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Fra tutti i popoli dell'antichità gli Etruschi occupano oggi, ai nostri occhi, un posto del tutto particolare. La loro lunga storia ebbe inizio nei primi anni del VII secolo a. C. e si concluse solamente poco tempo prima dell'era cristiana. In guerra dapprima contro i Greci, ai quali essi contesero l'egemonia nel Mediterraneo, quindi contro i Romani i quali furono costretti a combattere duramente prima di sottometterli, gli Etruschi occupano una posizione di grande rilievo nelle opere degli autori sia di lingua greca che latina. Il loro nome, che ispirava una volta tanto timore, appare continuamente negli Annali di Livio; e Virgilio nella sua epica descrizione delle origini di Roma, si sentì in dovere di narrare con ampiezza di particolari le loro gesta. Ancora oggi nell'Umbria, nella Toscana e nel Lazio numerose sono le tracce delle città e delle necropoli etrusche. Attraverso i secoli scoperte fortunate e scavi organizzati hanno portato alla luce un numero straordinario di oggetti di ogni genere - sculture, pitture e prodotti delle arti minori - provenienti dalle scuole di arte e dalle botteghe artigiane dell'Etruria. Malgrado la forza evocatrice di tali reliquie, che illustrano gli aspetti di una sviluppatissima civiltà, l'Etruria si presenta tuttora a scienziati e a profani come un misterioso e impenetrabile fenomeno.
Molteplici sono gli enigmi che concorrono a dare a questi primi abitanti della Toscana un aspetto singolare e segreto. Ci fu, è vero, un generale consenso per la tesi tradizionale esposta dalla penna di Erodoto; secondo questi, gli Etruschi emigrarono via mare dalla Lidia e da altre località dell'Asia Minore verso le soleggiate spiagge del Mar Tirreno. Tale origine asiatica è accettata senza esitazione dalla maggior parte degli autori antichi. Ma Dioniso di Alicarnasso, retore greco, che visse a Roma ai tempi di Augusto, rifiutò di condividere questa opinione generale e sostenne che gli Etruschi ebbero origini autoctone. Le discussioni sono continuate fino ai nostri giorni.
La decifrazione della lingua etrusca è questione complessa e dibattuta: malgrado secoli di tentativi, non è stata trovata nessuna soluzione all'enigma tuttora presentato da un idioma che ne sta curiosamente appartato tra le lingue antiche.
Ma la storia e la civiltà etrusche, così importanti per il destino della civiltà occidentale nell'antichità, non sono circondate da oscurità o da misteri nelle loro linee generali. I testi greci e latini che parlano degli antichi Toscani e soprattutto la preziosa documentazione offerta dagli oggetti rinvenuti, sia grazie agli sforzi degli archeologi sia per mera fortuna, permettono di formarci una visione ampia della civiltà etrusca; e quantunque alcune aree siano meno chiaramente definite di altre, tale visione porta alla luce un'intera nazione con la sua organizzazione politica e sociale, la sua economia, le sue credenze religiose, le sue creazioni artistiche.
Si cercherà quindi di fare un'analisi della natura dei problemi rimasti insoluti e di descrivere l'affascinante storia dell'antica Etruria, studiando nelle successive fasi i differenti aspetti della civiltà del popolo etrusco, la sua vita pubblica e privata, la sua religione, la sua arte.
Si riuscirà così a raggiungere una certa conoscenza della vita di un paese e di un popolo che cominciò a svolgere un ruolo importante nella storia dell'Occidente agli inizi del VII secolo a.C., e che fu conquistato da Roma solo al prezzo di lunghe e dure guerre. Anche dopo che l'Etruria cadde a seguito dell'aggressione delle legioni romane verso la metà del III secolo a.C., il suo ruolo culturale non fu interrotto. L'artigianato etrusco continuò la produzione sul territorio toscano fino alla metà del I secolo a.C.; così per quanto concerne l'insegnamento religioso, come praticato dagli "aruspici", i Romani lo fecero proprio fino alla caduta dell'Impero, quando lo stesso anesimo greco-romano aprì alla fine la via al cristianesimo.
In merito ai vasti problemi sollevati dalla civiltà etrusca il lavoro degli archeologi e degli storici ha recato un contributo costante ai fini della conoscenza e di una documentazione positive, che ci mettono nelle condizioni di poter vagliare antiche tradizioni e colmare un gran numero di lacune.
Le teorie accreditate presso gli antichi facevano concordemente arrivare gli Etruschi, in Italia, dall'Oriente poco prima dell'inizio dei tempi storici. L'unica divergenza riguardava il popolo a cui gli Etruschi erano collegati e dal quale sarebbero derivati.
Secondo lo storico greco del V secolo a.C. Erodoto, si sarebbe trattato dei Lidi che, in seguito ad una carestia, avrebbero abbandonato la loro patria, in Asia Minore, e sarebbero giunti in Italia alla guida di Tirreno, lio del re Atys, dal quale avrebbero poi preso il nome di Tirreni o Tyrsenoi (che era quello col quale effettivamente i Greci chiamavano gli Etruschi).
Secondo gli altri due storici greci Ellanico e Anticlìde, rispettivamente del V e del IV-III secolo a.C., si sarebbe trattato invece dei Pelasgi, giunti in Italia dopo aver variamente navigato per il mare Egeo (secondo Ellanico) e dopo aver colonizzato le isole egee di Imbro e di Lemno (secondo Anticlide).
La tesi che prevalse nell'antichità fu tuttavia quella di Erodoto, al punto che l'origine lidia degli Etruschi divenne un luogo comune. Così Virgilio, nell'Eneide, usa i due termini, Lidi ed Etruschi, indifferentemente, mentre gli abitanti di Sardi, l'antica capitale della Lidia, erano definiti ufficialmente, in età romana, "fratelli e consanguinei del popolo etrusco".
Ci fu però, nella stessa antichità, una voce discorde: quella di Dionisio di Alicarnasso, un altro storico greco vissuto nell'età di Augusto, il quale, dopo aver respinto l'identificazione degli Etruschi con i Lidi o con i Pelasgi, sostenne che essi erano autoctoni, e, per rinforzare la sua tesi, asserì di aver ascoltato quell'opinione proprio presso gli Etruschi "i quali - osservava - non chiamavano se stessi Tirreni bensì Rasenna".
Dionisio rimase però inascoltato e la sua teoria non ebbe seguito. Soltanto ai nostri tempi essa è stata ripresa in considerazione, quando, anche sulla scorta di quella voce discorde, gli studiosi si sono riproposti il problema delle origini etrusche. Sono state allora riprese le antiche teorie e a conforto dell'una o dell'altra sono stati invocati i dati offerti dalla documentazione archeologica, utilizzandoli però in maniera parziale e fondamentalmente preconcetta.
I sostenitori moderni dell'origine orientale hanno così
tentato di ricollegare l'ipotetica migrazione del Lidi alla diffusione in
Etruria della civiltà orientalizzante, documentata nel corso del VII
secolo a.C. dalla vistosa presenza di oggetti (ma anche di usi, costumi, idee)
provenienti dai paesi del bacino orientale del mediterraneo. Ma la prova non ha
retto ad un triplice ordine di considerazioni: l'influsso culturale
dell'Oriente non riguarda soltanto l'Etruria ma anche
Quanto alla tesi dell'autoctonia, si è cercato di accreditarla considerando gli Etruschi un relitto di antichissime genti neolitiche appartenute ad un originaria unità mediterranea ed emarginate dal sopraggiungere degli "italici" indoeuropei. A questa tesi si è tentato di dare forza sottolineando l'isolamento della lingua etrusca nel contesto delle altre lingue dell'Italia antica e attribuendo agli Italici la novità del rito funebre della cremazione (rispetto a quello dell'inumazione) documentato dalle scoperte archeologiche.
Ma l'area interessata dalla cremazione corrisponde proprio a quella che in piena età storica era occupata dagli Etruschi e non dagli Italici.
Questo per quanto riguarda le teorie degli antichi.
Ma per risolvere il loro insolubile contrasto, si ne è poi escogitata una terza, rivelatasi anch'essa del tutto inconsistente. Essa ipotizzava una discesa degli etruschi dal settentrione attraverso le Alpi e si basava su due argomentazioni: una, di carattere archeologico, riguardava certe affinità tra le culture dell'età del ferro in Etruria e nell'Europa centrale; l'altra, d'origine storica, aveva a che fare con una notizia di Tito Livio, secondo la quale la popolazione alpina dei Reti (stanziata tra la valle dell'Adige e il Tirolo) sarebbe derivata dagli Etruschi (e per convalidare tale rapporto si invocava l'analogia tra il nome di Reti e quello di Rasenna che, come si è visto, Dionisio di Alicarnasso riconosceva quale nome nazionale degli Etruschi.
A parte l'infondatezza di questo raffronto, per demolire la tesi "settentrionale" è bastato osservare che Livio non parla affatto dei Reti come del relitto di una migrazione ma piuttosto come del risultato di un fenomeno di emarginazione di genti di origine etrusca della pianura padana nelle valli alpine, incalzate dall'invasione dei Celti. Quanto ai punti di contatto tra le culture del ferro, essi si riscontrano non soltanto in Etruria, ma anche in altre regioni della penisola italiana e pure fuori d'Italia.
