni, peraltro, aveva diversamente interpretato la normativa estendendo il carattere imperativo, nei confronti dei privati, sia alle c.d. zonizzazioni, che alle localizzazioni (cioè agli spazi destinati agli edifici e impianti pubblici o di uso pubblico).
La legge urbanistica del 1942 aveva previsto l'indennizzo solo per l'espropriazione - trasferimento di proprietà; escludendo che l'indennizzo fosse dovuto, non solo per le localizzazioni, ma anche per i vincoli e le limitazioni di zona (il cui carattere era precettivo).
E l'interpretazione corrente, avallata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, era di considerare indennizzabile solo l'espropriazione classica, ossia quella comportante il trasferimento del bene.
Autorevole dottrina, tuttavia, fin dal 1960 aveva posto il problema dell'indennizzabilità dei vincoli e limitazioni, che si andavano a porre sulle proprietà, affermando che quando le limitazioni vanno ad assumere tale intensità da svuotare la facoltà di godimento insite in questa (e tra esse in primis il diritto a costruire), si conurano come delle ipotesi di "sostanziale espropriazione" del tutto assimilabile alla ura classica dell'espropriazione-trasferimento e come tali da indennizzare.
Altro problema di carattere perequativo era stato posto, non sembrando giusto (come un'espressione efficace è stato detto SANDULLI) "abbandonare al pennarello dell'urbanista e alla grazia degli amministratori la possibilità di fare di chiunque ad libitum, un Epulone o un Lazzaro", consentendo ossia a Tizio di costruire un grattacielo che si affacci magari sul suolo di Caio, vincolato a verde senza indennizzo e consentirgli in più , proprio per conseguenza di questo vincolo il risultato di una maggiore rendita.
Ed i nodi sono infine emersi con le note sentenza della Corte Costituzionale del maggio 1968.
Con sentenza n. 55 del 29 maggio 1968 la Corte ebbe infatti a dichiarare:
" l'illegittimità costituzionale degli art. 7 (n. 2, 3 e 4) e 40 della legge urbanistica 1942, nella parte in cui non prevedono un indennizzo per l'imposizione di limitazioni operanti immediatamente e a tempo indeterminato nei confronti dei diritti reali, quando le limitazioni abbiano contenuto espropriativo (in senso sostanziale".
Si affermava nella sentenza che l'istituto della proprietà privata è garantita dalla Costituzione e che "tale garanzia è menomata qualora singoli diritti, che all'istituto si ricollegano vengano compressi o soppressi senza indennizzo, mediante atti di imposizione, che indipendentemente dalla loro forma, conducano tanto a una traslazione totale o parziale del diritto, quanto ad uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo contenuto, pur rimanendo intatta l'appartenenza del diritto e la sottoposizione a tutti gli oneri, anche fiscali, riguardanti la proprietà fondiaria. Anche tali atti vanno considerati di natura "espropriativa".
Ed ancora:
"Secondo i concetti, sempre più progredenti, di solidarietà sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall'attitudine di essere sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la costituzione lascia al legislatore di determinare. Nel determinare tale regime, il legislatore può persino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni come pure può imporre, sempre per categorie di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare imposizioni a titolo particolare, con diversa gradazione e più o meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e di disposizione. Ma tali imposizioni a titolo particolare non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata al di là della quale il sacrificio imposto venga ad incidere sul bene, oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell'attuale momento storico. Al di là di tale confine, essa assume carattere espropriativo".
Con la coeva sentenza n. 56 del 1968 la Corte Costituzionale riconosce invece la legittimità dei vincoli di inedificabilità posti per la tutela del paesaggio in quanto non imposti singulatim, ma per intere categorie di beni riconoscibili per loro caratteristiche obiettive.
Le sentenze della Corte provocarono stupore e
dettero avvio ad un ampio dibattito, con critiche fortissime da parte in
special modo degli urbanisti. La sentenza n. 55 adottata il 9 maggio 1968 viene
depositata e resa nota solo il 29 maggio successivo; il 19 maggio si erano
svolte le elezioni politiche per la V legislatura. CAMPOS VENUTI pubblica un libro dal significativo
titolo "Urbanistica incostituzionale". A fronte di un dibattito tanto acceso lo stesso
Presidente della Corte Costituzionale A.M. SANDULLI, principale ispiratore
della sentenza, ritiene di dover chiarire la posizione della Corte, in
un'intervista concessa a "L'Astrolabio", n. 27 del luglio del 1968, in cui
rilancia la palla al legislatore, dichiarando che: "In sostanza la Corte ha affermato: libero il
legislatore di stabilire, per categorie, quali cose possono essere di
proprietà privata e quali no, e di fissare i limiti di godimento della
proprietà; ma, una volta stabilito che una certa categoria di beni (nella
specie, il suolo) può formare oggetto di proprietà privata, e che per essa
una certa utilizzazione (nella specie, quella edilizia) rientra tra le
utilizzazioni consentite in via di principio al proprietario, non può poi
il legislatore disporre legittimamente che solo questo o quel proprietario
venga privato senza indennizzo del diritto di utilizzare un certo bene
della medesima categoria in modo conforme a quella utilizzazione, tanto più
quando si tratti della utilizzazione tipica della categoria. È chiaro che
queste affermazioni della sentenza lasciano aperta la strada a tutte le
scelte, anche le più radicali. L'effettuazione delle scelte è perciò
compito del legislatore e non della Corte."
Per far fronte alla grave situazione provocata dalla sentenza della Corte Costituzionale, con rapidità eccezionale il Parlamento approvò la legge 19/12/1968, n. 1187, nota come "legge tappo" o "legge tampone", la quale all'art. 2 sancisce
"le indicazioni di PRG, nella parte in cui incidono su beni, determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli che comportino l'inedificabilità, perdono ogni efficacia qualora entro 5 anni della data di approvazione del PRG non siano stati approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati. L'efficacia dei vincoli predetti non può essere protratta oltre il termini d'attuazione dei piani particolareggiati o di lottizzazione".
Era chiaramente una rinuncia, una soluzione provvisoria.
Per di più, essendo passati cinque anni, senza che il legislatore avesse adottato alcun rimedio definitivo, si è reso necessario prorogare le disposizioni della legge m. 1187 per un ulteriore biennio. Alla bisogna ha provveduto la L. 30 novembre 1973, n. 756 e scaduto il termine fissato da tale legge sono state adottate ulteriori leggine di proroga fino a pervenire alla legge n. 10 del 1977, con cui si ritenne di aver risolto in radice il problema.
CAPITOLO IV DAGLI ANNI SETTANTA ALLA CONTRORIFORMA URBANISTICA DEGLI ANNI
OTTANTA
Gli anni sessanta si chiudono con il c.d. "autunno caldo" caratterizzato dagli scioperi operai per i rinnovi contrattuali, dalle lotte per la casa (c.d. "vertenza-casa"), innestate dall'annuncio della FIAT (marzo 1969) di voler assumere 15 mila nuovi addetti, reclutandoli prevalentemente nelle aree meridionali, e con la "contestazione studentesca".
Il 24 settembre 1969 le tre confederazioni sindacali (CGIL, UIL, CISL) presentano al Governo un documento unitario ove richiedono con urgenza provvedimenti per un'organica politica della casa.
In questo contesto si manifestano spinte populistiche, quali i movimenti per l'occupazione della case vuote, l'autoriduzione degli affitti, la nascita dei comitati degli inquilini e dei comitati di quartiere.
Nasceranno in questa fase convulsa quella che è passata alla storia come la "strategia della tensione", ma anche l'esigenza di portare avanti con sollecitudine alcune concrete riforme, con cui prenderanno avvio e dalle quali saranno caratterizzati gli anni settanta.
Gli anni settanta sono caratterizzati, per quanto ci riguarda, essenzialmente dai seguenti quattro eventi:
l'attuazione dell'ordinamento regionale;
la c.d. legge di "riforma della casa" 22 ottobre 1971, n. 865. Questa legge anticipa, in qualche misura, l'avvio del funzionamento delle regioni;
la legge (Bucalossi) 28 gennaio 1977, n. 10;
la legge 5 agosto 1978, n. 457 di approvazione del piano decennale della casa.
Il decollo delle Regioni è lentissimo. I decreti delegati per il trasferimento delle funzioni amministrative statali alle regioni la cui emanazione ha consentito il concreto avvio, a partire dal 1° aprile 1972, dell'attività legislativa ed amministrativa delle stesse, risalgono infatti solo al 14 e 15 gennaio 1972.
Tra le materie rientranti, a norma dell'art. 117 della Costituzione, approvata nel 1948 e fino ad allora immodificata, nella competenza legislativa regionale (e di conseguenza, per il rinvio disposto dall'art. 118 della Costituzione stessa, anche nella competenza amministrativa) vi è l'urbanistica.
I primi problemi che si pongono all'interprete sono l'individuazione della nozione di urbanistica, accolta dalla Costituzione e la determinazione "dei principi fondamentali", al fine evidente di delimitare l'ambito della competenza regionale e i limiti del suo esercizio.
Con il dPR 15 gennaio 1972, n. 8 viene operato il trasferimento delle funzioni amministrative statali in materia di urbanistica e di viabilità, acquedotti e lavori pubblici d'interesse regionale e del relativo personale ed uffici.
L'anzidetto decreto peraltro mantiene ferma alla competenza degli organi statali un numero così alto di attribuzioni, da ridurre sensibilmente il ruolo regionale, e con esso anche la nozione di urbanistica.
Più riduttivo ancora è l'orientamento della Corte Costituzionale, la quale investita della questione a seguito di ricorso della Giunta regionale della Liguria intesa a provocare la dichiarazione di illegittimità di alcune previsioni di quel decreto, le rigettava con la sentenza del 24 luglio 1971, n. 141. In detta sentenza si afferma testualmente:
"L'urbanistica come "materia" è un'attività che concerne "l'assetto e l'incremento edilizio dei centri abitati"; risulta delimitata in codesti termini dalle leggi cosiddette urbanistiche e soprattutto dall'art. 1 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (sentenza n. 50 del 1958); ed è da ritenersi che così sia stata considerata nell'art. 117 cost., secondo il criterio, ritenuto valido anche per le altre materie, che in essa Costituzione si sia voluto far riferimento al significato e alla portata che a ciascuna di dette materie erano riconosciuti nella legislazione e nella pratica.
L'ambito dell'urbanistica, d'altronde, nella disciplina legislativa, non ha subito nel tempo sostanziali modifiche. In particolare, non è stato ampliato, a tal segno che in esso possa rientrare l'assetto dell'intero territorio e quindi dell'ambiente in generale. Anzi, secondo recenti leggi (dalla L. 26 aprile 1964, n. 310, alla L. 6 agosto 1967 n. 765 e alla L. 19 novembre 1968, n. 1187) si è tenuta distinta la disciplina relativa alla tutela del paesaggio."
Il ritaglio delle competenze, effettuato a favore dello Stato con i decreti del 1972, aprì immediatamente un dibattito politico sull'esigenza di pervenire ad una riapertura del processo di trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle regioni, che venne effettuato con la legge delega del 22 luglio 1975, n. 382 ed attuato con il dPR 24 luglio 1977, n. 616, il cui art. 80 ebbe a ricondurre alla definizione di urbanistica tutte le funzioni amministrative concernenti "la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente".
Nozione quindi molto ampia (di una concezione panurbanistica), che è rimasta più teorica, che ricca di conseguenza reali.
Con il dPR 15 gennaio 1972, n. 8 ha preso avvio, anche nella materia urbanistica, l'ordinamento regionale. La regione diventa così, insieme al comune, il grande protagonista dell'urbanistica, con compiti non solo di controllo, ma anche di iniziativa, di programmazione e di amministrazione attiva.
In realtà, come ricordato, un primo passaggio dei poteri urbanistici dalla Stato alle regioni si era già avuto con la legge 22 ottobre 1971, n. 865, la quale all'art. 7 aveva sancito che, qualora alla data della sua entrata in vigore non fossero stati ancora emanati i decreti delegati di cui all'art. 17 della L. 16/5/1970, n. 281, erano comunque trasferite alle regioni le attribuzioni, già spettanti al Ministero dei LL.PP., in ordine ai regolamenti edilizi, ai programmi di fabbricazione, ai piani di zona, ai piani particolareggiati, alle lottizzazioni, ecc.
Trattavasi in sostanza di una disposizione transitoria contenente un parziale (ma pur sempre notevole) anticipato trasferimento di attribuzione dallo Stato alle regioni allo scopo di perseguire una sollecita attuazione delle opere previste dalla legge stessa e quindi, ancor prima, degli strumenti urbanistici, che queste opere avrebbero dovuto comprendere.
La legge n. 865 del 1971 è tuttavia importante, non certo per questo anticipato parziale trasferimento, ma per i principi innovativi che ha introdotto nell'ordinamento.
Un esame dettagliato della legge si presenta particolarmente difficile e non può non risentire della stesura non sistematica, per non dire caotica, con cui la stessa è stata redatta. La complessità della legge (articolata in cinque moduli e in 76 articoli) è del resto dimostrata sufficientemente dalla sua intestazione: "Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità, modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150, 18 aprile 1962, n. 167, 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata".
Il filo conduttore peraltro che collega tutte le diverse disposizioni è unico. Tutte le varie disposizioni si pongono in funzione e collegamento con la "casa".
Fin dall'inizio fu chiaro che il problema della casa era strettamente connesso al riequilibrio del territorio e che la finalità da raggiungere era quella di stroncare la speculazione fondiaria, per poter contenere i costi delle aree e delle costruzioni e facilitare il reperimento di aree edificabili.
Ma veniamo agli aspetti della legge 865 che più attengono agli aspetti urbanistici.
Una delle principali innovazioni sta nei criteri di determinazione dell'indennità di esproprio, che viene commisurata al solo valore agricolo, con alcuni incrementi, per cui quando il suolo è già inserito in un perimetro abitato o in una zona urbanizzata di espansione, detto valore viene moltiplicato per coefficienti che variano da 2 a 5 a seconda che le aree siano contenute nelle zone delimitate come "centri edificati" o come "centri storici", mentre per le restanti aree, "l'indennità è commisurata al valore agricolo medio della coltura più redditizia.". Tali meccanismi espropriativi rappresentano il primo serio attacco alla c.d. rendita fondiaria.
