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Hitler e la Germania nazista
I primi passi
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Anche se, al suo primo incontro con Mussolini nel 1934, Hitler era il
nuovo arrivato, all'epoca milioni di tedeschi vedevano già in lui la
personificazione della cultura germanica, malgrado il fatto che non fosse
tedesco di nascita. Nato nel 1889, crebbe vicino Linz in Austria. A tredici
anni perse il padre, funzionario doganale dell'impero asburgico. Cresciuto
solo, sotto le affettuose cure della madre, sviluppò un carattere
solitario e ribelle. Non aveva molti interessi, solo il disegno lo affascinava,
tanto che a diciotto anni si recò a Vienna per cercare di entrare
all'accademia di belle arti, senza peraltro riuscirvi. Morta la madre, malata
di cancro al seno, finì con alloggiare in dormitori pubblici, dati i
magri guadagni che riusciva a racimolare dipingendo insegne pubblicitarie e
cartoline. Quelli erano anni infelici ma anche formativi. Pigro, lunatico,
avverso al mondo intero, era consumato da una grande passione: parlare di
politica.
Aveva una infinita ammirazione per la cultura tedesca poiché la Germania,
nazione forte e giovane, offriva un futuro molto più brillante di quanto
non potesse promettere l'impero austro-ungarico, indebolito com'era dalle
tendenze nazionalistiche dei suoi popoli. In particolare aveva in antipatia gli
ebrei viennesi, considerandoli una minaccia per il tessuto della cultura
tedesca. Nella sua mente gretta e forte, stimolata dall'antisemitismo endemico
della stampa scandalistica viennese, aveva elaborato una confusa spiegazione di
quello che era il male - come lui lo definiva - che affliggeva il mondo
moderno: qualsiasi vero ideale, qualsiasi buona forma di governo erano stati
distrutti dalla cospirazione mondiale degli ebrei che agivano attraverso le
democrazie sociali, il marxismo e il cristianesimo. Leggeva avidamente
centinaia di libri, assorbendo quei concetti che confermavano i suoi giudizi.
Persone che lo hanno conosciuto, lo ricordano come uomo tormentato, dallo
sguardo allucinato, soggetto a umori terribili che sfociavano in violente,
amare diatribe. Nel 1913 Hitler si trasferì a Monaco, città che
amava, e quando scoppiò la Prima guerra mondiale si arruolò nella
fanteria tedesca, servendo come portaordini nelle Fiandre dove rimase per quasi
tutta la durata del conflitto. Non andò mai oltre il grado di caporale,
ma essendosi dimostrato soldato coraggioso gli fu conferita la croce di ferro,
di prima classe, decorazione concessa raramente a un combattente del suo grado.
Vittima di un attacco aereo con gas tossici, nell'ottobre 1918 fu congedato per
invalidità e rimpatriato in Germania.
Raggiunse Monaco attraverso un paese in rovine. Il governo repubblicano della
Germania del dopoguerra, denominato di Weimar, dalla città dove si era
riunita per la prima volta l'assemblea nazionale, era nello scompiglio. Da una
parte l'ala sinistra sperava nella rivoluzione mentre milioni di altri -
specialmente i reduci malcontenti come Hitler - non riuscivano ad accettare
l'armistizio e affermavano che la Germania era stata pugnalata alla schiena dai
suoi stessi politici repubblicani con la complicità di agitatori
socialisti, degli ebrei e degli speculatori di guerra. Il trattato di pace
firmato a Versailles nel 1919 era considerato un ulteriore tradimento, Solo un
nuovo movimento, sostenuto dall'esercito, poteva ristabilire l'orgoglio
nazionale tedesco.
La Baviera in particolare, il più grande degli stati tedeschi, era
vicina alla rivolta. Indipendente fino al 1866, con un suo proprio monarca fino
all'anno precedente, i cattolici della Baviera non amavano la Berlino
protestante. Molti avrebbero preferito l'unione della Germania meridionale con
la cattolica Austria che, dallo smantellamento dell'impero austro-ungarico, nel
1918 era diventata uno stato indipendente.
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Hitler fu assunto nel dipartimento politico dell'esercito e incaricato
di indagare su un esiguo gruppo dell'ala destra, il partito dei lavoratori
tedeschi. La cosa lo interessava perché i membri di questo gruppo - poche
dozzine di persone - dimostravano di essere ferventi patrioti che riflettevano
le opinioni diffuse nella polizia e nell'esercito bavaresi e miravano a
ottenere l'appoggio delle classi lavoratrici. Hitler accettò di far
parte del comitato del partito e fu addetto alla proanda.
Nel suo nuovo ruolo Hitler mostro due doti di eccezione; sapeva organizzare la
gente e, come oratore, sapeva captare e tradurli in parole, i sentimenti delle
platee. Ciò gli consentiva di esprimere le loro stesse speranze e timori
e così personificare le loro più intime emozioni.
Ben presto fu lui a dominare il partito e, prendendo il nome di un piccolo
gruppo austriaco, lo ricostruì ribattezzandolo partito nazionalsocialista
tedesco dei lavoratori abbreviato in nazista. Sempre dalla stessa fonte prese
come simbolo del partito un antico motivo a croce, la svastica. Volle che il
saluto rituale fosse 'Heil' che oltre a significare salve evoca anche
concetti di integrità, salvezza e salute. Ma, cosa ancora più
importante, formò un esercito privato, una banda d'assalto conosciuta
come Sturmabteilung o SA che serviva a intimidire i suoi avversari politici. A
capo aveva messo il capitano Ernst Röhm, ufficiale dell'esercito locale, un
duro dalla faccia sfregiata. Questi convinse il suo ex comandante a prelevare
somme dai fondi occulti dell'esercito per acquistare un giornale locale
ferocemente razzista, il Völkischer Beobachter (L'osservatore nazionale). Sotto
la direzione di Alfred Rosenberg questa pubblicazione divenne il mezzo di
divulgazione delle vedute ultranazionaliste di Hitler.
Molto presto la situazione favorì lo sviluppo del partito. Il amento
dei danni di guerra dovuti ai vincitori della Prima guerra mondiale erano un
onere molto pesante, tale da determinare il crollo dell'economia tedesca. Per
fare onorare questi amenti, nel gennaio 1923 la Francia occupò il
cuore industriale della Germania, la Ruhr. In risposta, il governo
appoggiò uno sciopero generale e lo finanziò stampando denaro.
Così, la valuta non dava più fiducia e in pochi mesi sopravvenne
una inflazione incontrollabile, la peggiore nella storia tedesca. In novembre
il tasso di cambio raggiunse 4.000.000.000.000 di marchi per dollaro. I risparmi
non valevano più nulla, le proprietà erano invendibili e il
lavoro non dava frutti. Le fondamenta stesse dello stato stavano crollando.
In queste circostanze di caos, molti in Baviera erano pronti ad appoggiare una
rivolta dell'esercito contro la repubblica. Hitler aveva già prospettato
tale eventualità a molte persone, anche al generale Erich Ludendorff,
eminente comandante nella Prima guerra mondiale che, a quell'epoca viveva da
pensionato a Monaco. Tuttavia, capi militari simpatizzanti consigliavano ai
cospiratori di attendere. Il tempo non era ancora maturo: il governo
repubblicano dava segni di riuscire, dopo tutto, a superare la crisi. Ma Hitler
non si lasciò dissuadere. Decise di prendere l'iniziativa,
impadronendosi dei comando dell'esercito, della polizia e del governo e di
usare la Baviera come trampolino al potere nazionale.
L'8 novembre 1923 un gruppo di funzionari governativi, capi militari e
impiegati dello stato si era riunito nella sala di una nota birreria di Monaco,
la Bürgerbräukeller, dove un personaggio dello stato bavarese teneva una
conferenza sulla giustificazione morale della dittatura. Dopo venti minuti
dall'inizio, venticinque SA armati irruppero nel locale, era il segnale che
Hitler attendeva, vicino a una colonna. Sparò un colpo al soffitto e
gridò che quello era l'inizio della rivoluzione nazionale. Relegò
i funzionari in una stanza nel retro e, tornando nei locali, dichiarò
che avrebbe costituito un governo nazionale con l'aiuto di Ludendorff. Il
generale non era affatto al corrente del complotto ma rapidamente informato
acconsentì a dare il suo appoggio ai nazisti. Si recò alla
birreria dove Hitler, dopo un breve discorso acceso che entusiasmò i
suoi stessi ostaggi, liberò i funzionari.