Quindi non rimane altro che l'indiscutibile constatazione della continuità culturale, sul suolo etrusco, tra l'età del bronzo e l'età del ferro. Ciò, se da un lato ricaccia sul piano delle fantasie ogni possibile idea di invasione e di migrazione, conduce, dall'altro, proprio a quel concetto di lenta e graduale formazione al quale correttamente si affida l'indagine sulla nascita del popolo etrusco. Alla quale, per concludere, debbono certamente aver contribuito elementi provenienti dal mondo egeo-anatolico, come è forse adombrato nel racconto di Erodoto che, come spesso avviene nelle tradizioni degli antichi, contiene almeno un fondo di verità non in contrasto con le nostre possibili ricostruzioni. Un piccolo gruppo di navigatori orientali deve essere approdato, in un certo momento, sulle coste di quella che sarebbe poi diventata l'Etruria (così come dovette avvenire nel Lazio, secondo quanto rivela la leggenda dell'arrivo dei Troiani di Enea). E potrebbe anche essere stato quel gruppo di navigatori a portare con sé almeno il nucleo fondamentale della futura lingua etrusca, dato che innegabili consonanze e probabilmente una vera e propria parentela genetica collegano all'etrusco la lingua egea documentata nell'isola di Lemno (quella dei Pelasgi di Anticlide) prima della conquista ateniese, alla fine del VI secolo a.C.
Tutto ciò anche alla luce di certe fonti egiziane relative
al faraone Ramsete III (1197-
Non si tratta che di spunti, certamente suggestivi e tali in ogni caso che non possono essere né ciecamente accettati né aprioristicamente respinti. Anche perché essi ci riportano ad un periodo dell'antica storia mediterranea, quale è quello della fine del II millennio a.C., che è comunque contraddistinto da una intensa attività marinara e da sicuri movimenti di popolazioni che accomnarono e seguirono (e forse anche determinarono) la crisi ed il crollo dei vecchi imperi e in particolare del mondo miceneo.
Ma tutto questo può aver fatto parte della "preistoria" degli Etruschi. La storia ci assicura che essi divennero una realtà concreta, nuova rispetto a qualsiasi precedente, al termine di complesse vicende svoltesi per intero nella regione d'Italia che da essi prese poi il nome.
Gli Etruschi fecero la loro sa alla ribalta della storia quando i Greci, nell'VIII secolo a.C., cominciarono a dar vita, nella penisola italiana e in Sicilia, ai loro stanziamenti commerciali e poi alle vere e proprie colonie di popolamento. Le più antiche menzioni di quelli che gli stessi Greci chiamavano Tirreni (Tyrrenoi o Tyrsenoi) riguardano anzi proprio l'azione di disturbo da essi svolta sul mare nei confronti dei coloni; lo storico Eforo, ad esempio, scrive che i Greci che nella seconda metà dell'VIII secolo fondarono le prime colonie siciliane, a Naxos presso Taormina, e a Megara Hyblaea, non lontano da Siracusa, non lo avevano fatto prima perché "temevano le scorrerie dei Tirreni".
Siano più o meno esatte queste notizie, non vi è dubbio che al tempo della colonizzazione greca gli Etruschi erano i meglio organizzati e i più intraprendenti di tutti i popoli che si trovavano lungo la fascia costiera tirrenica: già largamente presenti sul mare che, non a caso, ancora i Greci chiamarono col loro stesso nome (Mare Tirreno) e da tempo in contatto con genti che abitavano lontano dall'Italia meridionale alla Sardegna.
La riprova sta nella fondazione degli avamposti greci a Pitecusa
(Isola d'Ischia) verso il
Si può dire dunque che con la cultura villanoviana nel IX secolo a.C. ebbe inizio la storia etrusca. Il periodo è quello stesso al quale con significativa coincidenza riconduce la "memoria storica" che gli stessi Etruschi ebbero della propria vicenda. A questa, infatti, veniva assegnata una durata di dieci secoli, non tutti della stessa lunghezza ma scanditi dall'apparizione di prodigi e di fenomeni celesti, con l'ultimo secolo che sarebbe cominciato, secondo gli Aruspici del tempo, nell'età di Augusto. Sempre al IX secolo è possibile far risalire, sia pure indirettamente, le testimonianze relative alla lingua. Le più antiche iscrizioni etrusche conosciute sono databili agli inizi del VII secolo a.C., ma si deve pensare ad un periodo più o meno lungo durante il quale la lingua fu parlata senza essere scritta, fino al momento dell'introduzione della scrittura resa possibile dall'adozione dell'alfabeto trasmesso agli Etruschi dai coloni greci di Ischia e di Cuma. Dato poi che nelle prime iscrizioni conosciute i segni alfabetici greci appaiono già pienamente adattati alle esigenze fonetiche dell'etrusco, evidentemente a seguito di un processo di definizione e di consolidamento protrattosi per qualche tempo, di può arguire che l'introduzione della scrittura in Etruria deve essere avvenuta non molto dopo la metà dell'VIII secolo a.C. Di conseguenza, il periodo in cui la lingua fu parlata senza essere scritta può facilmente risalire al secolo precedente.
Sulla base della documentazione archeologica (peraltro quasi esclusivamente proveniente dalle necropoli), i villaggi "villanoviani" appaiono organizzati con caratteri di stabilità e in forme di società indifferenziate, con un'economia di sussistenza fondata sull'utilizzazione in comune delle risorse agricole e dell'allevamento e su modeste attività artigianali di tipo domestico. Agli inizi dell'VIII secolo, soprattutto nei villaggi della fascia costiera, questa struttura egualitaria cominciò a modificarsi per iniziativa di singoli individui volti a sfruttare risorse e attività a proprio vantaggio, accumulando le ricchezze da esse derivanti. Di particolare rilievo furono l'occupazione del suolo e la gestione degli scambi commerciali, specialmente per mare, i quali ultimi, con l'importazione di merci di lusso, di costumi e di tecnologie avanzate, contribuirono ad aumentare le differenziazioni. Nel corpo sociale cominciarono allora ad emergere e ad affermarsi gruppi elitari che, disponendo di mezzi sempre più cospicui finirono col trasformarsi in ceto dominante, diventando protagonisti dell'incontro con i Greci. Da questo derivò una vera e propria accelerazione dei processi di sviluppo e di stratificazione sociale già in atto, che portò alla nascita delle aristocrazie e dell'affermarsi della civiltà urbana.
Nelle vicende di trasformazione e di evoluzione proprie dell'VIII secolo a.C. i centri più vivaci rimasero quelli della fascia meridionale costiera: prima di tutti Veio, Tarquinia e Vulci, poi anche Cere e Vetulonia. Lo sviluppo di tali centri si accomnò al progresso e all'organizzazione delle loro attività marinare, già praticate in maniera disorganica e occasionale. Tali attività furono almeno in parte in diretto antagonismo con quelle dei Greci, ma la rivalità greco-etrusca sul mare non impedì il proseguimento dei proficui contatti e soprattutto il perdurare e l'intensificarsi dell'influsso della cultura greca su quella etrusca.
In questo ambito, a cominciare dall'ultimo quarto dell'VIII secolo a.C. e per tutto il secolo successivo, si diffuse in Etruria la civiltà "orientalizzante" che determinò un generale cambiamento del gusto e del costume. Ma conseguenza degli apporti e delle influenze che al seguito dei commerci, e con gli oggetti importati, provenivano dalle regioni del vicino oriente furono anche le novità tecnologiche come il tornio del vasaio e le tecniche per la lavorazione dell'oro e dell'avorio, l'introduzione della coltivazione della vite e dell'ulivo, la diffusione della scrittura, l'adozione di nuove forme di organizzazione militare, l'introduzione di nuovi tipi di unità abitative e residenziali.
In un clima diffuso di ricchezza e di lusso, protagonisti della storia di questo periodo, fin dai primi decenni del VII secolo, furono le grandi famiglie dei "principi" (come li chiamano le fonti letterarie romane).