Altra grande innovazione della legge 865 è l'ambito di applicazione delle espropriazioni, che viene notevolmente esteso.
Prevede difatti l'art. 9 della legge che "Le disposizioni contenute nella presente legge si applicano all'espropriazione degli immobili, disposta per la realizzazione degli interventi previsti dal precedente titolo, per l'acquisizione delle aree comprese nei piani di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni, per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, compresi i parchi pubblici e di singole opere pubbliche, per il risanamento, anche conservativo, degli agglomerati urbani, per la ricostruzione di edifici o quartieri distrutti o danneggiati da eventi bellici o da calamità naturali, per l'acquisizione delle aree comprese nelle zone di espansione, a termini dell'art. 18 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, nonché per l'acquisizione degli immobili necessari per la costruzione dei parchi nazionali.
Ove si consideri la possibilità per i comuni di espropriare fino al 20% delle aree in zone di espansione, gli espropri per le aree comprese nei piani di zona e quelle comprese nei piani per gli insediamenti produttivi, e in tutte le altre ipotesi previste dalla legge, si deduce che in presenza di una politica urbanistica incisiva da parte dei comuni era possibile espropriare fino al 90% dei suoli edificabili.
Il procedimento espropriativo viene oltretutto notevolmente semplificato e reso più celere.
La legge 865 (con il suo titolo III) modifica ed integra notevolmente la legge n. 167/1962.
I PEEP diventano uno strumento interamente gestito da comuni. Per tutte le aree in essi comprese viene previsto l'esproprio generalizzato ed obbligatorio.
Il dimensionamento del PEEP non può essere superiore al 60% del fabbisogno abitativo complessivo di edilizia abitativa prevista per un decennio.
Le aree espropriate sono concesse dai comuni in diritto di proprietà (in misura compresa tra il 20% ed il 40% in termini volumetrici) e in diritto di superficie le rimanenti per un periodo che non può essere superiore a 99 anni.
Le aree vengono cedute o concesse mediante la convenzione, disciplinata dall'art. 35 della legge. Con la nuova convenzione si dà origine ad una nuova forma di edilizia (la c.d. edilizia convenzionata) il cui scopo è di attrarre gli operatori all'interno dei piani di zona per la realizzazione di alloggi economici e popolari.
Altro aspetto rilevante della legge 865 è l'introduzione di un nuovo strumento urbanistico: il piano per gli insediamenti produttivi, che viene disciplinato dall'art. 27.
Con tale strumento per il quale è prevista una disciplina analoga al quella relativa ai piani di zona: obbligatorietà e generalità dell'esproprio; cessione di proprietà e concessione in diritto di superficie (per il 50% delle aree espropriate) viene consentito ai comuni di acquisire aree nelle zone di espansione, da destinare ad insediamenti di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico, al fine di "stimolare l'espansione produttiva" ed assicurare nel contempo un ordinato assetto urbanistico.
I PIP hanno valore di piano particolareggiato e la stessa validità di 10 anni.
Con tale strumento viene introdotta la possibilità per i comuni di crearsi un monopolio, relativo a tutte le aree, previste dagli strumenti urbanistici generali con destinazione produttiva.
Con la legge n. 865 si agisce per la prima volta, in maniera incisiva a livello normativo sui criteri di formazione della rendita fondiaria urbana.
La
rendita fondiaria urbana può considerarsi il prodotto della differenza tra
il valore normale del terreno (pari al valore agricolo maggiorato del costo
delle urbanizzazioni) ed il valore, che il terreno edificabile assume sul
mercato. Poiché
le opere di urbanizzazione vengono per lo più realizzate dalla collettività
attraverso gli enti pubblici, la rendita urbana finisce per sostanziarsi
nella "differenza tra il valore di mercato dei terreni edificabili ed il
valore alternativo che gli stessi suoli hanno ai fini dello sfruttamento
agricolo". Tale
rendita sia assoluta (dipendente cioè dalla generica idoneità
edificatoria) o differenziale o di posizione (dipendente ossia dal
maggior pregio per la posizione che il terreno assume nell'aggregato
edilizio o per altri fattori preferenziali, quali la dotazione dei servizi,
la presenza di attrezzature pubbliche ecc.) è prodotta prevalentemente
quando non esclusivamente, per merito della collettività. Il
mercato delle aree urbane è caratterizzato da aspetti monopolistici
(trattasi di mercato imperfetto: sottratto ossia al gioco normale della
domanda e dell'offerta); speculativi (in quanto estranei ai fattori della
produzione); e parassitari (in quanto il plus-valore è realizzato a spese
della collettività). L'analisi
più convincente sulla rendita fondiaria urbana e sul suo processo di
formazione e azione si deve a CAMPOS VENUTI,
Amministrare l'urbanistica, Torino, Einaudi
Sui modi di incidere sulla rendita fondiaria urbana il dibattito urbanistico è stato molto esteso, sia negli anni sessanta, senza pervenire peraltro a risultati positivi (si è già visto come la proposta Sullo naufragò velocemente), che negli anni settanta.
L'attenzione della cultura urbanistica e le esperienze poste in atto si sono polarizzate essenzialmente sulle seguenti:
a) un sistema fiscale fortemente incisivo, tale da avocare in gran parte gli incrementi di valore, derivanti dalla rendita urbana.
Le esperienze fatte in questo senso sono state peraltro molto deludenti: sia l'imposta sulle aree fabbricabili, sia successivamente l'INVIM e ancora molto dopo l'ICI sono fallite;
b) l'esproprio generalizzato sulla base del valore agricolo
c) lo scorporo dello ius aedificandi dal diritto di proprietà
Se la legge n. 865/1971 ha posto l'attenzione prevalentemente sull'aspetto espropriativo in base al valore agricolo, l'altra legge importante, emanata negli anni sessanta, la legge 28 gennaio 1977, n. 10 (la c.d. legge Bucalossi) pone l'accento sul c.d. scorporo dello ius aedificandi.
Come si è già ricordato dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 55 del 1968, che dichiarava l'illegittimità dei vincoli urbanistici posti a tempo indeterminato, era intervenuta la legge n. 1187 del 1968 che aveva fissato una validità quinquennale dei medesimi.
A questa erano seguite numerose leggi di proroga, fino a quando con la legge n. 10 del 1977 si ritenne di aver risolto in radice il problema.
Afferma questa legge, già nell'art. 1, che "ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e l'esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco".
Con il passaggio dal precedente regime autorizzatorio al regime concessorio oneroso, nelle intenzioni del legislatore si volle evidenziare che lo ius aedificandi deriva solo da atti della pubblica amministrazione e appartiene solo a questa.
Ma la legge nasceva da situazioni di compromesso ed il principio della separazione "veniva affermato in forma ambigua, così da renderlo accettabile al partito della proprietà" (così M. MARTUSCELLI).
Quattro sono gli aspetti più innovativi della legge n. 10;
la subordinazione ad una concessione amministrativa da rilasciarsi dal Sindaco per ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale;
la previsione ed il favore per un'edilizia abitativa convenzionata, intermedia tra l'edilizia popolare e quella libera;
l'introduzione del programma pluriennale, come strumento di attuazione programmata dei piani urbanistici generali;
la normativa contro gli abusi.
Sotto il primo punto si rilevano tre fatti:
a) la modifica della natura della licenza edilizia;
b) l'estensione dei casi in cui è necessario l'intervento del Sindaco;
c) la disciplina della partecipazione agli oneri di urbanizzazione.
a) La legge n. 10 di certo nelle intenzioni aveva inteso affermare che lo ius aedificandi è un "quid novi" che non pertiene alla proprietà del suolo, ma appartiene alla pubblica amministrazione, che lo concede dietro pagamento di un corrispettivo. Ma invero le caratteristiche della concessione di che trattasi erano atipiche rispetto alla costruzione della concessione, qual è stata sistemata dalla dottrina amministrativa e dalla giurisprudenza.
Infatti, in base all'art. 4 della legge, la concessione de qua:
può essere concessa solo al proprietario del suolo;
è un atto dovuto, esistendo i requisiti per il suo rilascio;
una volta realizzate le opere è senza termine e irrevocabile;
si trasferisce insieme con l'area e non incide su diritti reali.
Ciò fece ritenere a parte della dottrina che si era con la Legge n. 865 introdotta sul punto una riforma meramente nominalistica, ma non sostanziale.
b) Notevole è l'ampliamento dell'ambito degli interventi soggetti a concessione. La legge n . 10 non è più incentrata sulla nozione di "costruzione" ma su quella di "opera"(evidentemente più omnicomprensiva).
c) Il rilascio della concessione è inoltre onerosa. Essa è infatti subordinata al pagamento di un contributo, composto di due aliquote: una commisurata all'incidenza delle opere di urbanizzazione e l'altra corrispondente ad una quota parte del costo di costruzione delle opere realizzate (salvo che per alcune ipotesi di concessione gratuita, previste all'art. 9 della legge).
I proventi di tale contributo vanno versati in conto corrente vincolato presso la tesoreria comunale e possono essere destinati solo per:
la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
il risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici;
l'acquisizione di aree da espropriare per la realizzazione del P.P.A.
Usando come linea di discrimine la diversa entità del contributo da porre a carico dei privati per il rilascio della concessione, la legge delinea un sistema nel quale è possibile individuare tre aree così distinte: a) un'area c.d. pubblica; b) un'area c.d. libera; c) un'area c.d. convenzionata.
A) L'area dell'edilizia c.d. pubblica comprende le aree ricadenti nei PEEP, quelle ricadenti nei piani per gli insediamenti produttivi e le localizzazioni di cui all'art. 51 delle legge n. 865/1971. Tutte queste aree vanno espropriate e cedute o concesse in diritto di superficie a enti, cooperative e privati, a norma dell'art. 35 della legge n. 865/71, per un corrispettivo pari al prezzo di esproprio, maggiorato del costo delle opere di urbanizzazione;
B) L'area della edilizia c.d. convenzionata (art. 7 della legge n. 10/1977) ricomprende gli interventi di edilizia abitativa, ivi compresi quelli su edifici esistenti, in aree non ricadenti nella c.d. fascia pubblica e si attua sulla base di convenzioni (ovvero atti d'obbligo unilaterali), con i quali i proprietari si impegnano ad applicare canoni di locazione e prezzi di vendita degli alloggi concordati con il comune. È evidente lo scopo del legislatore di indirizzare e orientare l'operatore privato verso questo settore, che si pone un una fascia intermedia tra l'edilizia pubblica e quella libera. Può fin da ora osservasi che queste finalità non sono state raggiunte, in quanto gli incentivi offerti non sono stati tali da indirizzare la domanda verso questo settore;
C) L'area c.d. libera riguarda l'edilizia abitativa che viene realizzata senza alcun vincolo di tipologia, prezzi e canoni di locazione, sulla base dell'atto di concessione e con pagamento del contributo, comprensivo di ambedue le aliquote.
Altra fondamentale innovazione della legge n. 10/1977 (art. 13) è la previsione del programma pluriennale di attuazione, strumento che non era invero del tutto nuovo in quanto già previsto nella legislazione di alcune regioni (es. legge urbanistica della Lombardia).
Con l'art. 13 si stabilisce che l'attuazione degli strumenti urbanistici generali (PRG e PdF) può avvenire solo sulla base di programmi pluriennali di attuazione, che delimitano le aree, incluse o meno in piani particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, nelle quali saranno da realizzare le previsioni urbanistiche degli strumenti generali, con riferimento ad un periodo di tempo compreso tra tre e cinque anni.
Con il PPA dovranno obbligatoriamente prevedersi ed individuarsi le aree destinate all'edilizia economica e popolare nel limite minimo del 40% e massimo del 70% e le zone destinate all'edilizia residenziale nella correlativa restante proporzione percentuale.
Ove al termine del periodo di validità del PPA non siano state presentate le istanze di concessione vi è l'obbligo per il comune di espropriare tutte le aree non utilizzate.
La legge urbanistica del 1942 si limitava a porre nello svolgimento dell'attività edilizia dei vincoli e delle limitazioni, senza interessarsi dell'attuazione delle previsioni urbanistiche (c.d. atemporalità dei piani).
Il PPA si interessa dell'aspetto temporale, determina così un'urbanistica che avrebbe dovuto essere interamente controllata e gestita dal potere pubblico, con la finalità di porre un freno all'espansione episodica ed allo sviluppo disorganico degli insediamenti.
Il PPA rappresenta un vero e proprio piano programma per il comune, imponendogli di realizzare tutte le opere pubbliche di urbanizzazione inserite in questo.
La legge n. 10 disciplina inoltre altri aspetti; tra questi vanno ricordati:
le modifiche apportate in tema di espropriazione per pubblica utilità, che peraltro non intaccano la sostanza di quanto previsto dalla legge n. 865/1971; e soprattutto;
la nuova normativa sulla repressione degli abusi edilizi. Il sistema sanzionatorio viene totalmente ridisegnato, con un inasprimento delle sanzioni penali. Il sistema delle sanzioni amministrative viene fortemente innovato. Viene tra l'altro prevista, come nuova sanzione, per gli abusi più gravi, l'acquisizione gratuita delle opere abusive.
L'altra legge degli anni settanta che presenta rilevanti disposizioni interessanti la disciplina urbanistica è la legge 5 agosto 1978, n. 457, con la quale è approvato il piano decennale della casa.
In precedenza erano state approvate alcune leggi dirette ad incentivare la realizzazione di edilizia abitativa di carattere economico-popolare, in cui erano presenti anche norme di carattere urbanistico, ma complessivamente di carattere marginale e connesse, quasi esclusivamente a integrazioni e modificazioni di norme esistenti con fini acceleratori. Si elencano:
D.L. 2 maggio 1974, n. 115, come convertito con L. 27 giugno 1974, n. 247;
L. 27 maggio 1975, n. 166 ("Norme per interventi straordinari di emergenza per l'attività edilizia");
L. 16 ottobre 1975, n. 492;
L. 8 agosto 1977, n. 513.
La legge n. 457/1978 rappresenta il superamento dei limiti temporali e congiunturali della legge 865, consentendo all'ente pubblico d'intervenire in maniera più incisiva e programmata nel settore della casa.