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Ma aveva sbagliato i suoi conti. La mattina dopo, quando con Ludendorff
marciò a capo di duemila uomini nelle strade della città diretto
al ministero della guerra bavarese, sicuro che la città gli si sarebbe
arresa, trovò la strada sbarrata dalla polizia. Nello scontro sedici
nazisti persero la vita, gli altri fuggirono ma furono poi arrestati.
Ludendorff fu rilasciato, mentre Hitler e parecchi altri furono messi in
prigione.
Hitler mise a buon frutto il suo anno di galera. Leggeva voracemente e dettava
i suoi pensieri al suo camerata più intimo nonché comno di cella,
Rudolf Hess. Da questa collaborazione nacque il libro che fu poi considerato la
Bibbia nazista, ovvero Mein Kampf: (La mia battaglia). In questa opera Hitler
esponeva con parole enfatiche i pensieri, le mire e i metodi che furono poi
l'anima del nazismo. Egli sosteneva che, nel passato, culture affermate, quali
il mondo classico e l'Europa medievale, erano state indebolite dall'effeminata
e distruttiva etica ebraico-cattolica che, aggravata da una opaca guida
politica, aveva anche infiacchito l'Europa del dopo-guerra. La cultura che
poteva vitalizzarla era quella germanica, o 'ariana' come Hitler la
definiva. Anche in tempi lontani, dopo la caduta di Roma, i tedeschi erano
stati 'portatori di cultura' e lo sarebbero stati di nuovo ma non
sotto una qualsiasi democrazia smidollata bensì sotto la guida di una
sola ura messianica forte di volontà ferrea. Un tale uomo poteva
cambiare il corso stesso della storia e Mussolini quell'ineguagliabile uomo di
stato con la sua 'marcia su Roma' ne aveva dato dimostrazione.
Il nuovo messia, naturalmente, era lo stesso Hitler, combinazione straordinaria
di politico, filosofo e stratega militare. Con alle spalle il partito nazista
avrebbe riunito tutti i popoli di lingua tedesca in un impero che doveva
dominare le razze inferiori, in particolare gli slavi, e avrebbe conquistato
nuove terre all'est - così come avevano fatto i crociati tedeschi
(cavalieri teutonici) nel XIII secolo. In Russia, la Germania avrebbe trovato
il Lebensraum (lo spazio vitale) di cui aveva bisogno. La Russia era la nemica
naturale della Germania, ora più che mai, perché era in balia di
un'ideologia rivale, il marxismo dietro il quale, secondo Hitler, era ovvia la
presenza degli ebrei, l'incarnazione del male. La vera battaglia sarebbe stata
contro la Russia e contro Stalin, «metà uomo e metà bestia»,
lotta apocalittica che avrebbe deciso del destino dell'Europa per i secoli a
venire.
La Russia doveva essere completamente annientata, le sue città rase al
suolo e il popolo assoggettato in schiavitù. In questo nuovo impero il
«problema» ebraico avrebbe trovato la sua «soluzione finale» con l'estirpazione
totale della cultura ebraica.
In confronto a questo grande piano di espansione all'est, la guerra con
l'ovest, per quanto probabilmente inevitabile, era questione di poca
importanza. Le democrazie liberali erano talmente debilitate che sarebbero
crollate spontaneamente. La Francia sarebbe stata sconfitta e nell'impresa
l'Italia sarebbe stata alleata. La Gran Bretagna, di fatto una nazione tedesca,
non avrebbe opposto alcuna resistenza e sarebbe giunta a un accordo. Per
realizzare queste ambizioni, Hitler intendeva guidare i tedeschi con il mezzo
della proanda. «Essere un capo», diceva, «vuol dire saper muovere le masse».
Dato che per farlo non erano adatti mezzi razionali, occorreva usare la parola
per creare emozioni d'intensità isterica. Un capo doveva saper
restituire alla folla le emozioni della folla stessa, nutrirla dei propri
sentimenti e rafforzare le emozioni con toni perentori e fermi. Non dovevano
esistere esitazioni, debolezze o concessioni. Un capo doveva mentire, se
ciò era utile al suo scopo, e le menzogne dovevano essere grosse «poiché
nelle grosse menzogne c'è sempre una certa forza di credibilità».
Alla tecnica oratoria andavano aggiunti altri due elementi: apparato e rituale,
perché bisognava imprimere la percezione di un potere e una forza superiori a
quelli individuali, in modo da evitare che si facessero sentire voci avverse.
Era una visione barbara, e volutamente tale, perché Hitler era fermamente
convinto che solo con la barbarie la dinamica e sana cultura nuova poteva
rimpiazzare quella vecchia e degenerata. «Siamo barbari», proclamava con
orgoglio. «Vogliamo essere barbari. È un titolo onorevole. Daremo al
mondo nuovo vigore!». Questi piani avevano pochissime probabilità di
attuazione poiché quando fu rilasciato, nel dicembre 1924, Hitler sembrava
politicamente finito. Eppure, nel giro di nove anni, era pronto a riplasmare il
suo paese e l'Europa secondo la sua tremenda immagine.
L'ascesa al potere
Per un po' le circostanze non favorirono Hitler. Intanto perché era ancora in
libertà provvisoria e gli era proibito di parlare in pubblico. Poi,
perché l'economia si stava riprendendo. Passati gli orrori dell'inflazione del
1923 e grazie a una nuova valuta la stabilità andava rinsaldandosi. I
amenti per i danni di guerra erano diminuiti e la Francia si era ritirata
dalla Ruhr. Inoltre, il mondo esterno mostrava fiducia in quanto a presidente
era stato eletto il feld maresciallo Paul von Hindenburg, l'ultimo capo dello
stato maggiore generale che con Ludendorff aveva efficacemente controllato la
politica militare e civile durante gli ultimi due anni di guerra. Dall'America
affluivano ingenti prestiti in dollari.
Tutto quello che Hitler riuscì a raggiungere in quegli anni fu un lento
incremento numerico dei membri del partito, i quali nel 1929 erano arrivati a
essere 178.000, e la costituzione di una organizzazione nazionale. Nel 1928 i
nazisti guadagnarono i loro primi seggi nel Reichstag (parlamento) a Berlino;
tra i dodici candidati eletti uravano Hermann Göring, spavaldo ex pilota
della Luftwaffe, i cui contatti con gli industriali furono di grande aiuto alle
finanze naziste, e il brillante proandista Joseph Goebbels.
Solo nel 1929 le sorti cambiarono a favore di Hitler. Quando il mercato
azionario americano subì il crollo, le banche degli Stati Uniti chiesero
il rimborso dei loro prestiti. Pertanto, le file per il sussidio di
disoccupazione si fecero sempre più lunghe, le imprese chiusero i
battenti e le opere pubbliche furono interrotte. I amenti per i danni di
guerra furono riprogrammati in conformità a un secondo piano, a
più basso livello ma per un periodo proibitivo di 60 anni.
Alle elezioni del 1930 i nazisti sfondarono, guadagnando 10 seggi e sei milioni
di voti, secondi solo ai socialdemocratici. Essendo il capo del partito ormai
una ura nazionale, l'afflusso nel partito aumentò e gli iscritti
raggiunsero il numero di ottocentomila. Le elezioni successive, nel 1932, erano
per la presidenza e Hitler si candidò sfidando il venerabile Hindenburg,
all'epoca ottantaquattrenne. Perse, ma la fortuna volle che, per uno scarto dello
0,4 per cento Hindenburg non riuscisse a ottenere la maggioranza assoluta
prevista dalla legge. Seguì una seconda camna che permise a Goebbels
di orchestrare iniziative elettorali senza precedenti: Hitler traversò
il paese, in aereo, e in una settimana tenne discorsi in venti città.