Le novità portarono tuttavia anche nuove esigenze per
soddisfare le quali non restava che passare alle forme proprie
dell'organizzazione urbana proposte anch'esse dai modelli provenienti dal mondo
greco. Così, nella seconda metà del VII secolo a.C., nei luoghi
dove si era concentrata la vita in comune, gli antichi agglomerati di villaggi
andarono trasformandosi in vere e proprie città. Si trattò prima
di tutto di Cere (in etrusco, probabilmente Caisri o Chisra o Chaire, donde il
latino Caere, l'odierna Cerveteri); quindi di Veio (in latino Veii) e di
Tarquinia (in etrusco Tàrchuna), che già erano stati centri di
prima grandezza nel periodo villanoviano; poi di Vulci (in etrusco Velch) e
Vetulonia (in etrusco Vetluna). Quindi il fenomeno si estese alle regioni
dell'Etruria centrale interna e infine in quella settentrionale. Variamente
favorite dalla loro posizione, si affermarono così Populonia (in etrusco
Pupluna) che, direttamente sul mare, controllava l'isola d'Elba ricca di ferro,
Roselle (in latino Rusellae) presso Grosseto, che sfruttava la via naturale di
comunicazione rappresentata dalla valle dell'Ombrone; Volsini (in etrusco
Velzna) sulla rupe orvietana, a dominio della confluenza del Paglia nel Tevere;
Volterra (in etrusco Velathri) che controllava
Sul finire del VII secolo a.C. le città dell'Etruria, prime
fra tutte quelle meridionali, iniziarono una vicenda che le vide per circa un
secolo e mezzo tra le protagoniste della grande storia mediterranea. Si
svilupparono notevolmente le attività produttive che, non più
limitate a soddisfare le richieste del mercato interno, vennero destinate ai
mercati esterni. Poi, a poco a poco, si affermò la vendita di quello che
veniva prodotto per l'esportazione: sia nel settore agricolo, con la produzione
dell'olio e del vino, sia nel settore artigianale, con la fabbricazione su
larga scala delle ceramiche, i vasi che noi chiamiamo "etrusco-corinzi", a
imitazione della celebre e ricercata ceramica di Corinto, e quelli che
chiamiamo "buccheri", proposti anche in sostituzione dei vasi greci di metallo
dei quali ripetevano le forme e l'aspetto esteriore. Queste attività
posero in tutta la sua ampiezza il problema degli sbocchi commerciali, dando il
via a precisi programmi espansionistici. Centri quali Cere, Veio, Vulci, le
città economicamente e politicamente più forti e intraprendenti,
ebbero di mira le regioni più vicine come il Lazio, o quelle
strategicamente più importanti come
L'espansione avvenne in forme e modi diversi. Nel Lazio, con
l'acquisizione di un saldo controllo delle principali vie di comunicazione e
dei più importanti nodi di traffico, sia marittimi (Anzio) che terrestri
(Valle del Tevere): ad esempio, a Praeneste (l'odierna Palestrina),
all'ingresso della Valle del Sacco, a Satricum, presso Aprilia, e soprattutto a
Roma, che dominava un importante passaggio del Tevere, dove nel
In Campania l'espansione avvenne attraverso l'intensificazione dei contatti già da tempo in atto con gli antichi centri di cultura villanoviana che subirono un processo di vera e propria etruschizzazione, come ad esempio Capua e Pontecagnano. In questa regione, tuttavia, l'affermazione etrusca provocò pure l'accendersi di rivalità e contrasti con la più antica componente del mondo greco in Italia, quella euboico-calcidese. In Liguria e in Provenza, infine, l'espansione si tradusse nella creazione di scali marittimi e di empori ai quali facevano capo le rotte provenienti dall'Etruria propria.
Questa fase caratterizzò tutto il VI secolo a.C. e non fu senza risvolti nelle situazioni interne, nelle strutture sociali e nell'organizzazione politica e istituzionale. Lo sviluppo delle attività commerciali fu così progressivamente sottratto al ceto aristocratico e le attività produttive furono organizzate in strutture comunitarie. In particolare, furono creati appositi centri di scambio fuori, ma non lontano, dalle città e tutto questo portò alla nascita di un nuovo ceto basato sul censo. Tale ceto, definibile in termini moderni come "classe media", divenne presto il nerbo della popolazione urbana e finì per condizionare la vita delle città. Queste, divenute ormai autentiche città-stato, sul modello della polis greca, erano ognuna a capo di un esteso territorio che controllavano saldamente. Rimaste indipendenti l'una dall'altra, esse continuarono a sviluppare autonomamente le loro iniziative politiche ed economiche. Ma la mancanza di intese e programmi comuni portò spesso a diversità e contraddizioni di atteggiamenti, specie nei confronti dei nemici esterni, fino alle guerre "fratricide".
Le fonti storiche greche ci parlano per il VI secolo a.C. di accese rivalità "internazionali" per il controllo delle rotte marittime, dandoci notizia di vere e proprie battaglie navali tra Greci ed Etruschi.
Così, ad esempio, nel caso della battaglia combattuta
l'anno
Alcuni dei prigionieri focesi furono portati a Cere e lapidati. Coloro che passavano sul luogo dell'eccidio, racconta ancora Erodoto, animali o uomini, "diventavano rattrappiti, storpi o paralitici".
Gli Etruschi mandarono allora a interrogare l'oracolo di Delfi, il quale ordinò loro di celebrare sacrifici e di tenere ogni anno giochi per placare le anime dei Focesi massacrati.
Il successivo clamoroso episodio della lotta per il predominio del
Mediterraneo di verificò agli inizi del V secolo a.C. nel
Anche sull'Adriatico gli Etruschi avevano cercato di espandersi. Tappe fondamentali la fondazione di Marzabotto, una sorta di stazione intermedia in Emilia sul percorso verso il delta del Po, e di Spina, sul mare. Spina era un emporio molto vivace, frequentato dagli Ateniesi, fino al IV secolo a.C., quando la presenza di questi sull'Adriatico cominciò ad essere contrastata e alla fine soppiantata dai Siracusani. Incidentalmente, era da questi mercati adriatici che transitava l'ambra, la resina giallastra reperibile sul Baltico, usata in gioielleria, per la quale donne, ma anche uomini, andavano matti. Ragioni economiche più che mire espansionistiche spiegano dunque il dilatarsi della presenza etrusca a nord e a sud della penisola.
Nel corso del V secolo a.C. due gravi pericoli si affacciarono ai
due estremi del mondo etrusco: a nord, la pressione delle tribù celtiche
penetrate da tempo in Italia attraverso le Alpi; a sud, l'incipiente espansionismo
di Roma la quale, scaduta la tregua del
Nel
Nell'Etruria meridionale, intanto, due fatti nuovi vennero a caratterizzare il IV secolo a.C. Da una parte ci fu la progressiva emarginazione di Cere che, sia pure pacificamente, finì col soccombere all'alleata Roma, alla quale cedette il suo antico ruolo. Da un'altra parte, ci fu invece il ritorno di Tarquinia, la quale grazie ad una accorta politica di sfruttamento delle risorse agricole del suo territorio, riuscì a superare la crisi che l'aveva lungamente abbattuta e a rifiorire, con ricchezza e potenza.
Ma l'accresciuta potenza e la sua stessa posizione geografica,
portarono Tarquinia ad una situazione di antagonismo con Roma, che portò
alla guerra scoppiata nel
Intanto sul fronte settentrionale finiva l'Etruria padana: nella seconda metà del IV secolo infatti l'onda celtica travolse tutti i centri etruschi della regione, compreso quello più importante di Felsina (Bologna), occupata dai Galli. Alla fine del IV secolo a.C. gli etruschi erano ormai ridotti entro i confini originari, peraltro già intaccati a sud dall'espansione romana.
Nel
L'anno
Tra il 281 e il
La modulazione delle città etrusche e il loro ingresso forzato nell'alleanza con Roma segnò l'inizio dell'ultimo periodo della storia etrusca: quello che viene definito dell'Etruria "federata". A fondamento del nuovo ordine imposto all'Etruria stavano dunque i vincoli federali derivanti dai trattati. Questi ebbero, a seconda dei casi, clausole speciali e diverse, particolarmente dure per le città che più direttamente si erano opposte a Roma e più lungamente e duramente avevano lottato contro di essa. Includenti tra l'altro anche l'imposizione di tributi e il controllo sulla pubblica amministrazione. In generale, i trattati imponevano a tutte le città di rinunciare a qualsiasi iniziativa politica autonoma; di riconoscere come propri gli amici e gli alleati di Roma e i suoi nemici; di fornire alla stessa Roma aiuti ogniqualvolta essa ne facesse richiesta, specialmente in occasione di guerre e con contributi di uomini e mezzi; di coordinare con gli interessi Romani ogni loro attività, anche di natura produttiva e commerciale; di garantire il mantenimento dei propri ordinamenti istituzionali fondati sul potere delle oligarchie aristocratiche; di accettare (o di richiedere) l'intervento di Roma in caso di gravi turbamenti sociali e di conflitti interni. L'aspetto positivo del sistema federativo consisteva nel fatto che le singole città continuavano a vivere la loro vita "locale", sostanzialmente libera e autonoma, regolata e ordinata secondo i principi e le usanze della tradizione nazionale, di mantenere le proprie leggi, la propria lingua e la propria religione.
La federazione fu messa a dura prova dall'invasione dell'Italia da
parte di Annibale. La seconda guerra punica (218 -
Tito Livio scrive in proposito che le città etrusche si comportarono ognuna secondo le proprie possibilità e ne elenca dettagliatamente i contributi: Cere dette frumento e viveri di vario genere; Tarquinia tele di lino per le vele delle navi; Roselle, Chiusi, e Perugia fornirono legname per la costruzione degli scafi e frumento; Volterra frumento e pece per le calafature; Populonia ferro; Arezzo, infine, approntò grandi quantità di armi (3.000 scudi e altrettanti elmi e 100.000 giavellotti), strumenti e attrezzi da lavoro e 100.000 moggi (= antichi recipienti) di grano e rifornimenti di ogni sorta da servire per quaranta navi.
Con il I secolo a.C., tra il 90 e l'89, Roma concesse agli
Etruschi i diritti di cittadinanza e nacquero così, tra l'80 e il
La realtà storica degli Etruschi venne infine consacrata con una delle regioni in cui la stessa Italia venne suddivisa da Augusto: la regione VII, alla quale toccò di perpetuare, fino alla fine del mondo antico, il nome glorioso dell'Etruria.