Gli elementi di principale interesse del piano decennale sono costituiti da una più organica e precisa ripartizione di compiti tra CIPE, Comitato dell'edilizia residenziale (CER) e le Regioni, e da una più lunga proiezione temporale dei programmi operativi dell'edilizia residenziale pubblica.
Il ciclo edilizio disegnato dalla legge 457/78 è basato e articolato su tre livelli temporali: il piano decennale, il programma quadriennale e il progetto biennale, per ciascuno dei quali sono fissati i rispettivi obiettivi.
La struttura operativa del piano a sua volta è articolata a tre livelli: centrale, regionale e locale.
La legge n. 457/78 si segnala sotto il profilo urbanistico soprattutto per:
aver elencato la tipologia degli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, risanamento e restauro conservativo, ristrutturazione edilizia e urbanistica e averne dato le relative definizioni, che prevalgono - ope legis - su quelle eventualmente diverse contenute nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici;
aver ripristinato l'istituto dell'autorizzazione (sostituendola a quella di concessione gratuita) per gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria; e soprattutto per
aver introdotto nella disciplina urbanistica un nuovo strumento urbanistico: il piano di recupero del patrimonio edilizio esistente, colmando così un vuoto normativo.
La legge prevede che i comuni individuino delle "zone di recupero" comprendenti quelle aree ove per le condizioni di degrado si rende opportuno il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente, mediante interventi rivolti alla conservazione, risanamento, ricostruzione ed alla migliore utilizzazione del patrimonio medesimo.
Nell'ambito delle zone suddette è prevista, entro il termine di tre anni, la formazione del piano di recupero, che può essere sia di iniziativa privata che pubblica.
Il piano di recupero ha valore di piano particolareggiato.
aver prorogato la durata dei PEEP, (di cui già in precedenza era stato disposto il prolungamento a 15 anni), a 18 anni.
Prima di chiudere l'excursus storico normativo sugli anni settanta, che sono stati gli anni in cui maggiormente si è tentato di conferire al comune un ruolo fondamentale di governo del territorio, perseguendo l'obiettivo di realizzare l'indifferenza alle scelte urbanistiche mediante l'attribuzione alla mano pubblica dello ius aedificandi e del plusvalore derivante dalla rendita fondiaria urbana, meritano di essere ricordate quanto meno, la L. 29 luglio 1978, n. 392 ("Disciplina delle locazioni degli immobili urbani"), meglio nota come legge sull'equo canone e soprattutto due leggi, emanate nel periodo, abbastanza rilevanti per la materia urbanistica:
la legge 3 dicembre 1971, n. 1102 che detta "nuove norme per lo sviluppo della montagna";
la legge 11 giugno 1971, n. 426, recante "Disciplina del commercio".
Con la legge 3 dicembre 1971, n. 1102 e con la relativa normazione regionale di attuazione, sono state istituite le comunità montane. Le anzidette comunità in realtà già esistevano nel nostro ordinamento, ma la nuova legge le ha istituite come organismi sostanzialmente nuovi e profondamente diversi.
Le comunità montane rappresentano nella nostra legislazione urbanistica generale forse il primo meccanismo sovracomunale, operante con competenza diretta e globale degli interessi di sviluppo di vaste zone della regione. Sono strumenti di programmazione economica; enti rappresentativi degli interessi sociali ed economici del territorio, dotati di poteri istituzionali in materia di sviluppo economico e sociale e di pianificazione territoriale.
L'azione programmatoria di questi enti si estrinseca attraverso la redazione di:
a) piani pluriennali di sviluppo economico-sociale. Gli anzidetti piani da redigersi, partendo da un esame conoscitivo della realtà della zona, tenuto anche conto degli strumenti urbanistici esistenti a livello comunale o intercomunale e dell'eventuale piano generale di bonifica montana, devono prevedere le concrete possibilità di sviluppo nei vari settori economici, produttivi, sociali e dei servizi. A tale scopo devono indicare il tipo, la localizzazione e il presumibile costo degli investimenti atti a valorizzare le risorse attuali e potenziali della zona e gli incentivi da concedere agli operatori pubblici e privati. A tale piano debbono adeguarsi i piani degli altri enti operanti nel territorio della Comunità, delle cui indicazioni si deve tuttavia tener conto nella preparazione del piano di sviluppo, mediante opportuni coordinamenti.
b) Piani urbanistici di sviluppo. La legge prevede la possibilità della redazione di piani urbanistici, di cui si deve tener conto nella redazione dei piani generali di bonifica, dei piani regolatori e dei programmi di fabbricazione, che i comuni sono tenuti ad adottare.
Con la legge 11/6/1971, n. 426 (e suo regolamento di attuazione approvato con D.M. 14/1/1972) si è disposta una revisione delle norme che disciplinano le varie attività di vendita.
Di particolare importanza è l'agganciamento dello sviluppo commerciale a quello urbanistico, attraverso l'obbligatoria redazione di piani di sviluppo e di adeguamento della rete di vendita (c.d. piani del commercio). Questi piani da adottare, al fine di una più razionale evoluzione dell'apparato commerciale, devono tener conto delle previsioni urbanistiche e tendono ad assicurare il maggior equilibrio possibile tra istallazioni commerciali e la presumibile capacità di domanda degli utenti; nonché la migliore funzionalità e produttività del servizio.
Nella formazione e revisione degli strumenti urbanistici generali e in quelli di attuazione devono essere indicate le norme per l'insediamento delle attività commerciali e contemplate norme e condizioni, con particolare riferimento alla quantità degli spazi per parcheggi.
Circa le modalità per la formazione del piano la legge prevede un meccanismo assai simile a quello previsto per il PRG. Il piano in parola si presenta simile ad uno strumento urbanistico, di tal che si è parlato, a proposito di questi piani, di "urbanistica commerciale".
La legge 14/10/1974, n. 524 ha stabilito la redazione di analoghi piani anche per gli esercizi pubblici di vendita e consumo di alimenti e bevande.
CAPITOLO V GLI ANNI DELLA CONTRORIFORMA
Le speranze che si erano aperte con la legislazione di fine degli anni '70 furono ben presto deluse. Gli anni ottanta, da questo punto di vista iniziano proprio male.
Fin dai primi anni ottanta infatti ebbero a manifestarsi tendenze di chiaro segno contrario, che hanno aperto la stagione della controriforma urbanistica o se si vuole della deregulation o privatizzazione dell'urbanistica.
Un ruolo rilevante in tal senso è stato svolto dalla Corte Costituzionale. Con le sentenze n. 5/1980; n. 92/1982 e 223/1983 smantellò infatti tutta una serie di principi che faticosamente, anche se con contraddittorietà, erano stati portati avanti non solo nel dibattito culturale degli anni settanta, ma anche con iniziative legislative concrete.
La sentenza n. 5/1980 fu un fulmine a ciel sereno. La Corte Costituzionale era stata chiamata a decidere sulla legittimità dei criteri di determinazione dell'indennità di esproprio, come previsti dalla Legge n. 865/1971, modificata dalla legge n. 10/1997.
La Corte, dopo aver richiamato la propria precedente giurisprudenza, secondo cui l'indennizzo non deve costituire un'integrale riparazione della perdita , ma deve pur sempre rappresentare "un serio ristoro", negò che l'adozione del valore agricolo medio (V.A.M.), come criterio di determinazione della misura dell'indennità di esproprio potesse essere ritenuto conforme ai principi posti dall'art. 42 Cost., in quanto:
"non facendo riferimento al bene da espropriare ed al valore di esso secondo la sua determinazione economica, introduce un elemento di valutazione del tutto astratto, che porta inevitabilmente, per i terreni destinati a insediamenti edilizi che non hanno alcuna relazione con le colture praticate nella zona, alla liquidazione di indennizzi sperequati rispetto al valore dell'area da espropriare ..
L'astrattezza del criterio adottato e la mancata considerazione delle caratteristiche del singolo bene da espropriare possono portare a irragionevoli trattamenti differenziati di situazioni sostanzialmente omogenee in quanto per terreni in eguale situazione per la loro destinazione edilizia, potrebbero essere attribuiti indennizzi diversi in relazione al maggiore o minore pregio delle zone agricole nelle quali sono posti".
La Corte Costituzionale coglieva con la sentenza n.5/1980 alcune indubbie incongruenze della normativa, ma andava oltre lì ove sulla base della considerazione che il proprietario di un'area edificabile ha il diritto di chiedere la concessione e che questa è irrevocabile e trasferibile con la proprietà perveniva ad affermare che il "diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà.." E che nessun scorporo tra proprietà e ius aedificandi era stato operato dalla Legge n.10/1997
Affermava ancora la Corte :
"Ne consegue altresì che la concessione ad edificare non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone quelli preesistenti, sicché sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell'antica licenza."
Veniva in tal modo smantellata tutta la costruzione teorica su cui si basava la Legge n. 10/1977, che veniva colpita nella sua essenza.
Il legislatore, per superare la situazione, si limitò ad iterare, in via transitoria, con la L. 29 luglio 1980, n. 385 (successivamente più volte prorogata) i criteri di determinazione della misura dell'identità d'esproprio, stabiliti dalla Legge n. 865/1971, dichiarati incostituzionali dalla sentenza n. 5/1980, con la riserva di "salvo conguaglio".
Con la sentenza n. 223/1983 la Corte Costituzionale fece giustizia di questo invero poco onorevole espediente normativo.
Scrive V. DE LUCIA, Se questa è una città che:
"l'Italia è così probabilmente l'unico paese al mondo -dopo la Rivoluzione Francese- sprovvisto di qualsiasi norma valida per l'espropriazione. L'indignazione degli urbanisti e degli amministratori più attenti è furibondo. E' noto il caso di Modena, che aveva pagato per un esproprio (in base alla Legge 865) 90 milioni, mentre il proprietario chiedeva il doppio. Nel 1987, dopo anni di contenzioso, il Comune deve liquidare, per sentenza definitiva della Cassazione, ben 2500 miliardi, e cioè 14 volte più di quanto richiesto dall'espropriato".
Come era inevitabile l'affermazione della Corte Costituzionale sul non avvenuto scorporo dello ius aedificandi dal diritto di proprietà, non poteva non ripercuotersi sul problema dei vincoli di inedificabilità.
La Corte Costituzionale, nuovamente investita dalla problematica, riportava con la sentenza n. 92 del 1982 le lancette dell'orologio alla situazione post sentenza n. 55/1968 e Legge n. 1187/1968, affermando che :
"E' infondata l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 7 Legge 17 agosto 1942, n. 1150, per contrasto con l'art. 43, 3° comma, Cost., poiché nei confronti dei vincoli finalizzati all'espropriazione contenuti nel PRG continua a vigere il termine quinquennale previsto dalla Legge n. 1187/1968. Infatti nel silenzio della Legge n. 10/1977, deve ritenersi che quest'ultima nulla abbia innovato nella disciplina di tali vincoli".
Di fronte ad una situazione particolarmente grave che rischiava di far saltare tutta la pianificazione urbanistica, interveniva "provvidenzialmente" una sentenza del Cons. di Stato, ad. plen., 2 aprile 1984, n.7, secondo cui:
"l'art. 4, ultimo comma, della L. 28 gennaio 1997, n. 10, il quale stabilisce entro quali limiti può rilasciarsi una concessione di edificare nei comuni sprovvisti degli strumenti urbanistici, è applicabile anche nell'ipotesi di piani regolatori che abbiano in parte perduto la loro efficacia".
Poiché tali limitazioni comportavano nell'ambito dei centri abitati una sostanziale inedificabilità e al di fuori di questi una edificabilità estremamente ridotta, la decadenza del vincolo non determinava nei fatti vantaggi per il proprietario sotto il profilo delle possibilità edificatorie.
Si dovrà aspettare il mutamento giurisprudenziale in ordine alla risarcibilità degli interessi legittimi e la sentenza della Corte di Cassazione, sezioni riunite, n. 500 del 1999, nonché la più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (sent. 179/2000) ed infine la normativa posta del DPR 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) poiché la situazione muti radicalmente.
Gli anni 80 sono anche gli anni della politica neoconservatrice e liberista di Ronald Reagan e Margaret Thacher.
I Governi italiani sono quelli del "pentapartito", i quali cercano di rivitalizzare l'edilizia privata entrata in un periodo di stasi. Per la prima volta le realizzazioni d'edilizia residenziale pubblica superano in percentuale quelle dell'edilizia privata.
Con la L. 25 febbraio 1980, n. 25, che porta la firma del Ministro Andreatta si approvano interventi straordinari per l'edilizia pubblica sulle grandi città.
Si favorisce l'esecuzione di opere pubbliche. A tali fini, già in precedenza, con l'art. 1 della L. 3 gennaio 1978, n 1 si era previsto un procedimento accelerato di varianti allo strumento urbanistico generale, per la realizzazione di opere pubbliche. E la variante non era neppure necessaria, operando automaticamente ope legis, ove lo strumento urbanistico avesse già una destinazione pubblica ancorché sostanzialmente diversa; come se realizzare un parco pubblico od uno stadio o un ospedale potesse essere, sotto il profilo urbanistico, indifferente.
Ma le Leggi emblematiche del nuovo corso urbanistico sono il D.L. 23 gennaio 1982, n. 9, convertito nella L. 25 marzo 1982, n. 94 e la L. 28 febbraio 1985, n. 47, nota la prima come quella del silenzio assenso e la seconda, come quella del condono edilizio. Entrambe le leggi portano la firma del Ministro dei lavori pubblici dell'epoca Nicolazzi. Anzi la Legge n. 94/1982 è comunemente denominata come "Legge Nicolazzi".
La Legge n. 94 introduce una notevole semplificazione nel procedimento di rilascio della concessione edilizia, con la previsione del silenzio assenso. Tale istituto, già previsto in passato solo per le autorizzazioni, viene ora esteso anche alle concessioni; vengono previste inoltre ulteriori ipotesi di interventi edilizi da eseguire con autorizzazioni gratuite.
Ma soprattutto, per quanto attiene più propriamente agli aspetti urbanistici, i comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti vengono esonerati dall'obbligo di dotarsi del programma pluriennale d'attuazione, che con questa disposizione inizia la sua agonia, diventando un istituto fantasma, utile per le discettazioni degli urbanisti, ma pressoché inattuato nella prassi.