Hindenburg vinse di nuovo ma Hitler ottenne più voti che nelle elezioni
precedenti, cosa che lo mise in una posizione di forza per le vicine elezioni
parlamentari.
La notte dei lunghi coltelli
Le camicie brune furono organizzate dal capitano Ernst Röhm con gli uomini
più aggressivi del NSDAP, coi diseredati della classe media, di
carattere impetuoso e spirito battagliero. Ben presto la SA fu un vero
esercito. Siccome doveva ugualmente servire per dominare la piazza col terrore
e come efficace strumento proandistico, fu lo stesso Hitler che ne
ideò l'uniforme, come ideò la bandiera e tutti i distintivi
nazisti. Dapprima le comandò lo stesso Röhm; poi, quando questi si
staccò dal partito ed andò ad istruire le truppe boliviane, le
comandò il terribile capitano Pfeffer von Salomon che, in più di
un'occasione, si volle sollevare contro Hitler. Da ultimo, riconciliatisi Röhm
ed Hitler, questi gli affidò nuovamente, nel 1930, il comando,
riservando per sé il titolo di OSAF (iniziali di 'capo supremo dei reparti
d'assalto'). La SA contò anche fra i suoi principali capi Hermann
Göring che ebbe una parte non secondaria nella fortuna della formazione.
In realtà, la SA fu un esercito che riunì due milioni di uomini
sotto le sue bandiere. Ufficialmente mancava di armi e, quel che è anche
più deplorevole, mancava di una organizzazione disciplinare che fosse
degna di tal nome; ragion per cui i suoi elementi, non sempre controllati,
potevano commettere ogni sorta di soprusi, protetti dalla forza del numero,
senza che avessero mai la debita sanzione. L'unità minore era la squadra
costituita da un numero imprecisato di uomini, inferiore però a dodici.
Tali squadre portavano il nome del loro fondatore. Ogni membro della SA poteva
costituire una squadra coi suoi amici, presentarne l'elenco e dichiararsi
responsabile di essi al suo superiore immediato che lo confermava nel comando,
in virtù del decreto di Hitler per il quale poteva essere capo di una
squadra soltanto chi la formasse. Alla squadra seguiva la comnia, formata da
varie squadre in numero inferiore a venti. Seguiva poi il distaccamento, quindi
lo squadrone ed in ultimo il raggruppamento, con un numero d'uomini che variava
da mille a tremila.
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Questo distintivo qualificava il possessore come membro del partito nazionale socialista dei lavoratori tedeschi, detto partito nazista. Il simbolo del partito, poi adottato quale emblema nazionale del Terzo Reich, era la svastica, o Hakenkreuz, croce uncinata. Antico simbolo augurale di culture asiatiche, la svastica era stata usata dai primi cristiani come forma mascherata della croce atta a nascondere la loro fede religiosa. Hitler la copiò, come pure copiò il nome del partito, da quello di una piccola formazione nazionalista austriaca alla quale era associato dopo la prima guerra mondiale. |
La SS costituì da principio una parte della SA. Fu creata dopo
la seconda riorganizzazione del partito nel 1925, quando Hitler uscì di
prigione. Siccome la SA fu l'esercito del partito, la SS venne ad essere, una
volta ch'ebbe struttura propria sotto il comando di Himmler, la guardia di
Hitler, vestita di nero, con berretto invece di chepì, gradi d'argento e
un teschio per distintivo. La guardia o SS fu una élite di uomini accuratamente
selezionati. Col tempo venne a rappresentare la nobiltà del partito. La
sua disciplina fu rigorosissima. Non si permetteva ai suoi uomini né di fumare
né di abbandonare una cerimonia prima del suo termine; non potevano neppure
contrarre matrimonio senza permesso dei loro superiori; e per ottenere tale
permesso dovevano sottomettersi, con le loro fidanzate, ad una visita medica
per accertare la loro idoneità alla procreazione dal punto di vista razziale.
La SS aveva tra i suoi compiti la protezione dei suoi capi, il servizio
d'informazione e di spionaggio sulle organizzazioni nemiche, la repressione
della SA quando si rendeva necessaria e soprattutto la custodia dei campi di
concentramento. Konrad Heiden distinse la SS dalla SA dicendo che mentre la
seconda rappresentava il principio rivoluzionario, la prima rappresentava
invece il principio conservatore. E così era, infatti, perché mentre la
SA fu di enorme utilità a Hitler fin che ebbe da lottare per la
conquista del potere, quando lo ebbe conseguito divenne piuttosto un ingombro
per le sue stesse esigenze rivoluzionarie che, a ben vedere, non erano altro
che una legittima richiesta del compimento delle promesse fatte da Hitler
dall'opposizione. La SS invece si dimostrò un'organizzazione
efficacissima per la conservazione del potere.
Quantunque il nazismo si fosse messo subito a cantar vittoria in tutti i campi,
come se effettivamente avesse risolto, o fosse in via di risolvere, i problemi
e le mille difficoltà che pesavano sul cittadino tedesco che gli aveva
dato il voto, la situazione interna era un vero disastro. Molte feste, molto
chiasso, molti 'Heil!', ma il nazismo non mantenne nessuna delle sue
promesse. Aveva promesso di ridurre le imposte e le aumentò. Aveva
promesso di diminuire il costo della vita e i prezzi salirono nella proporzione
del 50 per cento la carne, il burro e le verdure, del 100 per cento il latte e
le patate, del 40 le uova, senza che ciò significasse neppure un
beneficio per i commercianti, perché ad un maggior numero di affari corrispose
un maggior aggravio fiscale. Aveva promesso di favorire i piccoli commercianti
e favorì invece i grandi magazzini. Aveva promesso di aiutare i
contadini ed aiutò invece i grandi proprietari. Invece di ripartire le
terre dei latifondisti (due terzi della terra tedesca era nelle mani dei
Junker, un tre per cento nelle mani di grandi agricoltori ed il resto ripartito
fra cinque milioni di famiglie o fittavoli con meno di cinque ettari), uscirono
le nuove leggi sull'eredità della terra e sulla selezione dei contadini.
Se un contadino tedesco possedeva un prato, un orto quattro vacche ed una
vigna, col pretesto che perdeva troppo tempo per andare da un luogo all'altro e
che non avrebbe quindi potuto specializzarsi, lo si obbligò a disfarsi
delle sue proprietà dedicandosi ad una sola con maggior profitto. La
nuova legge ereditaria che stabilì il diritto della primogenitura nelle
proprietà che avessero più di sette ettari, fece abbandonare i
campi ai li più giovani. In una parola, tutto in favore delle grandi
proprietà e niente in favore del contadino. La classe media rurale, che
in Germania era immensa, perché costituiva quasi la metà della
popolazione tedesca, risentì ben presto gli effetti dell'inganno. Ed era
proprio questa classe media rurale che con l'altra classe media cittadina aveva
dato i voti al nazismo, quella che sperava dall''ordine nuovo' la sua
fortuna o almeno il suo benessere. Il nazismo defraudò l'una e l'altra. Come
nelle città tutto andò a beneficio dei grandi commerci, ai cui
posti direttivi vennero messi i benemeriti del movimento, nelle camne tutto
andò a beneficio dei grandi proprietari; si mirava anzi a creare una
nuova casta di nobili rurali, quadro eccellente per premiare gli uomini della
SS. I contadini spogliati delle loro terre e i loro li passarono ad
ingrossare le file dei disoccupati della città.