Fasi finali della civiltà del bronzo.
Fasi iniziali della civiltà del ferro; cultura «villanoviana» nei territori dell'Etruria «propria» e sua espansione verso l'Emilia-Romagna e il Salernitano. Formazione delle comunità di villaggi.
Navigazione degli Etruschi nel Tirreno meridionale.
Inizio della colonizzazione greca nella penisola italiana.
775 ca. Stanziamento dei Greci a Pitecusa, nell'isola d'Iscbia.
Fondazione di Roma, secondo la tradizione varroniana.
Fondazione di Cuma.
Inizio della colonizzazione greca in Sicilia.
Sviluppo del «villanoviano in Etruria - differenziazioni sociali - fondazione
del centri pre-urbani.
710-705 ca. Fondazione di Sibari,
di Crotone e di Taranto. Inizio della cultura «orientalizzante».
Adozione dell'alfabeto greco e introduzione della scrittura in Etruria (e nel
Lazio).
Primo iscrizioni etrusche rinvenute a Tarquinia e a Cere.
Pieno sviluppo della cultura «orientalizzante».
650 ca. Demarato di Corinto si stabilisce a
Tarquinia.
Influenze corinzie in Etruria.
Fase evolutiva dell'orientalizzazione.
Inizio della civiltà urbana. Fioritura di Cere.
Thalassocrazia ed espansione commerciale delle città costiere
dell'Etruria meridionale.
Inizio della monarchia etrusca a Roma: regno di Tarquinio Prisco (fino al 578).
Espansione etrusca nella pianura Padana.
580 ca. Gli Etruschi sconfitti dai coloni greci nel mare di Lipari.
Inizio a Roma del regno di Servio Tullio (fino al 534).
565 ca. I Greci di Focea fondano Alalie in Corsica.
540 ca. Coalizione cerite-cartaginese contro i Focei: battaglia del Mare Sardo. Controllo etrusco della Corsica.
Inizio a Roma del regno di Tarquinio il
Superbo (fino al 5l0).
Fondazione di Marzabotto e di Felsina.
Spedizione fallita degli Etruschi (con Umbri e Dauni) contro Cuma.
Distruzione di Sibari ad opera di
Crotone.
Fioritura di Capua etrusca.
Cacciata di Tarquinio il Superbo e fine della monarchia etrusca a Roma. Espansione di Chiusi nel Lazio: il re Porsenna a Roma.
505 ca. L'esercito di Porsenna sconfitto
presso Ariccia do Aristodemo di Cuma e dai Latini.
Gli Etruschi sconfitti dai Galli al Ticino.
Thefarie Velianas signore di Cere.
Guerra tra Veio e Roma; strage dei Fabii al Cremera.
Gli Etruschi sconfitti nelle acque di Cuma dai Siracusani; fine della thalassocrazia e crisi delle città etrusche meridionali; sviluppo delle città dell'Etruria interna e settentrionale; fioritura dell'Etruria padana e adriatica.
Incursioni della flotta siracusana nel Tirreno settentrionale. Inizio della pressione sannitica sulla Campania.
Guerra tra Veio e Roma.
La città latina di Fidenae, alleata di Veio, conquistata dai Romani.
Capua occupata dai Sanniti.
Fine del dominio etrusco in Campania.
Un contingente etrusco (forse di Tarquinia) partecipa all'assedio navale ateniese di Siracusa.
Inizio dell'assedio di Veio da parte dei Romani.
Veio conquistata e distrutta dai Romani: il suo territorio incorporato nello stato romano.
Scorrerie dei Galli nell'Italia centrale: Roma saccheggiata e incendiata.
Incursione della flotta siracusana nel
Tirreno e saccheggio del santuario di Pyrgi.
I Siracusani nell'Adriatico settentrionale.
Fondazione delle colonie romano-latine di Nepi e Sutri. Ascesa di Tarquinia e sua egemonia sulla Lega etrusca.
Tarquinia (con Cere e Faleri) muove guerra a Roma. Detronizzazione del re di Cere.
Pace separata tra Cere e Roma.
Fine della guerra e tregua
quarantennale fra Tarquinia e Roma.
Rivolta «servile» ad Arezzo domata con I' intervento di Tarquinia.
Marzabotto e Felsina occupate dai Galli.
Spedizioni dei Galli nell'Italia centrale.
Navi etrusche in Sicilia in aiuto di Agatocle di Siracusa contro i Cartaginesi.
Gli Etruschi in guerra contro Roma.
I Romani penetrano nell'Etruria centrale e interna.
Gli Etruschi costretti alla pace con Roma.
Roselle assediata e occupata dai
Romani.
Intervento di Roma ad Arezzo in appoggio alla famiglia dei Cilnii.
Rivolte «servili» a Volterra e a Roselle.
Completa decadenza di Spina.
Gli Etruschi nella coalizione «italica» contro Roma.
I coalizzati sconfitti dai Romani a Sentino. Vittorie romane sugli Etruschi.
Rivolta «servile» ad Arezzo.
Gli Etruschi definitivamente sconfitti dai Romani al lago Vadimone.
Vulci eVo1sini si arrendono a Roma.
Le città etrusche costrette ad allearsi con Roma: l'Etruria federata.
Prefettura romana a Statonia.
Colonie romane a Cosa e a Pyrgi.
Rivolta «servile» a Volsinii.
Volsinii conquistata e distrutta dai
Romani.
Saccheggio del santuario della Lega.
Volsinii ricostruita sulle rive del lago di Bolsena.
Colonie di Roma a Castrum Novum, Alsium e Fregene.
Faleri conquistata e distrutta dai
Romani.
Trasferimento della città in altra sede.
L'Etruria investita da un incursione di Galli distrutti dai Romani a Talamone. Costruzione della via Clodia.
Spedizioni romane contro i Galli, dalle
basi etrusche.
Costruzione della via Flaminia.
Annibale, in Etruria, sconge i Romani al Trasimeno.
I Romani rinforzano i presidi militari in Etruria.
Le città etrusche contribuiscono alla spedizione africana di Scipione contro Cartagine.
Rivolta di schiavi in Etruria.
Fondazione della colonia romana di Bononia.
Repressione del culto «sovversivo» di Dioniso.
183-l80 Fondazione di colonie di Roma a Saturnia, Gradisca e Pisa.
Fondazione di colonie di Roma a Luni e
a Lucca. Costruzione della via Cassia.
Progressiva emancipazione di elementi servili nell'Etruria settentrionale.
Viaggio del tribuno Tiberio Gracco attraverso l'Etruria.
133-l21 Fallimento dei tentativi di riforme sociali dei Gracchi.
L'etrusco Marco Perperna eletto console a Roma.
Marcia su Roma degli Etruschi contro le
proposte di legge riformatrici del tribuno Livio Druso.
Secessione e guerra degli alleati italici contro Roma.
Interventi militari romani a Fiesole, Arezzo, Chiusi e Volsinii.
Gli Etruschi ricevono la cittadinanza
romana.
Le città etrusche diventano «municipi» dell'Italia romana.
Gli Etruschi parteggiano per Mario.
Repressioni di Silla contro Fiesole, Arezzo e Volterra e deduzione di colonie di veterani romani.
Effimere rivolte «popolari» a Fiesole e in altre città.
Catilina si rifugia in Etruria e arruola truppe a Fiesole e ad Arezzo.
Gli Etruschi neutrali nella guerra civile tra Pompeo e Cesare.
Perugia, occupata dai seguaci di Antonio, conquistata e saccheggiata dalle truppe di Ottaviano.
L'etrusco Mecenate tra i consiglieri e i ministri di Augusto.
L'Etruria diventa la regione VII dell'Italia romana.
La religione etrusca
Alla base della religione etrusca stava l'idea fondamentale che la natura dipendesse strettamente dalla divinità. Ne conseguiva che ogni fenomeno naturale era espressione della volontà divina; o meglio, un segnale che la divinità stessa inviava all'uomo il quale, a sua volta, doveva fare del tutto per capirlo, scoprirne il significato e adeguarsi ad esso. Comportarsi cioè secondo il volere divino. Tutto il resto era coerente con questi principi, a cominciare dalla stessa concezione della divinità. Questa era essenzialmente misteriosa e coincideva con forze che stavano sopra la natura. In pratica, si trattava di esseri soprannaturali, vaghi ed incerti nel numero; almeno alle origini: giacché su una tale concezione primitiva si innestò ad un certo punto e in parte si sovrappose l'influenza di altre religioni e soprattutto di quella greca.
Il processo di assimilazione delle divinità etrusche agli dei dell'Olimpo greco iniziò nel corso del VII secolo a.C. e giunse a compimento nel successivo secolo VI quando è definitivamente documentata una serie di corrispondenze precise.
Nello stesso tempo nuovi dei vennero direttamente "importati" dal mondo greco conservando il loro nome appena etruschizzato, come nel caso di Artemis (Diana), diventata Aritimi; Apollon (Apollo), diventato Aplu; di Herakles (Ercole), diventato Hercle; di Castor e Pollux (Castore e Polluce, i Dioscuri) diventati Castur e Pultuce, ecc.