Viene previsto il rilascio da parte del Comune di un "certificato di destinazione d'uso del suolo", con il quale il privato viene messo in condizione di conoscere, prima di progettare e domandare la concessione, la normativa urbanistica ed edilizia vigente per l'area d'interesse.
Indubbiamente la legge più importante degli anni 80 è quella del condono edilizio.
Alla base di questa vi è da un lato la convinzione di non poter colpire tutti gli abusi edilizi connessi, dall'altra l'idea di sfruttare l'abusivismo per introitare somme, occorrenti a ridurre il disavanzo pubblico.
In sostanza basta pagare per ottenere la sanatoria e rendere legale l'immobile abusivo: una sorta di simonia (è stato affermato).
La Legge n. 47 non disciplina peraltro solo la sanatoria urbanistica ed edilizia, ma ha un contenuto molto più articolato, ridefinendo, anche se con caratteri non innovativi, il sistema delle c.d. sanzioni amministrative, oltre a prevedere alcune norme per lo snellimento delle procedure urbanistiche ed edilizie.
Il condono ha a riferimento tutti gli abusi commessi entro il 1° ottobre 1983 ed è subordinato all'istanza degli interessati, al pagamento dell'oblazione da determinare in base alla data di commissione dell'abuso (essendo gli abusi sanabili raggruppati in tre fasce temporali) ed alla rilevanza dell'abuso stesso; ed infine al pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Per gli abusi diffusi, concernenti ossia interi insediamenti abusivi, la Legge n. 47 preveda inoltre l'adozione di varianti di recupero, aventi contenuti assimilabili a quelli di veri e propri piani di recupero.
Procedure semplificate vengono introdotte per la formazione di strumenti urbanistici ed una apposita disciplina per le opere interne, che vengono sottratte sia al regime concessorio, che a quello autorizzatorio.
Il condono edilizio, in carenza di una adeguata vigilanza ed anche, in gran parte, di cartografie aereofotogrammetriche che fotografassero la situazione alla data del 1° ottobre 1983, ha finito per aumentare gli abusi, inducendo infatti proprietari di aree a realizzare nuove costruzioni da inserire nelle istanze di condono. E' dato di fatto che nell'immediatezza dell'entrata in vigore della Legge la produzione e vendita di materiale edilizio ebbe una brusca impennata.
Un indagine sull'argomento e sugli ulteriori guasti (anche in termini di corruzione indotta)non risulta essere stata mai effettuata, per cui non esistono dati, anche approssimativi, in materia.
Un secondo condono edilizio venne successivamente approvato con due disposizioni normative:
Art. 39 della L. 23 dicembre 1994, n. 724;
Art. 2 comma 37e segg., della L. 23 dicembre 1996, n. 662, modificato dall'art. 1 della L. 27 dicembre 1997, n. 449.
Trattasi in ambedue i casi (stesso discorso vale anche per la L. 449/1997) di disposizioni inserite in leggi finanziarie e ciò la dice lunga sulle finalità anche di questo secondo condono. Ed in effetti la finalità di reperire risorse per l'erario risulta accentuata, nonostante le lodevoli intenzioni, riportate nella relazione di accompagnamento, al D.L. 26 luglio 1994, n. 468 con cui fu inizialmente previsto il condono), decreto-legge decaduto, più volte reiterato ed infine trasfuso nel citato art. 39 della L. 724/1994.
Nella relazione di accompagnamento del citato Decreto Legge è affermato che lo scopo perseguito è quello "di porre finalmente ordine in un settore che tra norme intruse, provvedimenti occasionali e stratificazione di istituti, è stato ridotto in una situazione pressoché totale di paralisi al punto che le pratiche relative al condono edilizio 1985 sono ancora in corso di trattazione per circa il 90% dei casi".
Si afferma inoltre che "se si vuole evitare che riprendano in maniera diffusa fenomeni di abusivismo e venga portato ad ulteriori livelli inaccettabili lo scempio dell'ambiente e del patrimonio artistico e culturale nel Paese, occorre intervenire immediatamente senza indugio alcuno, ponendo un punto fermo e invalicabile che impedisca e vanifichi ogni intervento speculativo contribuendo nel contempo ad eliminare le zone d'ombra e la ferraginosità del sistema che oggettivamente favoriscono l'insorgere del fenomeno dell'abusivismo".
E quale migliore rimedio per porre a freno l'abusivismo che effettuare un ulteriore condono!
La sanabilità viene spostata in avanti fino al 31 dicembre 1993, per le opere a tale data ultimate, purché non eccedenti una volumetria di 750 metri cubi, e per gli ampliamenti in misura non superiore a 750 mc. o al 30% dell'opera legittima ampliata.
Si è di frequente tentato di giustificare l'abusivismo con l'affermazione che lo stesso è favorito dai ritardi e comunque dai tempi lunghi con cui operano le pubbliche amministrazioni e con i rigori delle pianificazioni urbanistiche. Afferma DE LUCIA al riguardo:
"Accade invece che proprio quando opera appieno il regime liberatorio, l'abusivismo raggiunge il massimo storico"
Da un'indagine svolta da Sole 24 Ore (8 aprile 2002) su 24 comuni
emerge che nel nord d'Italia prevalgono le piccole irregolarità ancorché
numerose e che nel sud l'abusivismo interessa aree molto estese. Su 24 Comuni campionati è risultata una montagna di pratiche
inevase. Solo Bologna non risulta avere pendenze . Negli altri 23 Comuni le
pratiche tuttora inevase ( ex lege 47/85 sono ben 445.000 e quelle inevase
ex lege 724/1994 n. 132.953).
A partire dagli anni ottanta la situazione, che emerge anche a seguito della giurisprudenza costituzionale, che rende nella sostanza non comprimibile la rendita fondiaria urbana, induce molte amministrazioni comunali a redigere piani regolatori contrattando le scelte con i proprietari privati, in modo da ottenere gratuitamente la cessione di aree per la realizzazione di infrastrutture pubbliche in cambio di volumetria nelle restanti aree.
Inizia così la stagione della "urbanistica contrattata", "dell'urbanistica concertata", della cosiddetta "privatizzazione dell'urbanistica", che troverà successivamente ulteriore spazio e vigore con l'introduzione di specifici istituti quali l'"accordo di programma" (L. n. 241/1990), o i c.d. "progetti complessi di intervento", che all'insegna di "più progetti, meno piani", ovvero "meno Stato, più mercato" tendono a superare, ritenendoli non più praticabili, i vecchi strumenti di tipo autoritativo.
Si intende per "urbanistica contrattata", secondo E. SALZANO, Fondamenti di urbanistica, Laterza, 1998 (e già dalla definizione si evince la connotazione negativa che l'autorevole urbanista attribuisce a questa) "la sostituzione a un sistema di regole valide erga omnes, definitive dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere".
Prosegue l'anzidetto Autore:
"la portata di ciò che l'urbanistica contrattata ha rappresentato e rappresenta, le sue conseguenze per la società italiana, i rischi che essa comporta per la stessa democrazia potranno essere compresi solo ragionando su alcuni casi concreti: la Fiat Fondiaria a Firenze, i 12 milioni di metri cubi consentiti con una congerie di varianti al PRG a Milano, i "Ministeri d'oro" a Roma, la proposta di "Neonapolis" e numerosissimi altri episodi grandi e piccoli che hanno costellato l'Italia".
E che fanno dell'urbanistica contrattata, secondo Salzano, qualcosa di più grave della tradizionale speculazione fondiaria: quella ossia del "Sacco di Roma", delle "mani sulla città" a Napoli o dei Colli di Agrigento.
Anche negli anni ottanta e nei primissimi anni 90 vi sono state tuttavia alcune leggi positive.
Tra queste vanno segnalate, quanto meno:
la L. n. 431 del 1895;
la L. n. 183 del 1989;
la L. n. 142 del 1990;
la L. n. 394 del 1991.
Vi è anzi da dire che mentre negli anni ottanta l'urbanistica entra in una fase di crisi, negli stessi anni si sviluppa la tematica ambientalistica, anche come reazione alle nuove concezioni dell'urbanistica contrattata, di cui vengono intravisti i possibili rischi.
Le frequenti calamità naturali, provocate anche da eventi atmosferici non irresistibili, ma che lo stato di dissesto idrogeologico del territorio amplifica; l'inquinamento atmosferico sempre più evidente delle città; alcuni eventi di forte impatto emotivo (Seveso, i fanghi di Scarlino, il disastro di Chernobyl); portano alla ribalta con forza l'importanza degli aspetti ambientali e danno forza al movimento ambientalista, che si organizza anche politicamente (con i vari movimenti "verdi"). Nel 1986 il referendum per la chiusura delle centrali nucleari ottiene la vittoria, con il conseguente abbandono della costruzione della centrale nucleare di Montalto di Castro, già in avanzata fase di realizzazione.
L'ambiente entra nella pianificazione urbanistica. Si comprende che le risorse naturali (acqua, aria) non sono beni illimitati, e spesso, una volta inquinati neppure riproducibili o recuperabili. Ci si rende conto che il territorio è una componente dell'ambiente e che la pianificazione territoriale non può prescindere da questo.
Il bene ambiente è un valore primario, la cui tutela non è neppure circoscrivibile entro i confini di una nazione, richiedendo azioni concentrate a livello internazionale, comunitario e nazionale.
Si rafforza il concetto di sviluppo sostenibile, in cui la compatibilità ambientale costituisce la precondizione per qualsiasi pianificazione territoriale.
Scrive G. Ruffolo, Il carro degli Indios, in "Micromega", n. 3, 1986:
"Mai nessuna civiltà, come questa nostra, ha prelevato tanto dall'ambiente, impoverendolo, riducendo la sua complessità entro spazi monotoni e stereotipati; e restituendogli tanto poco, in termini di valore aggiunto paesaggistico, architettonico, artistico. Sotto il profilo della cultura e della politica urbanistica, la sinistra europea ha combattuto, e talora vinto, battaglie memorabili. In linea generale, tuttavia, essa è rimasta ben al di sotto del compito che dovrebbe essere suo proprio: di opporre a una logica distruttiva dello spazio, del tempo e della bellezza, una logica costruttiva e creativa di nuovi modelli d'ordine ambientale. In Italia, poi, il punteggio della sinistra, in questo campo, è addirittura vergognoso. Salvo poche eccezioni, più che in ogni altro paese europeo, incuria ed incompetenza delle forze politiche e delle amministrazioni, di tutti i colori, hanno lasciato libero il campo allo scempio e agli agenti del disordine. La pianificazione territoriale è ambientalismo positivo e costruttivo. Solo da un progetto coerente di ordine dispositivo può scaturire una grande politica di investimenti pubblici, di conservazione e valorizzazione di risorse naturali e urbane, paesaggistiche e artistiche, che può dare risposta, al tempo stesso, al problema della scarsità ambientale e a quello della disoccupazione".
Riferimenti:
La città sostenibile (a cura di E. SALZANO), Roma, Edizioni delle Autonomie, 1992;
La memorabile descrizione di Maradagal (in realtà della Brianza), contenuta in C.E. GADDA, La cognizione del dolore, ed. 1971;
Agenda 21 sottoscritta alla Conferenza di Rio de Janeiro nel 1992 sull'esigenza di favorire lo sviluppo di una economia globale ecologicamente sostenibile.
Disposizioni significative per la tutela di zone di particolare interesse ambientale sono contenute nella L. 8 agosto 1985, n. 431 (c.d. legge Galasso).
Con questa viene esteso il vincolo procedurale della legge n. 1497/1939 (art. 7), (che richiede per ogni zona ricadente sotto il vincolo paesaggistico, la preventiva autorizzazione obbligatoria da parte della competente autorità), per tutta una serie di categorie di beni, non più individuati attraverso il puntuale procedimento disciplinato dalla legge 1497, ma ope legis in via astratta e generalizzata.
Risultano
così vincolati: i territori costieri per
una profondità di 300 metri dalla
linea di battigia; i territori che circondano
i laghi per una profondità di 300 metri dalla battigia: i fiumi, torrenti e corsi
d'acqua pubblici e le loro rive, per una fascia di 150 metri; le montagne sopra i 1800
metri sul livello del mare; i ghiacciai e i circoli
glaciali; i parchi e le riserve; i boschi e le foreste; i territori
assegnati alle università agraria e le zone gravate da usi civici.
Le zone legislativamente vincolate vanno sottoposte dalle regioni a specifica normativa d'uso e di valorizzazione ambientale mediante piani paesistici o piani urbanistico-territoriali, che diano specifica considerazione ai valori paesistici e ambientali. Nell'ambito delle zone vincolate le regioni possono individuare aree nelle quali è vietata, fino all'adozione dei piani suddetti, ogni modificazione dell'assetto del territorio, nonché qualsiasi opera edilizia.
Il potere di autorizzazione per le opere da eseguirsi sugli immobili e nelle aree vincolate non è più di esclusiva competenza della regione, ma viene ripartito tra le regioni (alcune delle quali lo avevano sub-delegato ai comuni) e lo Stato.
È da rilevare peraltro che la pianificazione paesistica di area vasta, che era uno degli aspetti qualificanti della legge (e per la quale lo Stato si era riservato il potere sostitutivo in caso di inerzia delle regioni) trova del tutto impreparati gli apparati tecnici. Alla fine del 1997 sono poche regioni si erano dotate di piani paesistici.
Ciò nonostante la legge è di grande importanza, anche perché determina rilevanti connessioni tra tutela ambientale e pianificazione urbanistica, imponendo nella redazione degli strumenti urbanistici una attenzione particolare agli aspetti ambientali.
A rafforzare il valore del concetto di bene ambientale interviene la L. 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell'Ambiente, che introduce nell'ordinamento una specifica disciplina in materia di risarcimento del danno ambientale. Dell'azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno sono riconosciuti titolari lo Stato, le regioni, le provincie e i comuni. Alle Associazioni di protezione ambientale viene riconosciuta la possibilità di intervento nei giudizi civili, ed anche la possibilità di ricorrere direttamente.
Viene prevista altresì la possibilità di definire ed individuare "aree ad elevato rischio di crisi ambientale", per le quali d'intesa con le regioni il Ministro dell'Ambiente può predisporre piani specifici d'intervento.