Non si capiva davvero a che cosa mirasse il nazismo con questo strano sistema
di caste aristocratiche e sub-aristocratiche che aggravava il problema della
disoccupazione, cavallo di battaglia della proanda di Hitler fin che rimase
all'opposizione. Il 15 maggio 1934 uscì poi una legge che aboliva il
diritto di ogni cittadino di cercar lavoro fuori del suo distretto, di modo che
praticamente non poteva più esser libero di muoversi dentro il proprio
Paese. Non si comprendeva proprio che cosa si perseguisse, quando
cominciò l'assunzione di tutti i disoccupati della nazione, maschi e
femmine. La deportazione poi dei disoccupati, senza tener conto di circostanze
familiari o personali, in altre regioni agricole, gettò luce finalmente
sui propositi del nazismo. Tutto apparve chiaro. Prima si procedette ad
aumentare l'elemento 'umano-volante', poi, senz'alcuna considerazione,
si cominciarono le migrazioni. Tutti coloro che si erano iscritti nei registri
dei disoccupati, in attesa che il magnifico regime di Hitler offrisse loro un
posto, si videro obbligati a partire, in fretta e furia, in quei lunghi treni
di greggi umane, per i Junker. Tutt'insieme: operai, dattilografe, maestre,
impiegati Il comando dell'esercito di schiavi non badava a dettagli di
attitudine, disposizione e tanto meno di volontà. Più di due
milioni di uomini e donne - compresi quelli che dopo la loro iscrizione fra i
disoccupati avevano trovato un posto - furono mobilitati come schiavi; e da
quel momento cessarono di appartenere alla comunità cittadina, perché,
una volta compiuto il servizio di sei mesi, restavano iscritti come operai
dell'agricoltura e, come tali, senza neppure il diritto al sussidio di
disoccupazione. In tal modo, col brutale procedimento di Göring, ideatore del
piano, si aumentò la popolazione agricola della Germania e «si
trovò una buona soluzione al problema della disoccupazione». Quelle dattilografe
e quegli impiegati che in abito cittadino vennero trasportati in regioni
agricole, non solo ricevettero un'alimentazione insufficiente, ma anche, per
tutta ricompensa - e nei casi più favorevoli - meno di 20 marchi al
mese. Il mantenimento di un carcerato costava di più. Ci furono regioni
in cui i grandi agricoltori furono autorizzati a scegliere il loro personale
dopo un esame fisico come nei mercati di schiavi. Non si ebbe nessuna
considerazione né di geografia né di clima, né di sesso né di attitudini, né di
resistenza fisica Il servizio del lavoro non riconobbe impedimento alcuno
nell'attuazione del piano di Göring. Secondo tale piano, i disoccupati
costituivano un settore superfluo della popolazione. Meglio sfruttare che
ammazzare, si diceva. La mano d'opera per sollevare l'agricoltura tedesca
'al servizio dell'autarchia' fu ottenuta ad un prezzo irrisorio. Il
lavoro era dall'alba al tramonto, l'alimentazione pessima e il salario
inferiore a quello dei braccianti polacchi.
Il curioso è che queste colonne volanti di schiavi strappati dalla
città - che in seguito servirono non solo per lavori rurali ma anche per
qualsiasi altro genere di lavoro, costruzione di autostrade, fortificazioni,
ecc. - erano costituite dai primi votanti per il regime nazista, da quei
disperati che avevano cercato la loro salvezza e la loro fortuna al calore
della parola del Führer, così larga di promesse. Disturbavano il nazismo
appunto per la loro fede nel nazismo. Costituivano l'elemento ideale per le
colonne volanti del lavoro forzato. Offrivano mano d'opera gratuita. Si erano
confessati inetti nella lotta per la vita perché non avevano saputo
accaparrarsi i posti che altri più furbi, erano riusciti a conquistarsi.
Erano classe media, ma si aveva bisogno di essi come classe, non già
proletaria, ma schiava. L'autentica classe proletaria seppe resistere. La
classe media no. Quelle ragazze con calze di seta piene di rammendi e quei
giovanotti coi pantaloni lucidi non conoscevano la lotta, credevano nel nazismo
e nel suo Führer, e andarono dove li portarono politicamente e fisicamente.
Molti, è vero, cercarono di disertare, ma la repressione era assai
severa. D'altra parte, non potevano più lavorare neppure nel proprio
distretto. No, in questo senso il nazismo sapeva far le cose bene. Quando si
proponeva una cosa, andava fino in fondo.
Intanto, il mondo restava stupefatto dalla genialità di Hitler che
«liquidava il problema della disoccupazione», rialzava l'agricoltura tedesca e
mobilitava la sua gente da un capo all'altro del Paese solo muovendo un dito.
Fu però un colpo cosi tremendo per la classe media, che il suo esercito,
la SA, cominciò ad agitarsi. Nelle caserme si avvertivano segni di
malcontento; tutti dicevano che quella non era più la 'loro
rivoluzione', anzi, tutto il contrario della cuccagna ch'era stata loro
promessa. I grandi magazzini, i latifondi, i trusts, l'aristocrazia erano i veri beneficiari della rivoluzione.
I militi della SA ricevevano lettere dai loro parenti nelle quali si rifletteva
più disperazione che entusiasmo. Aspettavano che si mantenessero le
promesse, raccontavano le loro sventure, si lamentavano
La milizia bruna, con Röhm alla testa, era di circa due milioni d'uomini. Era
l'esercito del partito o, che è lo stesso, l'esercito della classe
media. La sua rivoluzione consisteva almeno nella spartizione dei grandi
magazzini a favore dei piccoli commercianti, nella spartizione dei latifondi,
nella divisione di tutto. Non alla maniera comunista, ma col più
assoluto rispetto della piccola proprietà. Volevano uno stato della
classe media. E volevano la loro incorporazione nell'esercito coi gradi che
avevano conquistato in piazza nelle battaglie per portare Hitler al potere. Per
dieci anni avevano aspettato la 'loro ora', credevano quindi di
meritare almeno tre giorni di assoluta libertà per fare la loro
rivoluzione, come capitasse: si sentivano tutti generali. Avevano sconfitta la
classe operaia e chiedevano il loro premio.
Tutto però dava a vedere che nella 'loro' rivoluzione stavano
per essere giocati. Cominciarono quindi a mostrarsi inquieti e ad inquietare
anche gli altri. Il loro capo, il capitano Röhm, la cui antica rivalità
con Hitler non cessò mai completamente, chiese il Ministero della
guerra. Niente di più, ma niente di meno. Aspirava a fondere la
Reichswehr e la SA in un solo organismo gigantesco, che lo avrebbe messo in
condizione di essere da più di Hitler.
In Germania non si parlava d'altro in quelle giornate intense. Nessuno poteva
ancora precisare i due bandi; e neppure da che parte fosse Hitler. Goebbels a
momenti pareva stare con la SA ed a momenti contro. Göring era contro. Ma era
evidente che la Reichswehr, i capi dell'esercito, si sarebbero opposti alla
richiesta di Röhm. Questo fatto decise Hitler.
Quando decretò il congedo degli uomini della SA, che a sentir lui
avevano bisogno di riposo, si vide chiaramente che si disponeva a fare qualche
cosa di straordinario. Le arringhe di Röhm, i suoi messaggi ad Hitler, le sue
bravate, riscaldarono anche di più quell'ambiente nel quale si sentiva
già odor di polvere.
Il 30 giugno 1934 fu una tragedia grottesca la cui origine nessuno è
ancora riuscito a capire con esattezza. Sembra che il maggior intrigante sia
stato Göring, perché Göring denunciò ad Hitler un falso complotto di
Röhm e dei suoi capitani per conquistare il potere. Von Papen, da parte sua,
intrigò in modo così strano che ancora oggi non si capisce come
si sia poi salvato. Goebbels si comportò in modo non meno strano. Fatto
sta, come tutto il mondo ricorda, che il 30 giugno morì anche il
suggeritore, come si disse allora, perché mentre Hitler con una dozzina di SS
sorprendeva il malcapitato Röhm, che certo non se l'aspettava, e i suoi
capitani a Monaco, Göring «per sicurezza di Hitler e in difesa del nazismo in
pericolo» si buttò contro tutti coloro che riteneva suoi nemici
personali, che potevano fargli ombra e che conoscevano i suoi delitti. Si
salvò Goebbels perché fu tanto intelligente che non si allontanò
neppure un istante dal suo Führer, disposto a dar la vita in sua difesa.