Accanto a tutte queste divinità continuarono però ad essercene di quelle che non trovarono alcun confronto con divinità greche. Tali, ad esempio, la dea Northia, probabilmente del fato, e quel dio Veltuna o Velta (in latino Veltumnus o Voltumna) che, secondo Varrone, sarebbe da considerare come una sorta di dio "nazionale" degli Etruschi.
Continuarono comunque ad esistere numerose divinità minori, anche se purtroppo le nostre conoscenze si limitano a qualche citazione degli autori romani (Varrone, Plinio, Seneca, Marziano Capella, Arnobio); essi parlano di "dei superiori" e "avvolti nelle tenebre", in numero di dodici; poi di "dei consenti", consiglieri di Tinia, spietati e senza nome, anch'essi in numero di dodici; di "dei folgoratori", in numero di nove; di "dei nascosti", divisi in quattro classi di divinità, del cielo, della terra, delle acque e delle anime umane.
Quanto al rapporto tra gli dei e gli uomini, la convinzione di una costante influenza delle forze soprannaturali sul mondo e sulle azioni umane non poteva che condurre al più completo annullamento dell'uomo di fronte al volere divino. Il rapporto si traduceva così in un monologo della divinità al quale l'uomo rispondeva con un comportamento obbligato. Per fare ciò occorrevano prima di tutto degli strumenti di conoscenza e di ricerca dei segni attraverso i quali la volontà divina si manifestava: i fulmini e certe particolarità o imperfezioni delle viscere di alcuni tipi di animali, eventi insoliti o prodigiosi (boati improvvisi, suoni strani, comete, ecc.). Doveva poi essere disponibile un codice che consentisse la corretta interpretazione dei segni stessi: per capire, ad esempio, se si trattava della manifestazione della collera o della soddisfazione divina, di semplici avvertimenti o di veri e propri presagi. Infine, occorreva che ci fosse qualcuno particolarmente esperto degli strumenti di conoscenza, del codice di interpretazione e delle norme di comportamento.
La religione etrusca era dunque un susseguirsi di atti e formalità ritualistiche, osservate scrupolosamente e minuziosamente compiute. Con una tale intensità e una così costante applicazione da colpire i contemporanei e gli antichi in genere che non esitarono a parlare degli Etruschi come di un popolo molto religioso o, secondo quello che scrive Tito Livio, come di "un popolo che fra tutti gli altri si dedicò particolarmente alle pratiche religiose in quanto si distingueva nel saperle coltivare".
La dottrina che si riferiva al riconoscimento dei segni, alla loro interpretazione e al soddisfacimento della volontà divina era indicata, in latino, con l'espressione Etrusca Disciplina, traducibile come "scienza etrusca". I fondamenti di tale scienza erano fatti risalire dagli etruschi all'intervento della stessa divinità, che si sarebbe servita per tale scopo di due intermediari, quali il fanciullo dall'aspetto di vecchio, Tagete, e la ninfa Vegoia. Questi personaggi semidivini avrebbero letteralmente dettato agli uomini parte delle verità soprannaturali e insegnato il modo di avvicinarsi ad esse, con la pratica e i mezzi dell'arte divinatoria. Soltanto un testo originale si è salvato giungendo fino a noi: un manoscritto su tela di lino conosciuto con il nome di "Mummia di Zagabria" perché custodito nel museo di questa città che lo acquisì alla fine del secolo scorso dopo che era stato ritrovato in Egitto, ridotto in bende usate per avvolgere una mummia. Si tratta di un calendario rituale evidentemente portato con sé in Egitto da qualche immigrato etrusco, nel quale urano elencati i giorni e i mesi dell'anno in cui dovevano compiersi specifici atti di culto in onore di determinate divinità, con l'indicazione delle cerimonie, dei sacrifici e delle offerte da fare.
Per quanto riguarda la "sacra scrittura", si distinguevano tre grandi gruppi di libri, che nella versione latina erano detti, rispettivamente, Aruspicini, Fulgurales e Rituales.
Depositaria e responsabile della letteratura sacra ed esperta della disciplina era la casta sacerdotale. I sacerdoti erano normalmente riuniti in collegi e venivano indicati con nomi diversi a seconda del settore del quale erano esperti: con i termini di netsvis e trutnvt, ad esempio, erano chiamati l'interprete delle viscere e quello dei fulmini. Un nome speciale (cepen) designava quelli che erano espressamente addetti al culto, tra i quali il cepen spurana era quello che presiedeva al culto ufficiale della comunità e dello stato. Probabilmente ogni tipo di sacerdote aveva un particolare costume; tutti però avevano come segno distintivo della loro casta il "lituo", una sorta di scettro dall'estremità superiore ricurva.
L'arte divinatoria
Lo strumento di conoscenza per l'approccio ai segni con cui il volere divino si manifestava era la divinazione; un'arte che gli stessi dei avevano insegnato agli uomini e che poggiava sul fondamento teorico della corrispondenza tra mondo celeste e mondo terreno: il mondo degli dei e quello degli uomini.
All'interno di questo sistema, erano fondamentali la definizione e la partizione dello spazio celeste, sede degli dei.
Lo spazio celeste era concepito come suddiviso in sedici parti, quattro per ognuno dei quadranti risultanti dall'ideale congiunzione dei quattro punti cardinali mediante due rette perpendicolari incrociantisi al centro (immagine n. 1). Secondo la terminologia latina la retta nord-sud era chiamata cardo, quella est-ovest decumanus. Nelle sedici caselle erano collocate le sedi o dimore delle divinità, secondo un ordine che collocava gli dei superiori nelle regioni orientali del cielo; gli dei della terra e della natura verso mezzogiorno; quelli infernali e del fato nelle regioni d'occidente, considerato come il più nefasto.
Dal momento che nello spazio celeste si trovavano le sedi degli dei, il cielo era la fonte di informazione più autorevole e diretta. Esso costituiva quindi il primo e fondamentale ambito di osservazione per ogni pratica divinatoria. Tenendo infatti presente la ripartizione della volta celeste e la collocazione delle singole caselle, si poteva riconoscere, dalla posizione dei segni che si manifestavano in cielo o dal punto dal quale essi provenivano, a quale divinità fosse da riferire il singolo segno e se si trattasse di buono o cattivo auspicio. Il segno più frequente e dunque più osservato nel cielo era quello rappresentato dal fulmine.
L'interpretazione dei fulmini
L'osservazione e l'interpretazione dei fulmini era regolata da una casistica alquanto complessa. Grande importanza avevano il luogo e il giorno in cui essi apparivano, ma anche la forma, il colore e gli effetti provocati. Le varie divinità che avevano la facoltà di lanciarli disponevano, ciascuna, di un solo fulmine alla volta, mentre Tinia ne aveva a disposizione tre. Il primo era il fulmine "ammonitore" che il dio lanciava di sua spontanea volontà e veniva interpretato come avvertimento; il secondo era il fulmine che "atterrisce" ed era considerato manifestazione d'ira; il terzo era il fulmine "devastatore", motivo di annientamento e di trasformazione: Seneca scrive che esso "devasta tutto ciò su cui cade e trasforma ogni stato di cose che trova, sia pubbliche che private". I fulmini erano variamente classificati a seconda che il loro avviso valesse per tutta la vita o solamente per un periodo determinato oppure per un tempo diverso da quello della caduta. C'era poi il fulmine che scoppiava a ciel sereno, senza che alcuno pensasse o facesse nulla, e questo, sempre stando a quel che dice Seneca, "o minaccia o promette o avverte"; quindi quello che "fora", sottile e senza danni; quello che "schianta"; quello che "brucia", ecc. Ma Seneca parla anche di fulmini che andavano in aiuto di chi li osservava, che recavano invece danno, che esortavano a compiere un sacrificio, ecc. Con un tale groviglio di possibilità, solo i sacerdoti esperti potevano sbrogliarsi. Plinio il Vecchio arriva ad affermare che un sacerdote esperto poteva anche riuscire a scongiurare la caduta di un fulmine o, al contrario, riuscire con speciali preghiere, ad ottenerla. Resta da dire che dopo la caduta di un fulmine c'era l'obbligo di costruire per esso una tomba: un piccolo pozzo, ricoperto da un tumuletto di terra, in cui dovevano essere accuratamente sepolti tutti i resti delle cose che il fulmine stesso aveva colpito, compresi gli eventuali cadaveri di persone uccise dalla scarica. Naturalmente, il luogo e la tomba erano considerati sacri e inviolabili ed essendo ritenuto di cattivo auspicio calpestarli, erano recintati e accuratamente evitati dalla gente, quali "nefasti da sfuggire", come scriveva nel I secolo d.C. il poeta romano Persio originario dell'etrusca Volterra.
L'interpretazione delle viscere
Le viscere degli animali di cui si servivano gli Aruspici (dette in latino exta) erano di diverso tipo: polmoni, milza, cuore, ma specialmente fegato (in latino hepas). Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli animali appena uccisi ed espressamente riservati alla consultazione divinatoria e quindi distinti da quelli immolati per il sacrificio. Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli animali appena uccisi ed espressamente riservati alla consultazione divinatoria e quindi distinti da quelli immolati per i sacrifici. Si trattava in genere di buoi e talvolta anche di cavalli ma soprattutto di pecore. Delle viscere dovevano essere prese in considerazione la forma, le dimensioni, il colore ed ogni minimo particolare, specialmente gli eventuali difetti. Quando non rivelavano nulla di apprezzabile per la divinazione, erano ritenute "mute" e inutilizzabili; erano invece "adiutorie" quando indicavano qualche rimedio per scampare ad un pericolo; "regali" se promettevano onori ai potenti, eredità ai privati, ecc.; "pestifere" quando minacciavano lutti e disgrazie.