Nello stesso periodo, in base alla direttiva comunitaria 85/337/CEE ed ad una previsione, contenuta nella legge 349/1986 (art. 6) vengono emanati il DPCM 10 agosto 1988, n. 377, (che sarà successivamente integrato con dPR 11 febbraio 1998) ed il DPCM 27 dicembre 1988 con il quale viene introdotto e disciplinato l'istituto della valutazione di impatto ambientale (c.d. V.I.A.).
Ma la legge più importante del periodo, sotto il profilo della tutela ambientale, è indubbiamente la L. 18 maggio 1989, n. 183, recante "norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo".
Trattasi infatti di una legge organica. In precedenza i diversi beni oggetto di tutela ambientale (acqua, aria, rumore, energia, rifiuti) sono sempre stati oggetto di normative diversificate e disorganiche, con competenze frammentate tra diverse autorità, senza un momento di verifica di coerenza tra queste.
Di norma le prescrizioni contenute in queste normative si basano su:
la fissazione di standard di qualità da rispettare;
la redazione di piani di settore, non raccordati con la pianificazione generale.
L'ottica della legge n. 183/1989 risponde invece a criteri di organicità e mira (art. 1) ad "assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque, la fruizione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale, la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi".
Punti qualificanti della legge, per gli aspetti che qui maggiormente rilevano, sono:
l'individuazione, quale base sistematica di riferimento per tutti gli aspetti conoscitivi, pianificatori e gestionali connessi alle finalità della legge, del "bacino idrografico";
la suddivisione e classificazione di tutto il territorio nazionale in bacini idrografici di rilievo nazionale ed interregionale (già definiti nella legge stessa) e bacini di rilievo regionale (da definirsi dalle regioni);
istituzione di apposite Autorità di Bacino di rilievo nazionale;
la definizione del nuovo strumento denominato "Piano di bacino", che costituisce un vero e proprio piano di area vasta, che si colloca gerarchicamente al di sopra degli altri strumenti di pianificazione ambientale (anche paesaggistica), ma non può sostituirsi agli strumenti urbanistici dando a questi direttive generali inerenti l'assetto del territorio. Non costituisce pertanto piano urbanistico vero e proprio;
la definizione di "Programmi di intervento" come strumenti di attuazione triennale del Piano di bacino.
Successivamente alla legge n. 183/1989 sono emanate altre due leggi importanti in materia di acque (manca invece tuttora un testo unico, di cui appare sempre più sentita l'esigenza):
la L. 5 gennaio 1994, n. 36 (nota come legge Galli), recanti "Disposizioni in materia di risorse idriche";
la L. 5 gennaio 1994, n. 37, recante "Norme per la tutela ambientale delle aree demaniali dei fiumi, di torrenti, dei laghi e delle altre acque pubbliche".
In precedenza con la L. 28 agosto 1989, n. 305 era stato approvato il primo programma triennale dell'azione pubblica per la tutela dell'ambiente.
Altra legge organica, relativa alla protezione della natura, è la L. 6 dicembre 1991, n. 394 (legge quadro sulle aree protette).
Tale legge interviene con notevole ritardo quando in materia si è già formata una copiosa legislazione regionale, su cui va ad incidere.
La legge definisce la seguenti categorie di aree protette: parchi nazionali, parchi naturali regionali, riserve naturali, aree marine protette.
Per ogni parco nazionale o regionale deve essere istituito un ente parco, cui è affidata la pianificazione e la gestione dei territori del parco.
La legge istituisce, sette nuovi parchi nazionali, che diventano così complessivamente n. 18 coprendo il 3,6% del territorio nazionale.
Per ogni parco nazionale è prevista l'istituzione di un Ente-parco, dotato di personalità giuridica di diritto pubblico.
Gli strumenti di pianificazione dei parchi nazionali sono:
il regolamento del parco che disciplina l'esercizio delle attività consentite nel territorio del parco, ossia le modalità e tipologie dei manufatti ed opere da costruire, le modalità di svolgimento delle attività produttive e quelle di fruizione collettiva;
il piano territoriale del parco, con il quale va, di norma, suddiviso il territorio del parco, a seconda del diverso grado di protezione, nelle seguenti quattro zone:
a) riserva integrale;
b) riserva generale orientata;
c) aree di protezione;
d) aree di promozione economica e sociale.
Con quest'ultima zona la legge mira a superare la concezione meramente conservatrice e protezionistica che ha spesso ingenerato resistenze e posizioni di conflitto e contrasto da parte delle popolazioni del parco e non di rado anche da parte delle istituzioni rappresentative locali.
Il piano del parco è un vero e proprio strumento urbanistico, che sostituisce ogni altro tipo di piano urbanistico o strumento di pianificazione; nonché i piani paesistici. Ha effetto di dichiarazione di pubblico generale interesse e di urgenza e indifferibilità per gli interventi in esso previsti.
Gli anni 1990 iniziano con due leggi di riforma di grande rilievo:
v la L. 8 giugno 1990, n. 142, nota come legge di riforma degli enti locali, che detta nuovi principi dell'ordinamento dei comuni e province, determinandone anche le funzioni;
v la L. 7 agosto 1990, n. 241 (c.d. legge Bassanini), che detta nuove norme in materia di procedimento amministrativo.
Pur concernendo le leggi anzidette prevalentemente aspetti istituzionali, non di meno hanno grande importanza anche per il diritto urbanistico.
Fino alla legge n. 142 l'ordinamento degli enti locali era ancora regolato dal regolamento del 1911 e dai testi unici del 1915 e del 1934. La legge 142,in ottemperanza dell'art. 128 Cost., contiene le disposizioni di principio sulle quali avviare la trasformazione del sistema delle autonomie.
Si afferma nell'art. 3 comma, 1, della legge che ". ferme restando le funzioni che attengono ad esigenze di carattere unitario nei rispettivi territori, le regioni, organizzano l'esercizio delle funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province". Contiene questa affermazione in nuce già il principio di sussidiarietà, che sarà poi normato dalla legge n. 59/1997 e costituzionalizzato conla legge Costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3.
L'art. 2, comma 3, definisce la provincia espressamene "ente intermedio fra comune e regione", con il compito di curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità provinciale. Si risolve così una annosa questione, seppellendo (ma in realtà si era già sepolto da solo) quell'ampio dibattito che si era articolato intorno ai comprensori e all'idea comprensoriale.
L'art. 9 della legge attribuisce direttamente ai comuni tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale precipuamente, tra l'altro, nel settore organico dell'assetto e dell'utilizzazione del territorio.
Introduce, ed è questo l'aspetto urbanisticamente importante, un nuovo piano: il piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP), attribuendo per la prima volta poteri urbanistici alle province.
L'art. 15 della legge indica quali contenuti del PTCP:
a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti;
b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione;
c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque;
d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali.
Con la legge regionale dovranno essere definite le procedure di approvazione del PTCP, nonché le norme che assicurino il concorso dei comuni alla sua formazione.
La provincia ha il compito di accertare la compatibilità degli strumenti di pianificazione territoriale predisposti dai comuni con le previsioni del PTCP, cui devono conformarsi, nell'esercizio delle rispettive competenze, gli enti e le amministrazioni pubbliche.
Il PTCP si presenta come un piano di direttive di area vasta, con una forte connotazione e rilevanza ambientale.
Altre innovazioni di valenza urbanistica presenti nella legge n. 142 sono:
a) la previsione delle Aree metropolitane. L'articolo 17 della legge 142 individua come aree metropolitane "le zone comprendenti i comuni di: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e gli altri comuni i cui insediamenti abbiano con essi rapporti di stretta integrazione in ordine alle attività economiche ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali. Per queste aree viene introdotto un regime speciale".
Nell'area metropolitana sono previsti due livelli di governo:
la città metropolitana, come autorità di area vasta prevista dal governo dell'intera area metropolitana;
i comuni siti all'interno di questa.
L'attribuzione di funzioni alla città metropolitana è disposta con legge regionale, la quale conferisce alla stessa, oltre alle funzioni di competenza provinciale, anche le funzioni affidate ai comuni, quando hanno normalmente carattere sovra-comunale o debbono essere svolte, per ragioni di efficienza ed economicità, in forma coordinata nell'ambito tra l'altro delle seguenti materie:
pianificazione territoriale dell'area metropolitana;
tutela e valorizzazione dei beni culturali e dell'ambiente;
difesa del suolo, tutela idrogeologica, tutela e valorizzazione delle risorse idriche, smaltimento dei rifiuti.
È da osservare che delle nuove aree metropolitana, la cui istituzione era obbligatoria, in pratica non ne è stata istituita nessuna, e ciò per forti opposizioni a livello locale e regionale.
Con la legge n. 436 del 1993 l'istituzione delle aree metropolitane viene prevista come facoltativa.
b) Va ricordato che il capo IX della legge, relativo alle Comunità Montane, ha sottratto a queste la possibilità di approvare piani urbanistici, lasciando alle medesime solo la facoltà di concorrere, attraverso le indicazioni del piano pluriennale di sviluppo, alla formazione del piano territoriale di coordinamento provinciale.
c) La legge n. 142 disciplina infine una serie di istituti che, pur non avendo diretta valenza urbanistica, possono essere da questa utilizzati per integrare, arricchire, far partecipare alla pianificazione territoriale: si indicano al riguardo le disposizioni in materia di istituti di partecipazione (capo III); di forme associative e accordi di programma (capo VIII) ed altre.
La legge n. 241 del 1990 non contiene norme aventi contenuto urbanistico. Tuttavia essendo l'urbanistica "attività amministrativa" ed essendo la legge n. 241 una legge che disciplina il procedimento e l'attività amministrativa, le sue disposizioni non possono non avere ripercussioni anche sulla disciplina urbanistica.
Agli inizi degli anni novanta le statistiche dell'ONU, mentre collocavano l'Italia al quinto o sesto posto tra le potenze industriali, le attribuivano una posizione al di sopra del cinquantesimo posto per quanto atteneva alle prestazioni del settore pubblico.
Tra le numerose disposizioni, aventi riflessi anche per la disciplina urbanistica, va segnalato l'istituto della conferenza dei servizi, che disciplinato dall'art. 14 della legge n. 241/90 e più volte modificato e integrato da leggi successive, troverà ampio utilizzo in materia urbanistica e edilizia. Ad esso faranno ampio rinvio e riferimento numerose disposizioni, che saranno emanate in prosieguo, ai fini di semplificazione e soprattutto di accelerazione di atti e procedimenti edilizi urbanistici.
CAPITOLO VI
DAGLI
ANNI 90 AI GIORNI NOSTRI
Le nuove tendenze della pianificazione urbanistica che si concretizzano in una maggiore disponibilità a negoziare le scelte urbanistiche con la proprietà privata, si rafforzano notevolmente negli anni novanta e nei primi anni del nuovo secolo (rectius millennio).
Si assiste ad una recessione della pianificazione urbanistica intesa come attività autoritativa a favore di una nuova concezione che privilegia decisamente il consenso, la ricerca dell'accordo con il privato, tant'è che si parla comunemente di "urbanistica consensuale", espressione che sembra turbare di meno di quella di "urbanistica contrattata": ma la sostanza è la stessa.
Molteplici sono le cause del rafforzarsi di questa tendenza. Né enumereremo alcune:
alla base vi è la crisi del piano regolatore generale, per i suoi tempi lunghi di redazione (tra inizio dell'iter di formazione e sua approvazione difficilmente si scende sotto i sette anni) e per la sua estrema rigidità;
si pone inoltre l'esigenza di evitare alla P.A. i costi eccessivi e non sostenibili, inerenti alla realizzazione delle opere di urbanizzazione e dei relativi espropri. In relazione a tale esigenza vengono adottati piani regolatori che tendono a privilegiare gli aspetti perequativi (cessioni di cubatura in cambio di aree, ricorso ai ti edificatori). La sentenza n. 179/1999 della Corte Costituzionale, che pone le premesse per l'indennizzabilità dei vincoli scaduti e reiterati, dà una ulteriore spallata al PRG, di cui le localizzazioni (e conseguenti vincoli) costituiscono un contenuto essenziale;
non può neppure essere trascurato l'evolversi della normazione, che pur continuando ad affermare il carattere globalizzante del PRG, ne mina le fondamenta, con la previsione di una serie di sovrapposizioni e meccanismi di variante al medesimo (le c.d. varianti atipiche), dando luogo a teorizzazioni sulla c.d. pianificazione continua;
muta anche il quadro obiettivo dei bisogni, in conseguenza del decremento dell'indice demografico e della notevole consistenza del patrimonio edilizio, che non sembra più rendere possibile una politica urbanistica "estensiva", ma semmai una politica di riqualificazione del tessuto esistente (riqualificazione urbana, recupero delle periferie, riconversione delle aree industriali).
Non è forse un caso che molte delle disposizioni urbanistico-edilizie più rilevanti di questo periodo trovano spazio in leggi finanziare. Si indicano:
Art. 39 della L. 23 dicembre 1994, n. 724, relativo alla definizione agevolata delle violazioni edilizie (c.d. 2° condono edilizio);
Art. 1, comma 65, della L. 28 dicembre 1995, n. 549, con cui i criteri indennitari dettati dall'art. 5-bis della legge n. 359/1992 e sui quali si è pronunciata favorevolmente la Corte Costituzionale con le sentenze n. 391/1995 e n. 410/1995, vengono estesi anche al risarcimento dovuto per i casi in cui si sia verificata l'"accessione invertita", equiparando l'esproprio per atti legittimi a quello attuato con comportamenti illegittimi. Disposizione che viene ripetuta con il comma 65 dell'art. 3 della L. 662/1996, aumentando il quantum dovuto del 10% a seguito della sentenza di illegittimità pronunciata dalla Corte Costituzionale n. 369/1996 sulla disposizione precedente;
Art. 3, commi da 75 a 81, sempre della legge n. 549/1995, con i quali si prevede la conversione delle aree comprese nei PEEP da concessione in diritto di superficie a cessione in diritto di proprietà, disposizione poi estesa con il comma 64 dell'art. 3 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 anche ai piani per gli insediamento produttivi (PIP), affievolendo così notevolmente la portata di alcune disposizioni, che intendevano ricondurre il governo delle aree alla mano pubblica;
L'art. 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 che:
ai commi 37-59 contiene nuove disposizioni in materia di sanatoria e di regolarizzazione degli abusi edilizi;
al comma 60 nuove e più semplificate procedure per il rilascio delle concessioni edilizie (a seguito di una serie infinita di decreti-legge decaduti e di volta in volta iterati, che provocarono la sentenza n. 360 del 24 ottobre 1996, con la quale la Corte Costituzionale dichiarò l'illegittimità per contrasto con l'art. 77 della Costituzione, della prassi di reiterare i decreti-legge decaduti);
ai commi 63-79 contiene disposizioni per l'edilizia residenziale pubblica, con la disciplina dei programmi di riqualificazione urbana, per l'integrazione sociale e sperimentale;
ai commi 203-215 contiene infine la disciplina degli strumenti di programmazione negoziata;
L'art. 3 sempre della legge 662/1996, ai commi 60-63 contiene una nuova disciplina per l'assegnazione delle aree destinate all'ERP.