Cadde l'ala rivoluzionaria del partito, cadde Röhm, capo di due milioni di
uomini, leader militare, rivoluzionario passionale e uomo di talento, ma
vizioso e senza scrupoli. In realtà l'unica ura del nazismo che
poteva parlare con Hitler da pari a pari. Caddero Heyner, Heidebreck, Gerd,
Ernst Killinger, Hayn, Schueidehuber, Detten - la vecchia guardia in pieno -
senza resistenza da parte di nessuno di essi e senza difesa da parte dei loro
uomini. Una giornata vergognosa per il nazismo. 'La classe media' ha
detto Ernst Henri, è condannata a perdere i suoi capi per esecuzione o
per tradimento. Niente di più vero. L'esercito della classe media
tedesca si rivelò vile. Non una voce si levò in favore dei
caduti. Non ci fu un tumulto, non una protesta, non una domanda di spiegazione.
Si accettò quel poco che la proanda nazista lasciò dire:
«Hitler aveva salvato il Paese dalla sua rivoluzione nazionalsocialista».
Semplicemente grottesco. Si parlò di cospirazione con fondi misteriosi,
si parlò di tradimento della patria perché si disse che i cospiratori
erano in relazione con delle potenze straniere. La giustificazione pubblica,
brevissima, fu altrettanto balorda. Göring aveva assassinato Grefor Strasser,
il generale Bredow, capo dello spionaggio militare tedesco, il generale
Schleicher (ed anche sua moglie, della quale si disse che fu l'unica donna che
si comportò come un uomo), von Kahr e molte ure del centro cattolico.
Si disse che il dr. Brüning si salvò grazie alla protezione che gli offerse
l'Ambasciata inglese. Morì anche il prete che aveva corretto 'La mia
battaglia', perché mentre Hitler si liberava dei suoi presunti insubordinati e
nemici dentro il partito e Göring si liberava dei suoi con ferocia vendicativa,
Himmler si dedicò a cancellare tutte le tracce del volgare passato del
caporale Hitler, con una diligenza ammirevole.
Nessuno ha spiegato meglio di Henri, nel suo libro 'Hitler sopra la Russia' -
nel modulo intitolato 'La notte dei lunghi coltelli e lo splendore del
fascismo' - quelle giornate di brutale drammaticità. Henri ha detto
bene che la classe media è vile, incapace di lottare apertamente senza
l'appoggio della legge. Mette soprattutto in evidenza che i due milioni di
uomini che erano agli ordini di Röhm, e vedevano in lui e negli altri loro
capitani i caudillos che dovevano condurli alla vera rivoluzione nazista, non
mossero un dito. L'epurazione fu compiuta senza che si trovasse il minimo
ostacolo. Proprio mentre dormivano, sorpresi alla cieca. È vero che
vivevano nell'orgia e nel vizio più abbietto, ma, a parte il fatto che
Hitler non ignorò mai queste loro 'debolezze', «erano gli
autentici capi del movimento nazista». Nessuno disse niente. Morirono con
l''Heil Hitler!' sulle labbra, senza ben comprendere quel che
succedeva. E in tutta la Germania non si ebbe altro tentativo di protesta che
quello degli studenti di Heidelberg. Nessuno si difese e nessuno li difese. I
titani del nazismo soccombettero come donne che implorano grazia. Gli stessi
che avevano terrorizzato il Paese. Gli stessi che aspiravano a costituire il
grosso dell'esercito nazionale.
Da quel momento apparvero ben chiare le direttive di Hitler. Niente
rivoluzione. Ci sarebbe stato soltanto lui, con la sua intuizione per guida e
la sua liberissima volontà per legge. Li doveva conoscere molto bene i
suoi valorosi comni, quando si presentò nel quartiere generale di
Röhm accomnato soltanto da una dozzina di SS.
La notizia si sparse in un baleno. Quanto poi fosse arbitrario il castigo
apparve subito dalla enorme contraddizione dei primi rumori. Siccome si sapeva
che c'erano stati dei morti a Monaco ed a Berlino, a carico di Hitler e di
Göring, si sentiva ugualmente dire che avevano ammazzato tutti i capi nazisti,
o i cattolici o i generali. Ogni tedesco si toccava la testa contento di
sentirsela ancora sulle spalle. E quando arrivò la proanda di
Goebbels con la buona novella che erano periti tutti 'i malvagi' e si
erano salvati 'i buoni', perché Hitler potesse condurre a termine
senza inciampi la grande impresa che la Provvidenza gli aveva indicato per la
felicità del suo popolo, nessuno osò metterlo in dubbio. Per
elementare ottimismo conveniva credere così. Certo che se erano tanto
malvagi, ed era stato sulle loro spalle che Hitler poté raggiungere il potere,
lo stesso Führer usciva un po' male dalla losca faccenda. Ad ogni modo
s'incaricò Goebbels di trar partito dal macabro fattaccio in favore di
Hitler che mostrava tanta energia da poter purificare le file del suo stesso
movimento. Gli ssi si addossarono la colpa di tutte le atrocità
naziste. «Hitler, che non ci aveva mai creduto, quando si convinse della loro
malvagità, li liquidò.» Punto e a capo. Adesso senza la
collaborazione ingombrante degli uomini malvagi che avevano screditato il
movimento, si doveva riprendere la marcia trionfale fino alla vittoria.
Sso Röhm, crebbe tanto il potere di Göring, che d'allora in avanti fu
conosciuto come 'l'imperatrice del Terzo Reich'. La deificazione del
Führer raggiunse limiti pazzeschi. Dopo una lezione così brutale, dopo
aver mostrato di qual tempra era, poteva lasciare ai suoi uomini intera
libertà di azione perché senza più guardar a nulla facessero del
Paese un alveare nazista. Da quel giorno la Germania fu creata dalle mani degli
uomini di Hitler. Il Führer aveva insegnato loro la tecnica del mestiere e non
precisamente con parabole.
Il sangue si è rivelato il miglior lubrificante per certe macchine. Il
nazismo scivolò come su rotaie a partire da quel momento. E Hitler,
ormai senza pensieri, poté dedicarsi interamente alle sue enormi ambizioni
geopolitiche.
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Nel marzo 1933 Hitler saluta con deferenza il presidente Paul von Hindenburg alla cerimonia che ebbe luogo a Potsdam in occasione dell'apertura del parlamento. A Hitler era stata conferita la carica di cancelliere due mesi prima, dopo che, senza successo, aveva sfidato il popolare Hindenburg nell'elezione presidenziale. Secondo la costituzione, l'ottantacinquenne ex feldmaresciallo aveva diritto di veto sulla legislazione nazista. Ma Hitler riuscì a far passare il suo programma per decreto, con il pretesto del pericolo di sovversione comunista (dopo l'incendio della Reichstag). Quando Hindenburg morì nell'agosto del 1934, Hitler ne assunse la carica. |
Cinque settimane dopo la 'notte dei lunghi coltelli', il
già sofferente Hindenburg morì e, con una mossa predisposta con i
capi dell'esercito, che gli dovevano gratitudine, Hitler fuse il cancellierato
con la presidenza che comportava anche il comando delle forze armate.
Nominandosi Führer (guida) del popolo tedesco, Hitler volle che tutti gli
ufficiali e gli uomini in generale giurassero «ubbidienza incondizionata» non
allo stato né alle istituzioni ma alla sua persona. Per ultimo indisse un
plebiscito per convalidare le sue azioni: il 90 per cento della popolazione
dette il suo assenso.
Nulla più ostacolava Hitler dal mettere in atto il suo piano per la
creazione di una Germania più grande sotto il suo esclusivo dominio. Un
processo di «coordinamento» legalizzò i suoi sforzi portando ogni forma
di vita organizzata sotto il controllo del partito nazista. A capo dei
parlamenti, delle amministrazioni e delle forze di polizia furono messi capi
nazisti. Tutti i partiti politici, tranne quello nazista, furono dichiarati
fuorilegge. Un nuovo tribunale del popolo eseguiva processi per tradimento,
reato che veniva stabilito dal tribunale stesso. Le bande delle SA erano immuni
da procedimenti giudiziari. Un nuovo 'fronte del lavoro' prese il posto
dei sindacati. Sorsero i primi campi di concentramento. Nel 1935, in
ottemperanza alle infamanti leggi di Norimberga, gli ebrei furono esclusi dagli
affari e dalle professioni e furono loro proibiti matrimoni con
'nazionali' tedeschi. La chiesa protestante fu posta sotto il
controllo dello stato mentre ai preti cattolici, per accordo con il Vaticano,
furono proibite le attività politiche. Gli insegnanti furono costretti
ad aderire alla lega nazista degli insegnanti e, fin dall'età di sei anni,
i bambini erano cooptati nella 'gioventù hitleriana'.