L'osservazione era più minuziosa nel caso del fegato (immagine n. 2), dato che in esso, per l'aspetto generale e per la particolare conformazione, veniva riconosciuto il "tempio terrestre" corrispondente al "tempio celeste". La sua importanza era del resto connessa alla credenza diffusa presso gli antichi che esso fosse la sede degli affetti, del coraggio, dell'ira e dell'intelligenza. Ritenuto che nel fegato fosse esattamente proiettata la divisione della volta celeste, si trattava di riconoscere a quale delle caselle di quella corrispondessero, nel fegato, le irregolarità. Le imperfezioni, i segni particolari o anche le regolarità, e quindi prendere in considerazione i messaggi della divinità che occupava la casella interessata. Per meglio riuscire nell'intento, per l'istruzione dei giovani aruspici, venivano utilizzati degli appositi modelli di fegato, in bronzo o in terracotta, sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi delle diverse divinità.
L'osservazione dei prodigi
La fama di insuperabili interpreti di viscere e fulmini, della quale godevano gli Etruschi, era completata da quella che li riteneva anche esperti conoscitori del significato di ogni genere di prodigi. Il romano Varrone, che desumeva evidentemente da fonti etrusche, riferisce che tra i prodigi si distinguevano l'ostentum, che prediceva il futuro; il "prodigio", che indicava il da farsi; il "miracolo", che manifestava qualcosa di straordinario; il "mostro", che dava un avvertimento. Tra i prodigi più frequenti erano annoverati la pioggia di sangue, la pioggia di pietre e quella di latte, gli animali che parlavano, la grandine, le comete, le statue che sudavano, ecc. In aggiunta alle manifestazioni di carattere straordinario, nelle categorie dei prodigi rientravano anche fatti del tutto naturali: c'erano perciò alberi e animali "felici" o "infelici", cioè portatori di cattivo o di buon auspicio, piante commestibili che portavano bene e piante selvatiche che portavano male. La casistica era infinita: ad essa tutti prestavano in genere molta attenzione, magari per tradizione o per rispetto della comune opinione.
Le pratiche rituali
Dal momento che con le arti divinatorie veniva raggiunta la conoscenza del volere divino, si trattava di dare attuazione a tutto ciò che ne derivava dal punto di vista del comportamento. Occorreva cioè agire sulla base delle norme prescritte dalla "disciplina" e oggetto della trattazione specifica dei "libri rituali". Tali norme si traducevano in una serie interminabile di pratiche, di cerimonie, di riti. Si dovevano perciò determinare i luoghi, i tempi e i modi nei quali e con i quali doveva essere eseguito quello che veniva chiamato il "servizio divino" (aisuna o aisna, da ais che significa dio), nell'indicazione delle persone alle quali l'azione competeva e, naturalmente, prima di tutto, della divinità alla quale essa era dedicata. I luoghi dovevano essere circoscritti, delimitati e consacrati; i tempi regolati dalla successione cronologica delle feste e delle cerimonie previste ed elencate nei calendari sacri; i modi rispettati fin nei minimi particolari, tanto che, qualora fosse stato sbagliato oppure omesso un solo gesto, tutta l'azione avrebbe dovuto essere ripresa da capo. Nelle funzioni trovavano ampio spazio la musica e la danza; le preghiere potevano essere d'espiazione, di ringraziamento o di invocazione; i sacrifici cruenti riguardavano particolari categorie di animali; le offerte comprendevano prodotti della terra, vino, focacce e altri cibi preparati. Particolarmente diffusa, tanto a livello di religiosità "ufficiale" quanto a livello di religiosità popolare, era l'usanza dei doni votivi. Nel primo caso poteva trattarsi di statue o altre opere d'arte, di oggetti particolarmente preziosi, di prede di guerra e di edifici sacri; nel secondo caso i doni erano solitamente piccoli oggetti, per lo più di terracotta (ma anche di bronzo, di cera e mollica di pane) che i fedeli compravano nelle apposite rivendite presso i santuari.
Il culto dei morti
Tra le pratiche di carattere religioso, un posto del tutto particolare occupavano quelle che avevano come destinatari i defunti. Nei primi tempi, esse erano legate alla concezione della continuazione dopo la morte di una speciale attività vitale del defunto. A tale concezione si accomnava l'idea che quell'attività avesse luogo nella tomba e fosse in qualche modo congiunta alle spoglie mortali. Dato però che tutto dipendeva dalla collaborazione dei vivi, i familiari del defunto erano tenuti a garantire, agevolare e prolungare per quanto possibile la "sopravvivenza" con adeguati provvedimenti.
La prima esigenza da soddisfare era quella di dare al morto una tomba, che sarebbe diventata la sua nuova casa; subito dopo veniva quella di fornirgli un corredo di abiti, ornamenti, oggetti d'uso e, insieme, una scorta di cibi e bevande. Il resto era un arricchimento e poteva variare a seconda del rango sociale del defunto e delle possibilità economiche degli eredi. Si poteva così foggiare la tomba nell'aspetto sia pure parziale o soltanto allusivo della casa, e dotarla di suppellettili e arredi, e magari affrescarla sulle pareti con scene della vita quotidiana o dei momenti più significativi della vita del defunto.
Quanto alle pratiche proprie dei funerali, esse andavano dall'esposizione al compianto pubblico al corteo funebre al banchetto davanti alla tomba.
Tutte queste pratiche, insieme alle cerimonie e ai riti che dovevano essere compiuti in onore di divinità connesse con la sfera funeraria, facevano parte di un autentico culto dei morti, sacro da rispettare e da venerare.
La situazione tuttavia cambiò con il tempo: infatti, per effetto delle suggestioni provenienti dal mondo greco, nel corso del V secolo a .C., alla primitiva fede di sopravvivenza del morto nella tomba, si sostituì l'idea di uno speciale regno dei morti. Questo fu immaginato sul modello dell'Averno (o Acheronte) greco, il regno dei morti, governato dalla coppia divina di Aita e Phersipnai (Ade e Persefone greci).
Contrariamente a quanto molti ancora suppongono, i documenti della
lingua etrusca sono tutt'altro che 'indecifrati' o 'indecifrabili': scritti con
un alfabeto di derivazione greca, di tipo euboico ('rosso', cioè
occidentale, secondo la divisione stabilita da A. Kirchhoff delle scritture dei
Greci), fin dal secolo scorso si leggono senza nessuna particolare difficoltà;
ma anche in precedenza, salvo qualche dubbio relativo a singoli segni,
l'epigrafia aveva rappresentato il modulo forse più solido nell'intero
panorama dell'etruscologia.
Sappiamo dunque che già nel tardo VIII secolo a.C. gli Etruschi erano
certamente in possesso d'un alfabeto, introdotto in Italia centrale da coloni
euboici dell'isola d'Ischia e comprendente ventisei lettere, come si desume da
una tavoletta d'avorio, dalla finalità evidentemente scolastica,
ritrovata a Marsiliana d'Albegna (Grosseto). Ma quattro lettere non sono
effettivamente impiegate (la b, la d, la s sonora e la o, che si confondeva col
suono u), mentre per il suono f dal VI secolo a.C. è introdotto un segno
apposito. La scrittura procede normalmente da destra verso sinistra; assai
più raramente, da sinistra a destra ovvero con andamento
bustrofèdico, cioè alternato riga per riga. In epigrafi meno
antiche si possono incontrare puntini di separazione tra le parole.
In realtà il problema è un altro ed è un problema
d'interpretazione linguistica, non di decifrazione epigrafica: quello
d'intendere il significato dei testi, redatti in una lingua che non sembra
imparentata con nessun 'altra delle antiche o moderne proposte alla
azione, e di elaborare, possibilmente, una descrizione grammaticale,
morfologica e sintattica, di questa lingua, che è poi la condizione
stessa della sua conoscenza effettiva. E, da tale punto di vista, bisogna
ammettere che, nonostante lo sforzo grandioso di molte generazioni di studiosi,
i risultati sicuri permangono pochi e settoriali; e ciò non per
insufficienza d'impegno o per inadeguatezza dei metodi adottati, ma per la
qualità medesima dei documenti disponibili. Infatti le iscrizioni
etrusche, anche se numerose (circa 10 000), vengono in grandissima parte da
necropoli; sono perciò di carattere funerario e generalmente molto
brevi. Esse ci danno perciò soprattutto, se non soltanto, nomi di
persona e indicazioni anagrafiche elementari, pur essendo in gran parte
abbastanza facilmente (ma talvolta approssimativamente) traducibili. I
pochissimi testi etruschi più complessi - un rituale scritto su un
rotolo di tela poi utilizzato per avvolgere una mummia, ora al Museo di
Zagabria; una tegola iscritta, proveniente da Capua, a Berlino; il Cippo di
Perugia - suscitano invece gravi difficoltà nell'interpretazione, anche
perché non si conoscono per il momento ampi documenti bilingui a carattere di
traduzione letterale (del tipo della Stele di Rosetta).