Ma ovviamente se l'aspetto finanziario è rilevante ed è stato influente anche per la modifica o l'introduzione di nuove disposizioni di contenuto urbanistico edilizio, non può neppure essere sopravvalutato.
Esso fa parte indubbiamente di un diverso "clima" e modo di intendere l'amministrazione, che presenta anche aspetti positivi.
Due sono le tendenze che si vanno manifestando nel dibattito culturale in atto nel periodo, in considerazione. Da una parte (è prevalentemente la cultura degli urbanisti) che si ritiene tuttora importante il ruolo della pianificazione e del PRG e si ravvisano nell'"urbanistica contrattata" grossi rischi per il territorio e per gli assetti urbanistici, pur ovviamente non trascurando le critiche e pur vedendo i limiti di questa pianificazione, che deve essere razionalizzata ma non soppressa.
Altra parte della dottrina (è prevalentemente la cultura giuridica) non ritiene di dover aprioristicamente negare importanza e valore positivo agli strumenti contrattuali per l'esercizio delle funzioni amministrative e quindi anche di quelle pianificatorie.
Vedremo come queste due tendenze trovino o possano trovare un punto di conciliazione. In tal senso è lo sviluppo della più recente legislazione regionale.
Sintomatica esemplificazione del dibattito in corso può essere ravvisata nei nuovi strumenti, introdotti dalle recenti normative, che vengono di norma accomunati sotto l'indicazione di programmi complessi di intervento.
Sono questi costituiti dai:
programmi integrati, disciplinati dall'art. 16 della legge 179/92. la loro disciplina è rimasta monca dopo la sentenza della Corte Costituzionale cha ha dichiarato l'illegittimità dei commi 3 e 7 dell'art. 16, per l'invasione della potestà legislativa regionale (sent. n. 393 del 7-l9 ottobre 1992);
programmi di riqualificazione urbana, di cui all'art. 2, comma 2, della legge 179/1992, costituenti programmi di carattere straordinario, che danno possibilità di accedere a finanziamenti statali attraverso bandi pubblici;
programmi di recupero urbano, previsti dall'art. 11 della legge 493 del 1993.
I programmi di riqualificazione urbana ed i programmi di recupero urbano, hanno poi trovato compiuta disciplina, circa modalità e criteri di accesso ai finanziamenti, finalità, soggetti attuatori, contenuti dei programmi, elaborati dei programmi medesimi, ecc., rispettivamente con il decreto ministeriale del 21 dicembre e con due decreti del 1 dicembre 1994;
interventi di trasformazione urbana, disciplinati dall'art. 17, comma 59, legge n. 127/1997, e relativi a interventi di particolare complessità, realizzabili mediante anche il ricorso alla formazione di società di trasformazione urbana (le c.d. STU);
altre forme di intervento e similari strumenti sono altresì previsti da altre disposizioni di legge; si citano tra questi i PRUST (D.M. 28 maggio 1999) e i contratti di quartiere (DDMM 22 ottobre 1997, 30 ottobre 1997 e 20 maggio 1998).
La logica che sottintende ai programmi complessi d'intervento è quella di disporre di strumenti che possano incidere su parti di territorio caratterizzate da situazioni di degrado, ai fini della loro riqualificazione
Gli strumenti indicati, al di là del diverso nome ed anche di alcune evidenti connotazioni ed elementi di differenziazione, rispondono ad una sostanziale logica comune.
La definizione che l'art. 16 dà al programma integrato - ma la nozione può essere estesa anche ad altri istituti - è quella di un programma teso alla riqualificazione del tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale, "caratterizzato dalla pluralità di funzioni e di destinazioni d'uso, dall'integrazione di diverse tipologie di intervento - incluse le opere di urbanizzazione - nonché della compresenza di proprietà pubblica e privata, di più operatori pubblici e privati, di finanziamenti pubblici e di risorse private".
Il concorso di più operatori e risorse finanziarie pubbliche e private costituisce uno degli aspetti più significativi e caratterizzanti dei programmi complessi di intervento.
Tutti i vari elementi che caratterizzano i programmi complessi sembrano, anzi, in una qualche misura, predisposti a favorire e/o invogliare il coinvolgimento dei privati, i quali, autonomamente, possono avanzare proposte.
Evidente è la finalità di agire con un effetto moltiplicatore rispetto alle possibilità attivabili con i soli mezzi finanziari pubblici a disposizione, e, nel contempo, di realizzare e riqualificare complessi edilizi-urbanistici in un tessuto urbano che non si presenti disarticolato ed incoerente, ma abbia una pluralità di funzioni e di tipologie che ne permettano una maggiore fruibilità e vivibilità.
Ci si è domandato se questi strumenti, che si pongono a metà strada tra piano urbanistico e progetto edilizio, siano da ritenere procedure congiunturali ed ulteriori manifestazioni della deregulation o possano servire ad attuare una buona e flessibile politica del piano.
In contrasto con la cultura degli urbanisti, tendenzialmente contraria a questi istituti, vi è la cultura di chi ritiene come sia difficile immaginare che si possa continuare a gestire il territorio con i "vecchi" strumenti di tipo autoritativo.
La logica delle grandi zone di espansione, la logica dei grandi PEEP, è da ritenersi non più perseguibile. E, ove si intervenga sulla "città costruita", non è pensabile di poter intervenire con la logica autoritativa dei vecchi piani regolatori generali, ma va cercato il consenso dei privati. La convergenza pubblico-privato diventa pertanto essenziale.
Questo - si sostiene - sta già accadendo in tutta l'azione amministrativa, basti pensare ai disposti dell'art. 11 della legge 241/1990 sul nuovo procedimento amministrativo, in cui la P.A. può concludere, per il perseguimento di interessi pubblici, accordi con il privato al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento e, persino, giungere alla sostituzione di questo.
Proprio nel campo urbanistico questi meccanismi di negoziazione sono del resto ben noti e collaudati - si pensi all'istituto della lottizzazione, all'istituto del to edificatorio, alle stesse "concessioni convenzionate" previste da molti strumenti urbanistici comunali.
La concertazione, quale momento per la composizione di differenti interessi e finalità, sta divenendo in questo momento storico aspetto sempre più pervasivo nell'azione amministrativa.
È da sottolineare come la "negoziazione"non si limiti a ricomprendere la convergenza pubblico-privato, ma interessi anche la sfera di rapporti tra enti pubblici, che si accordano per coordinare i propri interventi ed i propri interessi. Nei processi negoziali, ovviamente, acquista fondamentale importanza l'aspetto della trasparenza, che deve essere presente in tutti i passaggi rilevanti.
Il clima di liberalizzazione, di deregulation, di semplificazione che pervade tutti i settori della più recente legislazione (basti per tutte il riferimento alle leggi 15 maggio 1997, n. 127, del 16 giugno 1998, n. 191 e 8 marzo 1999, n. 50) si riflette ovviamente sulla pianificazione urbanistica della quale si sostiene la scarsa democraticità, la natura prevalentemente vincolistica, la impossibilità di pianificare le attività economiche, che rispondono a logiche di immediatezza. Si afferma anzi che sono le scelte economiche a condizionare, se non a determinare gli assetti territoriali.
L'introduzione dei patti territoriali e degli strumenti in genere della programmazione negoziata altro non sono se non il prevalere o comunque il porsi in evidenza degli aspetti economici su quelli urbanistici.
La legge 25 marzo 1993, n. 81 con l'elezione diretta del sindaco sulla base di un programma da lui presentato (e di cui inevitabilmente la proposta urbanistica costituisce parte rilevante) ed avallato dal voto degli elettori, costituisce un patto che condiziona la successiva attività dell'amministrazione comunale.
Qualsiasi altra attività economica richiede una forte flessibilità per adeguarsi ad obiettivi frequentemente mutevoli. Tali esigenze mal si conciliano con una pianificazione vincolistica e rigida.
Nel contempo si manifestano con forza altre esigenze, che abbiano già ricordato, collegate alla salvaguardia delle risorse del territorio (acqua, mare, atmosfera); esigenze che vengono accomunate sotto l'indicazione di "sviluppo sostenibile".
Acquistano sempre più importanza le legislazioni di settore, la tutela di "interessi differenziati", le c.d. tutele parallele, con i loro standard di qualità, i piani settoriali ecc.
Si vanno conseguentemente manifestando ancora elementi di contraddittorietà. Le scelte economiche hanno bisogno di tempi brevi, mentre invece la tutela dell'ambiente risponde (e forse anche più delle esigenze urbanistiche) a tempi lunghi, a scelte di lungo periodo.
La legislazione regionale coglie e cerca di conciliare questi aspetti, introducendo un nuovo modello di pianificazione: il piano strutturale.
Con alcune loro leggi, le regioni (la Toscana per prima nel 1997, seguita dall'Umbra e dalla Liguria nel 1999, dall'Emilia-Romagna nel 2000) conurano il PRG diversamente, distinguendo in questo un piano strutturale ed un piano operativo.
Il piano strutturale ha essenzialmente il compito di:
individuare le c.d. invarianti (ossia le parti del territorio da preservare); e
indicare le aree destinate a trasformazioni, ma senza precisare per queste localizzazioni, ma solo linee guida di indirizzo (finalità, obiettivi, strategie), la cui concretizzazione è rimessa alla pianificazione operativa, di durata normalmente quinquennale, qual è la durata di non indennizzabilità dei vincoli urbanistici.
E così la L.R. Toscana 16 gennaio 1995, n. 5, la prima ad
essere emanata e che ha costituito lo schema di riferimento per le
successive legislazioni regionali, che su questa si sono basate, anche se
con marcate differenziazioni, stabilisce che il PRG è un documento
composito, costituito dal "complesso degli atti di pianificazione
territoriale con il quale il comune disciplina l'utilizzazione e la
trasformazione del territorio comunale e delle relative risorse". Esso si compone di: un piano strutturale; un regolamento urbanistico; un
programma integrato di intervento (questo ultimo facoltativo,
assimilabile per le sue caratteristiche al c.d. piano del sindaco, in
quanto prevede le trasformazioni da effettuare nel periodo corrispondente
alla durata del mandato amministrativo del medesimo).
A ben vedere la più recente legislazione regionale riprende contenuti ed indicazioni già presenti nella legge urbanistica del 1942, che anche per questi versi dimostra di essere stata una legge fortemente innovativa, il cui principale difetto è stato semmai quello di non essere attuata.
Nella concezione originaria della legge n. 1150 infatti il PRG non creava vincoli a carico del proprietario all'infuori dell'obbligo di osservare le linee e le norme di zonizzazione.
"Ad esso si dà carattere di durata illimitata come è
richiesto dalla sua funzione ed estensione. Solamente i piani particolareggiati sono qui considerati come
di pronta attuazione e con efficacia da costituire vincoli veri e propri di
espropriazione sulle proprietà in essi compresi" (come
testualmente si legge nella relazione Di Crollalanza di presentazione al
Consiglio dei Ministri del p.d.l. del 1933, da cui sarebbe successivamente
derivata la legge urbanistica". Scrive in proposito Per Giorgio MASSARETTI,
Dalla "regolamentazione" alla "regola". Sondaggio storico-giuridico
sull'origine della legge generale urbanistica del 17 agosto 1942, n. 1150: "Risarcendo la "1150" di quella illuminata distinzione
tra piano "direttore (il PRG) e il piano di intervento (il PPE) e che solo
nella corrente ordinarietà della delega regionale ha subito un impropria
sovrapposizione, la proposta di riforma (peraltro mai attuata, ma di cui ha
fatto tesoro la legislazione regionale citata) "rilancia la convergente
autonomia tra "Piano comunale strutturale"(piano di programma che, come già
sottolineava V. Testa parlando del piano regolatore di sessanta anni fa,
favorisce previsioni strutturali e non direttamente vincolanti) e il "Piano
Comunale Operativo", solo questo (esattamente come il PPE progettato negli
anni trenta e istituzionalizzato nel 1942), direttamente esecutivo per i
vincoli e le opere pubbliche, per le destinazioni private, per i programmi
di esproprio".
Gli ultimi anni del secolo, come visto, sono stati caratterizzati da un dibattito, diretto alla semplificazione e delegificazione, che ha investito complessivamente tutta la legislazione.
In questo ambito l"urbanistica" è stata interessata soprattutto dalla legislazione regionale più attenta, che ha colto il clima complessivo esistente e pur, in carenza di una legislazione nazionale quadro o melius di una legge urbanistica generale, si è mossa approvando alcune leggi generali, che anticipano quelle che si ritiene potranno essere le linee portanti di una legge organica nazionale.
A livello nazionale più che provvedimenti rilevanti di carattere urbanistico, si è assistito all'emanazione di leggi settoriali, prevalentemente di carattere ambientale, che vanno a inserirsi, nelle ultime accezioni di piani urbanistici (piani strutturali), come "invarianti".
Si è assistito ad un complesso di azioni di notevole interesse, che meritano di essere, seppur sinteticamente, prese in considerazione.