Gioventù hitleriana
È un aspetto che apparteneva interamente al settore della proanda
nazista. Perché non mancò di accorgersi, un maestro di proanda
com'era Hitler, della enorme importanza che la formazione nazista dei giovani
doveva avere per il suo regime di ambizioni millenarie. Il sequestro della
gioventù nazista per parte del nazismo fu rapido e totale, sotto la
personale vigilanza del Führer. Non si trascurò nulla. Il sequestro
cominciava nella scuola, anzi, nel giardino d'infanzia. I quaderni dei bambini
mandavano un forte odore d'hitlerismo. Le ingenue parole dei nostri abecedari
furono sostituite con vocaboli meno inoffensivi e gl'infantili disegni con
stampe di cattivo gusto e di studiata intenzione. Dove prima si leggeva
'cavallo', ora si leggeva 'Can-no-ne' e dove prima si
vedevano ure del regno animale, ora si vedevano sfilate di SA.
La scuola fu nazista. Dal saluto al modo di spiegare le materie. Una revisione
dei testi ed un implacabile allontanamento dei professori recalcitranti diedero
ben presto il frutto desiderato. D'altra parte, non era tanto nella scuola
quanto fuori di essa dove l'infanzia e la gioventù del Reich furono
sottoposte ad una cura diabolica di esaltazione patriottica: esaltazione della
disciplina ed esaltazione del Führer. Il peggio succedeva al margine della
scuola, nei quadri della 'Hitlerjungend', dove si tenevano le
pericolose concioni naziste a poveri ragazzi organizzati come minuscoli
eserciti.
I genitori perdevano il controllo dei loro li; quasi non c'era giorno che
bambini e ragazzi non fossero di 'servizio'. Imparavano a marciare,
ad aver coraggio, ad obbedire, a comandare, a credere ciecamente nella
infallibilità del Führer. Si distruggevano gli affetti familiari - che
secondo il nazismo dovevano essere sostituiti da quelli del cameratismo -
considerati fiacchi sentimentalismi e s'inoculava nei ragazzi il senso del
coraggio, della vita rude, la venerazione per la forza fisica, l'ambizione del
comando; e tutto senza tanti riguardi, alla militaresca.
Non si liberavano neanche le bambine. Nelle interminabili sfilate delle
solennità hitleriane sfilavano con le loro gambette indurite dal
costante esercizio, né più né meno che i maschi.
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Ragazzi della 'Hitlerjungend' con sguardo d'acciaio e portamento fiero come conviene a futuri soldati. Hitler era deciso a creare una generazione di giovani dotati di coraggio marziale e di dedizione al capo, eroico salvatore del popolo. La controparte dell'altro sesso doveva essere modello di femminilità, ideali impliciti sull'abbigliamento e nel contegno delle appartenenti alla lega delle giovani tedesche. Per legge escluse da alte cariche del partito, dalla docenza universitaria e dalla magistratura, le donne non erano incoraggiate ad altro ruolo che a quello di madri. «Per ogni bambino che una donna dà alla nazione», dichiarava Hitler, «essa combatte la sua battaglia nell'interesse della nazione». |
La devozione della gioventù per il Führer passò ogni limite. La
sua presenza, o soltanto la sua voce, ipnotizzava i ragazzi come una scarica
elettrica. Genitori, sacerdoti e pastori protestanti si vedevano ormai incapaci
di arrestare il fenomeno hitleriano in quei teneri cuori. Se li sentivano
sfuggir di mano, consacrati alla maggior gloria di Hitler. Il fatto che la
proanda nazista identificasse la patria col Führer ebbe conseguenze decisive
nel mondo dei giovani. I li si credevano ormai quasi obbligati ad insegnare
il patriottismo ai loro genitori. E quando si levava qualche voce a criticare
il nazismo in seno a qualche famiglia, il più che potevano ammettere i
giovani era che «effettivamente, c'erano dei capi nazisti poco scrupolosi che
un giorno avrebbero ricevuto il giusto castigo dal Führer, il quale per il
momento non aveva tempo di occuparsi di simili miserie». Il Führer non si
sbagliava mai; il Führer era puro, bisognava aver fede cieca nel Führer
salvatore della Germania.
Baldur von Shirach, comandante della gioventù hitleriana, protetto da
Hitler e fedele a Hitler al di sopra di ogni scrupolo, seppe tessere, ispirato
dal suo capo, la rete nazista che come una enorme ragnatela imprigionò i
giovani cuori del Reich. Con feste ane, marce militari, bivacchi nei boschi,
escursioni, conferenze e regime di rigorosa disciplina, poté mettere ai piedi
del Führer, «perché questi ne disponesse come credeva» le giovani generazioni
tedesche dalle quali dovevano uscire i futuri capi nazisti fatti per comandare
e i futuri schiavi fatti per obbedire. «Heil Hitler!», gridavano in atto di
sfida agli uomini maturi ed agli stranieri.
La proanda
Fu il forte di Adolf Hitler. Un vero maestro; e in questo fu sempre coerente. I
suoi aforismi, cinici ma magistrali, rimarranno per sempre in tutte le scuole
di proanda, fin che la proanda continui ad essere quel che è. Ecco
ciò che scrisse nel Mein Kampf (La mia battaglia):
«Quando entrai nel partito mi assunsi tosto la direzione della proanda. La
proanda deve precedere di molto l'organizzazione e guadagnare a questa il
materiale umano da elaborare.
Ogni proanda dev'essere necessariamente popolare e adattarsi al livello
intellettuale e alla capacità recettiva del più limitato di
coloro ai quali è destinata. Il suo grado nettamente intellettuale
dovrà quindi orientarsi tanto più in basso quanto più
grande sia la massa umana cui si rivolge. Ma quando si tratta di attrarre nel
raggio d'influenza della proanda tutta una nazione, come esigono le
circostanze nel caso di una guerra, non si sarà mai abbastanza prudenti
nel cercare che le forme intellettuali della proanda siano quanto più
è possibile semplici.
La capacità delle grandi masse popolari è estremamente limitata e
altrettanto limitata è la sua facoltà di comprensione; per contro
è enorme la sua mancanza di memoria. Tenendo in conto questi fatti, ogni
proanda efficace deve concretarsi in pochissimi punti e saperli sfruttare
come apoftegmi affinché anche l'ultimo lio del popolo possa formarsi un'idea
di quel che si vuole.
La finalità della proanda non consiste nell'andar contro i diritti
degli altri, ma nel mettere esclusivamente in evidenza i propri. Errore
capitale fu quello di discutere la questione della colpa della guerra, e di
considerare che soltanto la Germania era responsabile dello scoppio della
catastrofe. Molto meglio si sarebbe agito attribuendo tutta la colpa al nemico,
anche se non era vero.
Le masse sono incapaci di distinguere dove termina l'ingiustizia altrui e dove
comincia la propria. La gran maggioranza del popolo è, per natura,
così femminile che il suo modo di pensare e di agire dipende più
dalla sensibilità che dalla riflessione. Questa sensibilità non
è affatto complicata, ma semplice e schietta. Non esistono molte
differenziazioni, ma soltanto un estremo positivo ed un altro negativo: amore e
odio, giustizia e ingiustizia, verità o menzogna; mai stati intermedi.
Il successo di ogni proanda, tanto nel campo commerciale quanto in quello
politico, suppone un'azione perseverante e la costante uniformità
dell'applicazione.»
Il rigore con cui Hitler si mantenne fedele a queste e ad altre norme
proandistiche fece veri miracoli. Non solo esponeva delle norme, ma le
seguiva con una meticolosità che quasi non si comprende in un uomo come
lui. Goebbels, il suo unico e miglior discepolo, che gli era vicino più
di ogni altro collaboratore, aumentò straordinariamente le prescrizioni
proandistiche del Führer. Hitler ne era proprio orgoglioso e lodava
soprattutto la sua abilità nell'insistere su qualche motivo
accuratamente scelto.