Ciononostante la pazienza degli indagatori conduce pian piano a singole
acquisizioni che, pur nei limiti quasi invalicabili imposti dalla
quantità e dalla qualità dei documenti (ai testi epigrafici
bisogna aggiungere le parole etrusche riportate dagli scrittori antichi),
possono organizzarsi in un disegno generale abbastanza ben definito. Dopo
l'esperienza dei metodi 'etimologico' (che presupponeva la parentela
dell'etrusco con altre lingue conosciute) e 'combinatorio' (rivolto ad
analizzare solo per via interna la 'combinazione' degli elementi costitutivi
del testo), in anni recenti hanno trovato sviluppo due nuovi modi d'accostare
il problema linguistico: il cosiddetto 'bilinguismo', promosso specialmente da
Massimo Pallottino, che integra l'analisi combinatoria con l'uso di fonti
interpretative esterne (per esempio, il confronto con formule di dedica latine
e greche); e lo 'strutturalismo' di Helmut Rix, che reputa sufficiente una
descrizione della 'struttura' dei testi a chiarirne anche il significato. Della
grammatica dell'etrusco non è qui il caso di parlare diffusamente,
perché c'introdurrebbe in un terreno di ardua e complicata spiegazione.
Preferiamo dare al lettore l'esempio di una declinazione di sostantivo ormai
sufficientemente accertata (secondo gli schemi di lingue più note, come
il greco e il latino e quello di un 'epigrafe funeraria abbastanza traducibile.
Ecco il modello di declinazione del sostantivo methlum (che significa 'nome'):
methlumes ('del nome'); methlumth ('nel mome', con valore locativo); methlumeri
('al nome'). Ed ecco invece l'esempio di epigrafe funeraria (si tratta
dell'iscrizione incisa su un sarcofago da Norchia e riportata sia nel Corpus
Inscriptionum Italicarum di A. Fabretti, N. 2070, sia nel nuovo Corpus
Inscriptionum Etruscarum, N. 5874):
Arnth Churcles [Arnth Churcle], Larthal [di Larth] clan [lio] Ramthas
Nevtnial [(e) di Ramtha Nevtni], zilc parchis [pretore] amce [fu] marunuch
[appartenente al collegio dei 'maroni'] spurana [urbano] cepen [sacerdote] tenu
[ha esercitato], avils [di anni] machs [cinque] semphalchls [(e) settanta] lupu
[è morto].
La gente etrusca
Sotto la classe padronale o gentilizia - la cui ricchezza si era
creata con l'agricoltura, il commercio, la pirateria - si formò col
tempo, a partire dal VII secolo, una sorta di ceto medio anch'esso composto da
agricoltori, artigiani mercanti (non pochi di costoro erano stranieri, che
prendevano fissa dimora nei centri dove li portavano i loro traffici e magari
sposavano donne del posto). Non è pur troppo facile ricostruire
l'esistenza di questa gente e di quella che stava al livello più basso
della scala sociale, i servi. È evidente che questi servi non
costituivano un blocco omogeneo, e che (erano fra loro differenze anche
notevoli in relazione alle funzioni che svolgevano. Certo erano molto numerosi.
Le fonti di approvvigionamento del personale servile furono dapprima le
scorrerie piratesche, poi le guerre (i prigionieri di guerra finivano, come
è noto, in schiavitù): e va da sé che schiavi erano i nati da
genitori di condizione servile. Mercati di schiavi c'erano poi dappertutto
(alcuni internazionalmente noti), e c'erano trafficanti specializzati che
facevano soldi a palate trattando questa merce. I prezzi variavano naturalmente
secondo la qualità (caratteristiche etniche, nazionalità, età,
sesso, forza, bellezza, salute, conoscenza di arti e mestieri, cultura, ecc.).
Pare che le case dei ricchi Etruschi pullulassero di schiavi, adibiti alle
più svariate funzioni, non di rado pretestuose. Fra gli schiavi che
servivano durante i banchetti, c'erano quelli che mischiavano nelle anfore il
vino e l'acqua, quelli che versavano le bevande nelle coppe, quelli che
tagliavano le carni, quelli che distribuivano i cibi, e così via. I
servi erano, come in tutte le società antiche, alla mercé dei padroni.
In Etruria erano, sembra, trattati un po' più familiarmente e mitemente
che a Roma, ma non mancavano certo i padroni capricciosi e crudeli. Le
punizioni - frustate per lo più, ma si arrivava alla tortura e alla
morte - erano all'ordine del giorno. Non c'erano deterrenti legali contro
padroni cattivi o addirittura sadici: si può supporre tuttavia che
valesse come freno la disapprovazione sociale. E poi gli schiavi
rappresentavano un patrimonio e strumenti di lavoro che si aveva interesse a
proteggere e a sfruttare. Lo spettro dei servi era l'ergastolo (il lavoro
cioè nelle miniere, nelle cave di marmo quando si cominciò a
sfruttarle sistematicamente, nelle paludi per opere di prosciugamento), che si
svolgeva in condizioni disumane.
Con il costituirsi di grosse ricchezze terriere e l'estendersi del latifondo si
andarono spopolando le camne. I contadini, che già prima stentavano
la vita, sfruttati e vessati dai proprietari, cercavano scampo nei centri
urbani. A sostituirli erano gli schiavi, che costavano meno anche se il loro
rendimento non era esaltante.
Come dappertutto, gli schiavi in Etruria potevano emanciparsi, grazie al
peculio che riuscivano ad accumulare o semplicemente grazie ai meriti che
acquisivano. L'affrancamento dipendeva comunque dalla volontà del
padrone, nei confronti del quale il liberto (lautni com'era chiamato in lingua
etrusca) conservava obblighi importanti. Il liberto aggiungeva al suo nome il
gentilizio del padrone, faceva pur sempre parte della famiglia, ma aveva una
vita propria, lavorava per sé, poteva sposare una libera o un libero,
arricchire, fare carriera.
Basandoci sulle testimonianze urative e letterarie possiamo farci un'idea di
com'erano fisicamente gli Etruschi. Con molta cautela, senza dimenticare il
lavoro di idealizzazione degli artisti e i loro modelli culturali: è
dall'Asia Minore e dalla Grecia, per esempio, che gli scultori avevano preso la
fronte sfuggente, il naso dritto, l'occhio a mandorla e quel sorriso
particolarissimo che poi venne assunto a simbolo dell'arte etrusca. Non parleremo
quindi semplicisticamente di un "tipo etrusco" sulla scorta di un famosissimo
sarcofago di terracotta (metà del VI secolo) proveniente da Cere
(Cerveteri), su cui è rappresentata una coppia di coniugi adagiati
fianco a fianco sul letto del banchetto funebre, con un viso lei da kore
attica, lui tendente al triangolare, con occhi obliqui resici familiari
dall'arte egeica.
Catullo e Virgilio hanno parlato rispettivamente di obesus etruscus e di
pinguis tirrhenus, varando un'immagine degli Etruschi goderecci e mangioni. che
trova del resto qualche riscontro nella scultura, soprattutto in tre
sarcofaghi. Uno, proveniente da San Giuliano nei pressi di Viterbo ci presenta
sul coperchio una ura coricata sul dorso con un ventre spropositato; un
altro, di Tarquinia, mostra un vecchio dalle carni piene che contrastano con
guance e collo flaccidi e rugosi; il terzo, conservato nel Museo di Firenze, ci
presenta un panciutissimo individuo coronato di fiori (un cavaliere, si direbbe
dall'anello all'anulare della mano sinistra), dalla testa semicalva e dagli
occhi spalancati, che regge nella mano destra una coppa. Ma possiamo
considerare questi personaggi rappresentativi della media degli Etruschi o
piuttosto del ceto ricco, godereccio, infiacchito dal benessere e dall'ozio?
Prendendo in considerazione un centinaio di iscrizioni comprese fra il 200 e il
Gli Etruschi dovevano essere piccoletti, se vogliamo credere agli scheletri
(circa un metro e mezzo per le donne, una decina di centimetri in più
per gli uomini). Ma lo erano anche i Romani e molti popoli dell'epoca. Basta
guardare nei musei armature ed elmi per rendersene conto.
Da quando si intensificarono i contatti con i Greci, gli Etruschi si ispirarono
alla loro moda per l'abbigliamento, che ci appare nei documenti urativi nel
complesso piuttosto vivace ed elegante (poche informazioni ricaviamo dagli
autori romani, e solo per gli aspetti dell'abbigliamento che Roma importò
dall'Etruria). È ovviamente difficile distinguere l'abbigliamento di
tutti i giorni da quello festivo e cerimoniale.
Gli uomini, specie i giovani, stavano spesso seminudi, in casa soprattutto ma
anche fuori, accontentandosi del perizoma, un panno annodato intorno ai fianchi
a formare come delle braghette. Oppure mettevano un giubbetto. Le persone
mature indossavano più spesso la tunica leggera lunga fino ai piedi,
pieghettata e ricamata, e quando faceva freddo il mantello di stoffa pesante e
colorata.