Si fa un particolare riferimento:
a) alla revisione e semplificazione dei titoli abilitativi in materia di edilizia;
b) alla legislazione di riforma della pubblica amministrazione ed alla riallocazione, dei poteri tra i diversi livelli di governo, sulla base, ma non solo, del principio di sussidiarietà. L'ultimo approdo è stata la legge costituzionale n. 3 del 2001; e
c) infine, in questi ultimi anni, all'emanazione di testi unici, che riguardano da vicino l'argomento trattato.
Sul punto a) è da rilevare che la normativa che disciplina il rilascio delle concessioni edilizie ha avuto, nel corso degli anni novanta, numerose riscritture, a partire dal D.L. 8 aprile 1993, n. 101, recante "Misure urgenti per l'accelerazione degli investimenti ed il sostegno dell'occupazione", il cui art. 5 ha esteso l'istituto del silenzio-assenso (o silenzio-accoglimento) a tutte le domande di concessione edilizia, dettando una puntuale disciplina, sia in ordine alle condizioni che devono essere presente per la formazione del silenzio-assenso, che sulla procedura per il rilascio della concessione edilizia, basata su una maggiore responsabilizzazione degli uffici e sulla fissazione di termini precisi per la conclusione del procedimento. È bene infatti segnalare, che nella normativa, pur nella previsione del silenzio-assenso, resta perdurante la centralità del provvedimento esplicito.
Il decreto-legge è stato iterato per tre volte prima di ottenere con la L. 4 dicembre 1993, n. 493 la auspicata conversione, peraltro con una nuova procedura che escludeva il silenzio-assenso.
Il decreto-legge 26 luglio 1994, n. 468 ha ridisciplinato nuovamente, a distanza di poco più di sei mesi, il procedimento di rilascio della concessione, introducendo nuovamente l'istituto del silenzio-assenso; istituto che se nuovamente con il D.L. 27 marzo 1995, n. 88, che ripristina il procedimento previsto dalla legge n. 493/1993.
Con il D.L. n. 88/1995 viene peraltro introdotto per un'ampia categoria di opere, in attuazione di principi posti dalla legge n. 241/1990, l'istituto della "denuncia di inizio attività" (DIA), eliminando l'istituto dell'autorizzazione, che era stato introdotto dall'art. 38 della L. 5 agosto 1978, n. 457.
Con il D.L. n. 468 ha inizio una incredibile numerosa serie di decreti-legge mai convertiti e sempre iterati con notevoli modificazioni, prima di pervenire con la legge n. 662 del 1996, già ricordata, alla conversione. La legge n. 662 ribadisce le norme procedurali in materia di rilascio della concessione edilizia, ed inserisce alcune modifiche nel procedimento di denuncia di inizio attività, che viene affiancato al regime autorizzatorio (ripristinato), determinando una criticabile sovrapposizione.
Si è assistito nel periodo in questione come risulta da queste succinte indicazioni, a una vicenda paradossale che ha costretto gli uffici comunali a modificare di continuo le procedure, con la conseguenza di provocare confusione e ritardi, anziché determinare quegli snellimenti e velocizzazioni che erano nei voti.
Tale andamento schizofrenico, pur seguito nell'ambito di un dichiarato intento di semplificare fu paragonato (CLARICH - Sole 24 ore del 5/4/1995) a "una specie di fiume carsico che affiora a tratti per poi sprofondare negli abissi dell'irresponsabilità". Come dargli torto!
Infine in materia è intervenuto il testo unico in materia edilizia (dPR 6 giugno 2001, n. 380), contenente i principi fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell'attività edilizia; testo unico che introduce meccanismi di ulteriore semplificazione, ampliando le ipotesi soggette alla sola denuncia di inizio attività (DIA) e prevedendo l'obbligo per i comuni di costituire, anche mediante esercizio in forma associata, lo Sportello unico per l'edilizia.
Viene altresì sostituita la denominazione di concessione edilizia, con quello di permesso a costruire, in modo che anche nominalmente sia evidente la sua diversa natura giuridica rispetto all'istituto della concessione.
Il testo unico sarebbe dovuto entrare in vigore con
il 1° gennaio 2002, ma il termine della sua entrata in vigore è stato
prorogato al 30 giugno 2002, con l'art. 5-bis L. 31 dicembre 2001, n.
463, di conversione del D.L. 23 novembre 2001, n. 411 ed ancora
prorogato al 30 giugno 2003 con
la L. 1° agosto 2002 n. 185, di conversione con modifiche del D.L. 20
giugno 2002, n. 122. In effetti il T.U., alla data del 1° gennaio 2002, è
entrato in vigore e lo è stato per 10 giorni, essendo stata la legge di
conversione, che ha introdotto la proroga, pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale del 9 gennaio 2002. Conseguentemente le norme, ora applicabili in
virtù della disposta proroga, per 10 giorni non sono esistite per la loro
avvenuta espressa abrogazione.
Quasi contemporaneamente (altra confusione) è stata emanata la L. 21 dicembre 2001, n. 443 con la quale il Governo viene delegato (art. 1, comma 14) ad emanare, entro il 31 dicembre 2002 (ben oltre quindi il termine del 30 giugno) un decreto legislativo, volto ad introdurre nel testo unico anzidetto le modifiche strettamente necessarie per adeguarlo alle disposizioni di cui ai commi da 6 a 13 dello stesso art. 1. Disposizioni, tra l'altro che richiamano e fanno riferimento a norme di cui il T.U. dispone espressamente l'abrogazione, e che sono oltre tutto rilevanti, prevedendo, tra l'altro, sia pure in alternativa a concessioni (sic) e autorizzazioni una sensibile estensione dell'ambito degli interventi, realizzabili con la semplice denuncia di inizio attività (DIA).
La stessa L. 21 dicembre 2001, n. 443, recante "Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive", oltre alle norme sopra citate, contiene tra l'altro disposizioni speciali, aventi la finalità di consentire, con procedure semplificate e accelerate, la realizzazione delle opere strategiche per la modernizzazione e lo sviluppo del paese. In base ai principi e criteri direttivi, posti da queste disposizioni, il Governo è delegato a legiferare, riformando le procedure della valutazione di impatto ambientale (VIA) e introducendo un regime speciale derogatorio alla normativa sui lavori pubblici.
Finalità della legge
(c.d. "legge obiettivo") è quella di consentire la realizzazione di una
serie notevole di opere pubbliche considerate strategiche per il rilancio
produttivo del paese, da finanziare in parte mediante il ricorso al project-financing
e con iter realizzativo accelerato e derogatorio rispetto alle procedure
ordinarie. Il primo programma delle
infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale è stato
approvato con deliberazione CIPE del 21 dicembre 2001 (stessa data
della promulgazione della legge). Forti sono state le
critiche della cultura ambientalistica in ordine alla legge de qua. Afferma
al riguardo il WWF, in un proprio rapporto che: "Questo significa ipotecare
la valenza tecnica delle procedura Via, espropriare dei loro poteri i
ministeri dell'Ambiente e dei Beni Culturali, esautorando gli enti locali
che non potranno nemmeno entrare nel merito degli aspetti urbanistici". Sulla stessa linea di
semplificazione e di deroga delle ordinarie procedure, con sostanziale
esautoramento dei poteri degli enti locali si colloca del resto anche la
recentissima L. 9 aprile 2002, n. 55, di conversione del D.L. 7
febbraio 2002, n. 7,in base alla quale la costruzione o ripotenziamento e
l'esercizio degli impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300
MW tecnici sono sottoposti ad autorizzazione unica, da rilasciare a seguito
di un procedimento unico, al quale partecipano le Amministrazioni statali e
locali e che prevede l'esito positivo della VIA e l'obbligatoria richiesta
di parere motivato del comune e della provincia nel cui territorio ricadono
le opere. "Ovviamente" il rilascio dell'autorizzazione costituisce, ove le
opere comportino variazioni degli strumenti urbanistici e del piano
regolatore portuale, variante urbanistica.
Notevole importanza ha avuto nel periodo l'emanazione di leggi che hanno provveduto ad una ripartizione e riallocazione delle competenze e funzioni amministrative ( e tra queste, quindi, di quelle urbanistiche) tra Stato, regioni ed enti locali.
Collegate a queste vi sono le disposizioni normative che hanno riguardato la riforma dell'organizzazione della Pubblica Amministrazione.
Con la L. 15 marzo 1997, n. 59 (c.d. Bassanini 1) è stata conferita delega al Governo, in un più ampio generale contesto di riforma della P.A. e di semplificazione amministrativa, per il conferimento di funzioni e compiti amministrativi alle regioni ed agli enti locali.
In attuazione della delega è stato emanato il D.lgs 31 marzo 1998, n. 122, successivamente modificato ed integrato dal D.lgs 29 ottobre 1999, n. 442.
In particolare la Sez. II del Titolo III del D.lgs n. 112, relativa a "Urbanistica, pianificazione territoriale e bellezze naturali", definisce ed elenca le funzioni mantenute allo Stato e disponendo che "Sono conferite alle regioni ed agli enti locali .. Tutte le funzioni amministrative non espressamente mantenute allo Stato".
La stessa legge n. 59/1997 (art. 20, come modificato dalla L. 16 giugno 1998, n. 191) prevede che il Governo presenti ogni anno (entro il 31 gennaio) un disegno di legge di delegificazione e semplificazione dei procedimenti amministrativi, da perseguire mediante appositi regolamenti di semplificazione, che devono conformarsi a criteri e principi, che la legge n. 59 indica.
Lo stesso art. 20, comma 8, della legge 59, in sede di prima attuazione, ha previsto l'emanazione di regolamenti per la semplificazione di numerosi procedimenti tra cui si indicano, in quanto concernenti la materia urbanistica, quelli previsti in materia di:
espropriazione per causa di pubblica utilità;
autorizzazione per la realizzazione di nuovi impianti produttivi;
esecuzione di opere interne;
rilascio delle concessioni edilizie;
rilascio del certificato di agibilità;
ed altri.
La legge 8 marzo 1999, n. 50 (la prima legge annuale di semplificazione ad essere emanata), ha elencato ulteriori procedimenti di semplificare; di cui si segnalano, sempre in materia urbanistica, quelli in materia di:
assoggettamento a vincolo di beni artistici, architettonici e culturali e rilascio delle relative autorizzazioni;
assoggettamene a vincolo di bellezze naturali e rilascio delle relative autorizzazioni.
Sempre la legge n. 50/1999 (art. 7) ha autorizzato il Governo ad emanare entro il 31 dicembre 2001 testi unici, contenenti, in unico contesto e con le opportune evidenziazioni, sia disposizioni legislative che regolamentari, al fine di riordinare le normative, relative a:
ambiente e tutela del territorio;
urbanistica ed espropriazioni.
In base a tale ultima disposizione sono stati emanati i seguenti testi unici:
dPR 6 giugno 2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia);
dPR 8 giugno 2001, n. 327 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità).
In precedenza, in base alla delega contenuta nella L. 8 ottobre 1997, n. 352, era stato approvato il D.lgs 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali).
Pochi sono stati invece i regolamenti di semplificazione, emanati in attuazione della legge n. 59/1997 e delle successive leggi annuali di semplificazione n. 50/1999 e 24 novembre 2000, n. 340.
Tra questi si segnala, in quanto direttamente interessante la materia urbanistica il dPR 20 ottobre 1998, n. 447, recante "Norme di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l'ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione di impianti produttivi, per l'esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché per la determinazione delle aree destinate agli insediamenti produttivi".
Nell'anno 1999 l'organizzazione del Governo, a seguito anche del trasferimento di funzioni e compiti amministrativi statali alle regioni ed agli enti locali, è stata oggetto di una notevole riforma, rispettivamente con il D.lgs 30 luglio 1999, n. 303, relativo all'Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri e, soprattutto (per quanto ci interessa) con il D.lgs 30 luglio 1999, n. 300, recante "Riforma dell'organizzazione del Governo, a norma dell'art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59". Con tale ultimo decreto in particolare sono state stabilite norme di razionalizzazione, riordino, soppressione e fusione di ministeri, istituzione di agenzie e riordino dell'amministrazione periferica dello Stato.
In base a tale D.lgs, successivamente modificato con D.L. 12 giugno 2001, n. 217, convertito nella L. 3 agosto 2001, n. 317, a seguito di accorpamenti, i Ministeri vengono ridotti da n. 18 a n. 12, con soppressione di dodici ministeri precedenti e l'istituzione di sei nuovi.
I ministeri che principalmente hanno attribuzioni e competenze nella materia urbanistica sono:
il Ministero dell'ambiente e del territorio, di nuova istituzione, cui sono assegnate le funzioni svolte dal precedente Ministero dell'ambiente, nonché parte delle funzioni di pertinenza dell'ex Ministero dei lavori pubblici e del Ministero delle politiche agricole (in materia di polizia forestale e ambientale) nonché quelle del Dipartimento delle aree urbane. L'organizzazione del Ministero viene disciplinata con dPR 27 marzo 2001, n. 178;
il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di nuova istituzione, derivante dall'accorpamento del Ministero dei lavori pubblici e di quello dei trasporti e della navigazione. Al Ministero anzidetto continuano a far capo importanti competenze urbanistiche, quali quelle relative alle trasformazioni urbane (programmi complessi d'intervento): all'abusivismo edilizio; all'edilizia residenziale pubblica. La sua organizzazione è disciplinata dal dPR 27 marzo 2001, n. 177;
il Ministero per i beni e le attività culturali; che viene istituito con D.lgs 20 ottobre 1998, n. 368 e disciplinato nella sua organizzazione con il regolamento approvato con dPR 29 dicembre 2000, n. 441, non subisce con la riforma modificazioni.
La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione" costituisce la più importante modifica (rectius riforma) costituzionale ad essere emanata dalla data di approvazione della Costituzione.
La sua promulgazione è avvenuta (essendo stata approvata in seconda votazione a maggioranza assoluta ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera), a seguito del favore le esito del referendum confermativo (il primo ad essere effettuato), svoltosi anche a richiesta della maggioranza politica (poi divenuta minoranza) che l'aveva votata, con l'evidente finalità di rafforzarne il valore.
Gli effetti della legge costituzione ancora non si sono pienamente manifestati; ma saranno notevoli e sconvolgenti, anche nei rapporti con l'ordinamento comunitario.
Le regioni divengono con la normativa di riforma titolari (l'ottica precedente viene ribaltata) di tutto ciò che non è attribuito direttamente allo Stato e che viene indicato in via tassativa.