Aveva detto una volta che «la proanda non era che un mezzo», ma in
realtà finì per essere un fine a se stesso. Il nazismo non si
ridusse che a proanda e metodo. Proanda per rendere possibile il metodo,
metodo per assicurare la proanda.
Il metodo consisteva in norme categoriche per impedire la proanda avversaria
e facilitare la propria. Tutto ciò che tendeva a questo doppio fine,
ostacolare gli avversari e facilitare il proprio cammino, fu messo in pratica.
Fin che non raggiunse il potere, il metodo doveva essere il più possibile
clamoroso per prevalere e non lasciar udire nessun altro. Una volta poi al
potere, il metodo servì la proanda per mezzo di una feroce
repressione poliziesca.
'Un impero, un capo, un popolo! Sangue e terra! Rendiamo grazie al nostro
Führer!' erano certamente frasi vuote, ma, a forza di essere ripetute,
rimasero come denominatore comune, invisibile, ma sempre presente, di tutto il
fermento nazionale. Si stabilì in tal modo la premessa fatale che il
Führer era poco meno che un invito da Dio per la felicità dei tedeschi.
Frasi come queste, semplici ed enfatiche, martellate con una costanza ed
un'abbondanza di mezzi, bandiere a profusione, sfilate quotidiane, altoparlanti
in tutti gli angoli delle vie, sectiunelloni lungo tutti i marciapiedi, che
facevano della strada una sfacciata vetrina nazista, ripetevano costantemente,
hitlerianamente, mezza dozzina di frasi fino a saturare completamente i pori di
ogni cittadino. Il Reich era come un'esposizione permanente di hitlerismo, e
quando per qualche speciale avvenimento conveniva riscaldare anche di
più l'ambiente, le vetrine esibivano tra ghirlande di fiori migliaia di
ritratti del Führer e tutto ciò che si vedeva e udiva non era altro che
un riflesso della presenza nazista.
Invece di abusare di grandi ritratti da portare in giro, come si faceva in
Russia con le efi di Lenin e di Stalin, la tecnica nazista si servì
di sectiunelli con scritte a caratteri cubitali che, effettivamente, rendono di
più. Da Mussolini prese il saluto romano e la teatralità. Dalla
Russia la deificazione del capo del movimento, le feste del lavoro, i cori
d'uomini che pronunciavano all'unisono frasi tremende Tutto migliorato e
perfezionato scientificamente. Si capisce che il popolo tedesco doveva
soccombere, come altri popoli soccombono ogni giorno vittime della proanda
commerciale poco scrupolosa, disprezzando il meglio per il peggio. Come la
donna di casa, il passante, il lavorante, che, non sapendo niente di farmacia,
si lasciano convincere dalla pubblicità di un rimedio per i propri
dolori, così il popolo tedesco, materialmente schiacciato dal peso di
una proanda che lo perseguitava in ogni angolo di strada, in ogni giornale,
in ogni a altoparlante, finì per cedere. Non si riesce mai a capire per
qual fenomeno il nazismo, nonostante quanto si è detto, non abbia mai
avuto la maggioranza in elezioni libere. Fin che si poté udire la voce degli
antinazisti, sempre più fiacca e svogliata, la maggioranza non cedette.
Metodo e proanda, proanda e metodo, Himmler e Goebbels, Goebbels e Himmler,
mani del Führer, resero possibile questo fenomeno hitleriano che a chiunque se
ne stia tranquillo nella propria casa sembra impossibile ma in realtà
avrebbe potuto verificarsi in qualunque altro Paese. Anche nelle pacifiche
dimore democratiche, perché è appunto la strada della democrazia,
sfruttata fino all'assurdo, quella che meglio conduce a tali abissi, quando se
ne impadroniscono i malefici geni della proanda.
L'annessione dell'Austria
Per un certo periodo sembrò che la rivoluzione nazista stesse dando
ciò che aveva promesso. Hitler nulla sapeva di economia ma sapeva
ciò che volevano i tedeschi: lavoro e orgoglio nazionale. In alcune zone
le misure naziste ebbero in realtà un benefico effetto sull'economia.
Furono vietati gli scioperi e, grazie ai piani di lavoro - particolarmente
nelle industrie belliche, agricole ed edili - nel 1935 la disoccupazione era
scesa da sei milioni di persone a 1,7 milioni. In generale, però, il
recupero dell'economia tedesca fu dovuto più all'opera intelligente degli
amministratori finanziari che non alle iniziative naziste. Sotto la guida di
Hjalmar Schacht, presidente della Reichsbank e ministro dell'economia furono
nuovamente ripianati i debiti con l'estero, concessi sussidi per l'esportazione
al fine di incrementare il commercio estero e raggiunti accordi di scambio per
ottenere le materie prime d'importanza vitale. Di conseguenza, la produzione
pro capite aumentò del 64 per cento nei primi sei anni di governo
hitleriano e, alla fine degli anni '30, la produzione nazionale di petrolio,
materie plastiche, fibre e gomma sintetiche era duplicata.
I risultati del benessere economico tedesco furono per la maggior parte
impiegati nella ricostruzione della potenza militare nazionale. Hitler aveva
espresso chiaramente, già qualche settimana dopo. la nomina a
cancelliere, le sue priorità. «Qualsiasi progetto pubblico atto a
produrre occupazione deve essere valutato con un solo criterio: è, o no,
indispensabile alla restaurazione delle capacità belliche della nazione
tedesca?». Le condizioni del trattato di Versailles stabilivano che l'esercito
tedesco non doveva superare le centomila unità, che la marina doveva
essere simbolica e l'aeronautica inesistente. Hitler aveva sempre ritenuto
queste limitazioni inique. Pertanto ora pretendeva uno stato di parità.
Forse, propose, altre nazioni dovrebbero livellare il loro disarmo a quello
tedesco ma la proposta non fu accolta. Pertanto, si ritirò dalla
Società delle Nazioni, l'organizzazione internazionale costituita dal
trattato di Versailles a salvaguardia della pace mondiale. Hitler mise a punto,
agli inizi segretamente poi apertamente, un massiccio piano di riarmo con lo
scopo di creare per la Germania le condizioni idonee a muovere una guerra
offensiva entro il 1940. Nel 1936 annunciò la sua intenzione di
sestuplicare gli stanziamenti bellici che, da quasi sei miliardi di marchi,
avrebbero, nel 1939, dovuto superare i trentadue miliardi. lì 5 novembre
1937, nel corso di una conferenza riservata con i suoi capi militari Hitler li
mise al corrente delle sue mire a lungo termine in Europa. Il Lebensraum era
necessità assoluta e pertanto era di importanza basilare che nell'arco
di tempo tra il 1938 e il 1943 la Germania si aggregasse l'Austria e la
Cecoslovacchia, occupasse la Polonia e per ultimo invadesse e conquistasse la
Russia.
Al momento del suo incontro con Mussolini nel 1934 Hitler aveva già in
mente la sua prima avventura all'estero, l'annessione dell'Austria. Da quando
era salito al potere, il partito nazista viennese aveva dimostrato grande
interesse a che la Germania saldasse un'unione indissolubile - Anschluss - con
il paese che gli aveva dato i natali. Nel luglio 1934 alcuni membri del
partito, vestiti da soldati austriaci, uccisero, sparandogli, il cancelliere
austriaco, Engelbert Dollfuss, un dittatore che odiava alla stessa stregua
nazisti e comunisti. Ai cospiratori, però, non fu dato appoggio né
dall'esercito né dal governo austriaco. Essi infatti vennero arrestati mentre
Mussolini, che era garante dell'indipendenza austriaca, inviò
cinquantamila soldati al confine del Brennero. Hitler ne fu colpito: gli era
sembrato che, quando si erano incontrati a Venezia il mese prima, il duce gli
avesse dato la sua approvazione. Per il momento desistette da ogni ulteriore azione,
rinnegando un suo qualsiasi collegamento con l'assassinio, ma cercò di
distogliere , Mussolini dal suo impegno con l'Austria.