Le donne si sbizzarrivano di più: tuniche, gonne, corpini, giubbetti,
casacche, mantelli colorati ricamati. Soprattutto le gonne colpiscono per loro
grazia, con le loro pieghettature, increspature, inamidature, e con le forme
svasate che lasciano sospettare cerchi di sostegno. Tutti questi capi di
vestiario subirono una evoluzione le cui tappe non è sempre possibile
precisare. Alla metà circa del VI secolo risale, per esempio,
l'introduzione del chitone di lino, indumento decisamente unisex, anche in una
versione corta al ginocchio (più tardi, in epoca ellenistica, si impose
fra gli eleganti il chitone attillato con cintura). Vivace fu anche
l'evoluzione del mantello: quello classico, di derivazione greca, era
rettangolare, ma andò molto di moda anche uno semicircolare che si
portava di traverso lasciando una spalla scoperta. Uno dei capi di vestiario
più famosi e di più lunga vita è il tebennos. che possiamo
ammirare su delle piastre di terracotta provenienti da Cere e conservate nel Louvre
(VI secolo): vi è rafurato un re seduto su una sedia curule che
indossa sopra una corta tunica bianca orlata di rosso un mantello purpureo che
gli lascia scoperta la spalla destra. Adottato a Roma dai sacerdoti e dai
militari, il tebennos evolvette nella toga.
Nella tomba bolognese degli Ori si è trovato un tintinnabulum di bronzo
su cui sono rafurate fasi della lavorazione dei tessuti (cardatura filatura
tessitura). Le fibre più usate erano la lana e il lino. Gli Etruschi
amavano i colori intensi e le decorazioni, incorporate o applicate.
Ai piedi sandali con suole leggere e cinghie incrociate (ce n'erano con suole
di legno anche molto alte, montature metalliche e lacci dorati; altri,
semplicissimi, avevano suole di legno basse, fasce a semicerchio e un cordone
fra l'alluce e le altre dita). C'erano zoccoli, c'erano stivaletti del tipo che
oggi diremmo alla polacca. Derivarono da calzature etrusche gli stivali
indossati dai senatori romani (calcei senatorii), con linguette e corregge, che
vedono in molte statue romane ma già nella statua dell'Arringatore. Le
più tipiche calzature etrusche erano però quelle che i Romani
chiamarono calcei repandi, babbucce curve e colorate, forse di panno, con le
punte volte in su e la parte posteriore anche molto rialzata. Sta di fatto che
i calzolai etruschi godevano di gran fama anche fuori del paese.
I copricapi erano molto in uso in Etruria, più che in Grecia dove si
andava prevalentemente a testa scoperta. Ne conosciamo alcuni: a larghe falde
adatti a proteggere dalle intemperie, ad ampia tesa con la parte superiore
conica (qualcosa di simile al sombrero). E poi berretti, di lana e pelle.
Risale all'età arcaica il cappello conico femminile chiamato tutulus,
nome un po' impreciso, applicato anche a un berretto di lana degli auguri e a
una pettinatura femminile (capelli avvolti intorno a un nastro). Per le donne
tutta la gamma, in pratica, delle pettinature odierne - nodi, trecce, chignons,
riccioli -e dei marchingegni per tenerle insieme (reti, spil loni e così
via). Farsi i capelli biondi faceva fino. Sempre dai Greci gli uomini presero
l'abitudine della barba rasa e dei capelli corti. Chi poteva permetterselo si
adornava con ogni sorta di gioielli e monili (spille, diademi, collane,
pettorali, bracciali, braccialetti, anelli ciondoli).
In guerra gli uomini si vestivano e armavano come quelli degli altri paesi. Le
armi erano lance, giavellotti, spade lunghe e corte, sciabole ricurve, pugnali,
asce (magari a doppio taglio), mazze, archi, fionde. Per proteggersi elmi e
scudi di varia forma, corazze (dapprima in tela con borchie bronzee tonde o
quadrate, poi interamente in bronzo), schinieri. Un periodo cruciale
dell'evoluzione dell'armamento fu il VI secolo, con il passaggio dalla tecnica
di combattimento di tipo eroico (corpo a corpo) a quella che implicava l'uso di
masse (fanteria oplitica e cavalleria). I modelli greci allora prevalsero
nettamente su quelli centroeuropei: elmo conico di tipo ionico o calcidese:
scudo rotondo in lamina bronzea; schinieri di bronzo a proteggere le gambe
spadoni di ferro a scimitarra. Nei secoli successivi la tecnica di
combattimento della falange e della cavalleria si consolidò, e le armi
si perfezionarono: si diffuse l'elmo a calotta con paranuca e paraguance, le
corazze adottarono la forma anatomica e gli spallacci (bretelle), lo scudo
mantenne la forma rotonda ma aumentò di dimensioni.
Quanto al carattere degli Etruschi, non possiamo non registrare le
testimonianze degli antichi scrittori, tenendo però presente l'invidia
che la potenza e il benessere degli Etruschi potevano suscitare e lo sconcerto
suscitato da alcuni aspetti singolarmente liberi e spregiudicati del loro
costume. Li si considerava, e probabilmente erano, crudeli: ma la
crudeltà era di casa nel mondo antico. Certo non contribuivano a migliorare
la fama degli Etruschi, sotto questo profilo, l'avere essi esercitato su larga
scala e molto fruttuosamente la pirateria e fatti come quello che abbiamo
riferito, la lapidazione in massa dei Focesi catturati nella battaglia di
Alalia. Virgilio dice peste del re di Cere, Mesenzio, che si divertiva a legare
faccia contro faccia uomini vivi a cadaveri lasciandoli morire nel fetore e
nella putredine. Crudeltà insomma spinta al sadismo. Oltre che crudeli,
gli Etruschi erano accusati in antico d'essere goderecci, lussuriosi,
ghiottoni. Una delle fonti più citate in questo senso è Teopompo
(IV secolo a.C.) - riportato da Ateneo (II-III secolo d.C.) nel suo
Dipnosofisti - considerato peraltro anche anticamente una solenne malalingua.
Ciò che sembra particolarmente colpirlo è la condotta delle
donne, liberissima. Avevano grande cura del corpo, sfoggiavano
seminudità o nudità, bevevano a più non posso. Quanto agli
uomini, erano donnaioli sfrenati e accettavano la promiscuità sessuale,
non disdegnavano i ragazzetti, facevano l'amore in pubblico senza pensarci due
volte, si depilavano.
Il filosofo Posidonio di Apamea (II secolo a.C.) -riportato da Diodoro Siculo
(I secolo d.c.) nella sua Biblioteca storica - dà un giudizio degli
Etruschi un po' più equilibrato. Anch'egli tuttavia parla di lusso
eccessivo e di mollezza di costumi: si fanno imbandire due volte al giorno
tavole sontuose, si fanno servire da nugoli di schiavi, alcuni bellissimi e
vestiti con sconveniente eleganza. Questo infiacchimento dei costumi è secondo
Teopompo imputabile alla illimitata feracità del territorio etrusco.
È da Posidonio che apprendiamo l'origine etrusca della tromba (detta
"tirrenica"), del fascio littorio, della sedia d'avorio, della toga con orlo
purpureo, e la perizia degli Etruschi nelle scienze naturali e nella teologia.
La famiglia etrusca non differiva sostanzialmente dalla romana e dalla greca
(più simile semmai alla romana per l'indiscussa autorità del
pater familias), tranne per la posizione delle donne. Era questo che stupiva e
scandalizzava (abbiamo citato in proposito Teopompo) le altre nazioni. Si
desume, l'importanza maggiore delle donne dal fatto che sempre nelle iscrizioni
il loro nome è preceduto dal prenome e per tutti, maschi e femmine, si
dà non solo la paternità, ma la maternità. Certo è
che le donne etrusche non stavano chiuse nel gineceo, la loro virtù non
era misurata solo sulla pudicizia, sulla bravura nell'accudire alla casa e nel
filare. Partecipavano a tutti gli aspetti della vita privata e pubblica (ai banchetti,
ai giochi, alle cerimonie), e attivamente alle carriere dei mariti. Tito Livio
racconta per esempio il ruolo che ebbe Tanaquilla, donna di nobile famiglia,
nella fortuna del marito Lucumone (lio di un greco immigrato). Lucumone
divenne, niente meno, re di Roma, con il nome di Lucio Tarquinio Prisco. Ma
ancora dopo la morte di Tarquinio, Tanaquilla ebbe parte determinante
nell'elezione a re del proprio genero, Servio Tullio.
Un'altra di queste donne energiche e influenti, Urgulanilla, moglie di un certo
Plauzio di cui non sappiamo nulla, frequentò la corte di Augusto
sfruttando la grande amicizia con l'imperatrice Livia. Una sua nipote
sposò un nipote di Livia, Claudio, un giovane infelice (miisellus lo
definiva preoccupato l'imperatore), considerato più o meno l'idiota
della famiglia. Questo misellus però mise a frutto i rapporti che grazie
al matrimonio stabilì con l'ambiente dell'aristocrazia etrusca, ebbe
accesso agli archivi di molte famiglie importanti, e divenne, oltre che
imperatore, un valente etruscologo. Se ci fosse rimasta la sua storia degli
Etruschi in venti libri - purtroppo andata perduta - il mondo etrusco
presenterebbe per noi molti meno misteri.
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