Le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che per assicurare l'esercizio unitario, non debbano essere conferite a province, città metropolitane, regioni e stato in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza; principi che vengono così "costituzionalizzati".
L'art. 117 Cost. riformulato contiene due elencazioni di materie:
le materie in cui lo Stato ha la legislazione esclusiva (politica estera, difesa, immigrazione, legislazione elettorale, previdenza sociale, moneta tutela del risparmio e mercati finanziari, ordine pubblico e sicurezza ecc);
quelle in cui lo stato ha una competenza legislativa concorrente, ossia può determinare i principi fondamentali, come per il passato.
In ogni altra materia non compresa tra quelle di legislazione statale esclusiva o concorrente, è da ritenere che sia la regione ad avere una competenza esclusiva.
Se si esaminano le anzidette elencazioni si vede, che per quanto ci interessa tra le materie riservate esclusivamente alla legislazione statale vi è la "tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali"; tra quelle di legislazione concorrente invece urano: il "governo del territorio"; "valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali".
Non sarà di certo facile dipanare i rapporti tra Stato e regioni. Ad esempio la riserva statale relativa alla tutela dell'ambiente è di certo importante e potenzialmente può dare adito a conflittualità.
Il paesaggio non ura da nessuna parte. Pare difficile possa ritenersi materia di competenza esclusiva regionale. È più probabile che trattasi di materia che possa ricondursi per certi profili nella tutela dell'ambiente e per altri nel governo del territorio.
L'urbanistica ugualmente non trova alcun riferimento specifico nelle due elencazioni. È possibile che la "microurbanistica" (rectius edilizia) possa anche ritenersi rientrare nella competenza esclusiva regionale, mentre la "macrourbanistica" (si usano termini impropri, ma che concettualmente individuano la problematica) possa rientrare nel "governo del territorio".
La nozione di urbanistica, in carenza di una sua definizione e delimitazione specifica (la definizione omnicomprensiva contenuta nell'art. 80 del dPR n. 616/1977 si è rilevata di scarsa utilità) ha dato adito ad una copiosa giurisprudenza costituzionale, in ordine alla circostanza se nella stessa dovessero, ad esempio, ricondursi:
a) l'edilizia economica e popolare (essendo in questa presenti aspetti di servizio sociale, di credito ed anche urbanistici);
b) la tutela del paesaggio, su cui la Corte Costituzionale (sent. n. 359 del 1985), si è espressa per l'autonomia dall'urbanistica, per poi in gran parte a rifluire nella medesima in virtù di attribuzioni e di deleghe, contenute nei decreti di trasferimento.
c) Problemi si sono posti anche in ordine alla possibilità per la legislazione regionale di richiedere titoli abilitativi diversi, rispetto a quelli previsti dalla legislazione statale. Ciò infatti andrebbe a riflettersi sulla qualificazione dell'eventuale abuso, intervenendo sia pure indirettamente in materia penale che è materia notoriamente sottratta alla legislazione delle regioni.
Per il momento, nell'incertezza, è possibile anche che la situazione, su cui è indubitabile andrà a formarsi una giurisprudenza costituzionale, resti rebus sic stantibus nell'attuale situazione.
Come già ricordato, in questi ultimissimi anni sono stati emanati tre importantissimi Testi unici.
Di quello relativo all'edilizia (dPR n. 380/2001) si è già scritto.
Devesi
tuttavia osservare al riguardo e soprattutto dopo l'entrata in vigore della
legge costituzionale n. 3 del 2001, che un intervento legislativo statale,
tenuto anche conto che in argomento tutte le regioni hanno legiferato, appare
difficilmente conurabile con l'ampiezza e la minuziosità, presenti
nell'anzidetto testo unico. È
prevedibile ed anche auspicabile che il testo unico, prima che entri in
vigore, venga sostanzialmente rivisto e che, una buona volta il legislatore
dia il buon esempio. Ed anche qualora non intenda limitarsi a stabilire
solo i principi fondamentali, almeno esplicitamente indichi questi in modo
da dare regole precise al legislatore regionale, operazione quest'ultima
che, alla luce della recente riforma costituzionale, appare ancora più
importante, se non essenziale per il corretto funzionamento delle
istituzioni. Anche a ritenere, infatti, - come in
effetti si ritiene - che "l'edilizia" rientri a pieno titolo nel "governo
del territorio" (si pensi solo alle difficoltà che, in caso contrario, si
porrebbero in relazione agli aspetti sanzionatori, che sono strettamente
correlati alle tipologie dei titoli abilitativi edilizi), si deve
evidenziare come i principi fondamentali che possono enuclearsi al riguardo
sono invero pochissimi.
Il T.U. (sui beni culturali e ambientali), approvato con D.lgs 29 ottobre 1999, n. 490 prende in esame, distintamente in due titoli, i beni culturali, cui dedica il maggior numero di articoli da 1 a 132, ed i beni paesaggistici e ambientali, disciplinati dagli articoli da 133 a 165, mentre l'art. 166 è comune alle due categorie di beni, contenendo l'indicazione delle disposizioni abrogate e tra queste, nella loro interezza, delle Leggi 1° giugno 1939, n. 1084 e 29 giugno 1939, n. 1497, che hanno costituito per 60 anni il corpus base della disciplina di settore.
Sui contenuti della Legge n. 1089 (per i beni culturali, rectius storico-artistici) e della legge n. 1497 (per i beni paesaggistici, cui è da aggiungere la legge n. 431/1985) continua ovviamente a basarsi il sistema di tutela, che risulta sostanzialmente,confermato seppure con alcune innovazioni, indotte tra l'altro dall'inserimento nei procedimenti di costituzione del vincolo dei meccanismi di garanzia, previsti dalla Legge sul procedimento n. 241/1990. Tra queste innovazioni può,ad esempio, indicarsi la disposizione che già l'avvio del procedimento, con conseguente comunicazione agli interessati, comporta l'applicazione delle misure cautelari e di salvaguardia.
Indubbiamente con l'anzidetto il Testo Unico viene compiuta un'importante opera di razionalizzazione e semplificazione, inserendo nel sistema delle leggi del 1939 non solo i principi e meccanismi procedurali della Legge n. 241, ma anche riconoscendo il diverso ruolo acquisito nel settore dal mondo delle autonomie, a seguito di una progressiva azione legislativa. Un tassello di questa è rappresentato dal D.lgs n. 112/1998, ancorché trattasi di un riconoscimento parziale, e limitato a un ruolo prevalentemente gestionale e collaborativa, sulla base del principio di "leale cooperazione), cui la giurisprudenza costituzionale fa frequente riferimento e non solo per questo settore.
Per quanto specificamente attiene ai beni paesaggistici e ambientali non si rilevano comunque sostanziali elementi di novità, nei contenuti e nelle competenze, salvo probabili diverse prospettive per la pianificazione paesistica, cui paiono aprirsi maggiori opportunità; una valorizzazione delle regioni, cui le competenze in materia vengano conferite per attribuzione e non per delega, ancorché nei fatti i poteri di integrazione degli elenchi e di controllo sulle autorizzazioni paesaggistiche restino confermate in capo al Ministero.
Per gli enti locali ruolo e attribuzioni continuano a dipendere in gran parte dalla legislazione regionale.
Il terzo Testo unico, di cui si è fatto cenno, (ossia quello in materia di espropriazioni per pubblica utilità, approvato con DPR 8 giugno 2001 n. 237) è anche il testo urbanisticamente più interessante.
Anche per questo Testo Unico tuttavia la sua entrata in vigore è stata prorogata più volte e da ultimo fino al 30 giugno 2003 con la L. 1° agosto 2002, n. 185 già menzionata.
Il provvedimento contiene finalmente, dopo un' incredibile frammentazione normativa, una disciplina organica ed omogenea dell'espropriazione, disegnando un unico procedimento ed anche un unico criterio di determinazione dell'indennità di esproprio.
Per poter pervenire all'esproprio è intanto necessario che l'opera da realizzare sia prevista da uno strumento urbanistico generale o da un atto avente natura ed efficacia equivalente e che sul bene sia apposto il vincolo preordinato all'esproprio. La subordinazione dell'esproprio alla conformità con la pianificazione urbanistica è affermata con chiarezza.
È altresì necessario che vi sia stata da dichiarazione di pubblica utilità dell'opera. Tale dichiarazione risulta semplificata, non essendo più necessario prevedere la fissazione dei termini, essendo questi già predeterminati in ogni caso ope legis. Viene inoltre soppressa la dichiarazione di contingibilità ed urgenza, che era propedeutica all'adozione del provvedimento di occupazione d'urgenza che non è più previsto.
Deve essere infine determinata, anche se in via provvisoria, l'indennità d'esproprio, che si basa sui seguenti criteri:
Per i suoli edificatori la misura dell'indennità si richiama sostanzialmente alla Legge di Napoli, venendo determinata attraverso la media tra il valore venale ed il reddito domenicale, e ridotta del 40% ove il soggetto espropriato non convenga la cessione volontaria del bene. In linea approssimativa l'indennità viene in tal modo ad oscillare intorno al 55% del valore effettivo del bene in caso di accordo, ed al 35%, in caso di rifiuto di addivenire alla cessione volontaria;
Per i suoli non edificabili (la nozione di "edificabilità delle aree" è rimessa all'emanazione di un regolamento,nella cui assenza la stessa va valutata"in relazione alle "..caratteristiche oggettive dell'area") viene nella sostanza ribadito il criterio del valore agricolo, definito a suo tempo dalla legge n. 865 del 1971.
Adeguandosi ai principi oramai consolidati, affermati dalla Corte Costituzionale viene previsto che il vincolo preordinato all'esproprio non possa avere durata superiore a cinque anni, entro il qual termine va dichiarata la pubblica utilità. Decorso inutilmente tale termine il vincolo decade e in caso di sua reiterazione va corrisposta un'indennità, "commisurata all'entità del danno effettivamente prodotto".
Prima di concludere questo veloce excursus storico sulla legislazione, in materia di urbanistica, intervenuta negli anni novanta, appare opportuno segnalare almeno le seguenti disposizioni, che sia pure indirettamente, hanno incidenza sugli assetti urbanistici (intesi in senso ampio):
L. 2 maggio 1990, n. 104, che contiene modifiche ed integrazioni alla L. 24 dicembre 1976, n. 898, in materia di regolamentazione delle servitù militari;
DPR 18 aprile 1994, n. 383, che disciplina i procedimenti di localizzazione delle opere di interesse statale;
DPR 18 luglio 1995, contenente l'atto di indirizzo e coordinamento concernente i criteri per la redazione dei piani di bacino;
L. 30 aprile 1999, n. 136, recante norme per il sostegno ed il rilancio dell'edilizia residenziale pubblica e per interventi in materia di opere di carattere ambientale, i cui artt. 20-22, contengono disposizioni in materia di programmi pluriennali d'attuazione e di semplificazione e snellimento dei procedimenti di approvazione degli strumenti urbanistici;
D.lgs 11 febbraio 1998, n. 32, relativo alla razionalizzazione del sistema di distribuzione dei carburanti, che prevede la redazione da parte della regione di un apposito Piano Regionale, relativo ai distributori di carburante;
D.M. (sanità) 28 maggio 1999, che contiene modificazioni in materia d'altezza minima e dei requisiti igienico-sanitari principali dei locali di abitazione, che integra il D.M. 5 luglio 1975, che modificava a sua volta le istruzioni, ministeriali 20 giugno 1896, che costituiscono tuttora la norma base in argomento.
L. 8 marzo 2000, n. 53, che nell'ambito di una complessiva normativa a sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura ed alla formazione contiene anche importanti disposizioni sui "tempi della città", prevedendo che i comuni redigano, il "Piano territoriale degli orari".
Il Piano territoriale degli
orari, previsto dall'art. 24 dell'anzidetta legge, disciplina il
funzionamento dei diversi sistemi orari dei servizi pubblici, al fine di
perseguire la loro graduale armonizzazione e coordinamento. È approvato dal Consiglio Comunale
su proposta del Sindaco ed è attuato con ordinanze del Sindaco stesso.
D.M. (LL.PP.) 9 maggio 2001, che in attuazione dell'art. 14 del D.lgs 17 agosto 1999, n. 334 (c.d. Seveso-Bis), stabilisce i requisiti minimi di sicurezza in materia di pianificazione urbanistica e territoriale per le zone interessate da stabilimenti a rischio di incidente rilevante;
D.M. (LL.PP.) 6 giugno 2001, che contiene disposizioni per la promozione delle società di trasformazione urbana (le c.d. S.T.U.);
T.U. sulle acque, approvato con D.lgs 11 maggio 1999, n. 152, modificato con D.lgs. 18 agosto 2000, n. 258, che prevede la redazione di un piano di tutela delle acque, definito come "piano stralcio di settore del piano di bacino".
E' da rilevare, che specie in questo ultimo periodo si sono moltiplicati i piani di settore legati alla tutela dagli inquinamenti (da rifiuti, radioattivi, acustici, biologici, elettromagnetici etc.). Trattasi certamente di piani che hanno notevoli riflessi sul governo del territorio, ma che rientrano meglio nella disciplina dell'ambiente.
Una notazione conclusiva va effettuata sul fatto che diventa sempre più difficile parlare di urbanistica prescindendo dalla legislazione regionale.
La Legge Costituzionale n. 3 del 2001 riporta in campo le problematiche già emerse in passato, sulla definizione di urbanistica, o rectius, come è preferibile, sulle materie da ricomprendere rispettivamente nella legislazione esclusiva statale, in quella concorrente e in quella esclusiva regionale.
Trattasi indubbiamente di problematiche, dove entrano in campo anche aspetti non esclusivamente giuridici.
Indipendentemente da ciò un discorso che prescinda dalla legislazione regionale è necessariamente un discorso parziale. Si è già del resto avuto modo di indicare come le più recenti normative regionali si siano poste su un terreno, che anticipa l'attesa legge generale urbanistica (se ancora così andrà a denominarsi) e che dovrà portare auspicabilmente elementi di chiarezza, evitando che questi derivino dall'opera meritoria (tuttavia non sempre lungimirante) della Corte Costituzionale, ma non è (non dovrebbe essere) questo il suo ruolo.
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