I due anni successivi furono deludenti per Hitler. Fu solo nel 1936, quando il
suo esercito era cresciuto a più di mezzo milione, che gli riuscì
il suo primo colpo in politica estera. Il 7 marzo, colonne di soldati di
fanteria marciarono al passo dell'oca su Colonia e altre città
importanti tra il Reno e il confine francese. A termini del trattato di
Versailles, la Renania era zona smilitarizzata. In pratica Hitler aveva violato
il trattato. Un'immensa folla di tedeschi lo acclamò entusiasticamente e
con un plebiscito, pratica ormai radicata per far mostra di popolarità,
il popolo delle Renania approvò la sua azione con uno schiacciante 93,8
per cento di voti.
La Francia e la Gran Bretagna protestarono ma non agirono: nessuno era disposto
a credere che Hitler stesse attivamente preparando la guerra. La maggior parte
degli statisti preferì pensare che cercava semplicemente di cancellare
le umiliazioni che molti avevano comunque giudicate ingiuste. Se la Francia
avesse mandato le sue truppe, i simbolici reparti militari di Hitler si
sarebbero dovuti ritirare, ma nessuno se la sentiva di fare guerra a Hitler per
la sua marcia in territorio tedesco. Come poi si espresse il Times di Londra,
in fondo Hitler era solo andato nel giardino di casa sua.
Nel frattempo Mussolini aveva volto il suo sguardo verso lidi lontani. Poiché
negli anni '30 l'economia italiana non era molto stabile, cercò di
estendere i possedimenti in Africa, dove le colonie italiane - Eritrea, Somalia
e Libia - erano, a suo dire, solo le «briciole avanzate da sontuosi bottini
altrui». La Somalia confinava con una possibile vittima, l'Etiopia, che egli
asseriva essere una cassaforte di oro, platino, petrolio, carbone e beni
agricoli. Nell'ottobre 1935, truppe italiane, trecentomila uomini con
artiglieria, bombardieri e gas invasero l'Etiopia. I loro avversari, in stracci
e malamente armati, furono facile preda. Il lio di Mussolini, Vittorio, che
combatteva come pilota, scrisse che sarebbe stato bene per tutti i giovani
italiani fare prima o poi l'esperienza della guerra perché fra tutti gli sport
quello era il più inebriante. Il 5 maggio 1936 i carri armati italiani
entrarono in Addis Abeba, senza incontrare resistenza. L'imperatore Hailé
Selassié, con la famiglia e centinaia di sostenitori, si rifugiò in
esilio in Gran Bretagna.
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Soldati etiopi, a piedi nudi, in marcia per combattere l'esercito italiano che aveva invaso il loro paese nel 1936. Date le miserevoli condizioni delle forze armate etiopi, Mussolini era convinto che «la più grande guerra coloniale della storia», come la chiamava, sarebbe stata «una guerra senza lacrime». Invece, per quanto gli etiopi non avessero obiettivamente possibilità di difesa contro le colonne motorizzate, i bombardieri e i gas del duce, gli italiani impiegarono otto mesi prima di riuscire a entrare nella capitale, Addis Abeba. Nel corso della guerra l'Italia perse cinquemila soldati; per la maggior parte appartenevano alle truppe coloniali africane; Mussolini commentò che avrebbe preferito maggiori perdite italiane, avrebbero conferito alla guerra un carattere di maggior gravità. |
Gli altri paesi espressero la loro indignazione ma non intervennero. La
Società delle Nazioni si mostrò penosamente inadeguata nei
procedimenti internazionali che impose. Stigmatizzò Mussolini come
aggressore e impose sanzioni economiche che fin dagli inizi rimasero lettera
morta. Nessuno voleva spingere Mussolini a una guerra in Europa, né da solo né
- molto peggio - in alleanza con la Germania, altra minaccia alla pace
internazionale. Conseguentemente, sin dall'inizio le sanzioni non intendevano
essere punitive. Non includevano prodotti di prima necessità quali
carbone, acciaio e petrolio né includevano alcuna proibizione all'Italia di
usare il Canale di Suez, passaggio principale per le importazioni italiane
d'oltremare.
Comunque sia, le sanzioni ebbero un risultato nettamente opposto a quello
desiderato. In collera con la Francia e la Gran Bretagna, che fin allora
avevano intrattenuto rapporti abbastanza amichevoli con l'Italia, Mussolini
espresse parole amare contro i governi europei, accusandoli di preferire
«un'orda di negri bastardi» alla «madre della civiltà». Inoltre,
cominciò a vedere in Hitler un possibile alleato. Verso la fine del
1936, quando ambedue i paesi avevano mandato aiuti militari ai nazionalisti
nella guerra civile snola, duro conflitto tra i repubblicani appoggiati dai
comunisti e le forze della destra del generale Francisco Franco, Mussolini per
la prima volta fece accenno all'«Asse» Roma-Berlino. L'anno seguente si
recò, in visita di stato, in Germania. Per l'occasione Hitler
organizzò una parata di SS, manovre militari e un'adunata di un milione
di persone a Berlino. Ovunque risuonavano osanna per i due capi. Grazie a
questa accoglienza i dubbi di Mussolini sul conto di Hitler si dissiparono,
così come svanì anche il suo impegno a proteggere l'indipendenza
dell'Austria.
Finalmente Hitler era libero di risolvere la faccenda rimasta in sospeso con il
suo paese di nascita. Il 12 febbraio 1938 invitò il cancelliere
austriaco Kurt von Schuschnigg al suo rifugio di montagna di Berchtsgaden, a
sud-est di Monaco. Lì lo sottopose ad una diatriba di due ore, avanzando
le sue pretese che nel governo austriaco venisse incluso un gruppo di nazisti e
che tutti i nazisti fossero rilasciati. Poi presentò un ultimatum:
Schuschnigg doveva firmare un accordo, che era già stato redatto, con il
quale si accettavano le richieste di Hitler. Se non avesse firmato, la
questione sarebbe stata risolta con la forza. «Rifletteteci, Herr Schuschnigg,
rifletteteci bene, Aspetterò solo fino a oggi pomeriggio. E farete
meglio a prendere le mie parole per buone. Non ho l'abitudine di bluffare e il
mio passato lo dimostra». Dopo averci riflettuto, l'intimidito Schuschnigg
firmò. Tuttavia, tornato a Vienna. il suo coraggio si risvegliò e
indisse un plebiscito popolare per stabilire se, o meno, l'Austria dovesse
restare indipendente. Fuori di sé, Hitler gli intimò di revocare il
plebiscito, pena l'invasione. Schuschnigg modulò, poi si dimise. il
suo successore provvisorio il ministro degli interni Arthur Seyss-Inquart,
informatore nazista alle dipendenze di Berlino, prontamente sollecitò
l'invasione tedesca per «ripristinare l'ordine». Prima di agire, però,
Hitler si preoccupò di chiarire la sua decisione con Mussolini che nulla
eccepì.
Le truppe tedesche attraversarono i confini il 12 marzo ed ebbero
un'accoglienza tumultuosa.
Hitler seguì due giorni dopo: fu un ritorno trionfante alla città
dove tanto tempo prima moriva di fame nell'ombra. Un mese dopo, con plebiscito,
il 99,75 per cento degli austriaci approvarono l'Anschluss. I socialisti, i
comunisti e gli ebrei furono umiliati pubblicamente. Schuschnigg fu mandato in
un campo di concentramento.
Anche questa volta nessun paese si mosse. Così come aveva fatto per la
Renania, Hitler, mentre pubblicamente affermava il suo impegno per la pace,
fidando sulla riluttanza degli altri paesi ad arrivare alla violenza, prese
quello che voleva. Il primo sulla lista dei suoi tanti obiettivi era stato
conseguito senza che fosse stato sparato un solo colpo. Ora cominciò a
dedicarsi al suo prossimo obiettivo. Durante il volo di ritorno da Vienna,
Hitler mostrò al suo capo di stato maggiore Wilhelm Keitel un ritaglio
di giornale. Era una carta muta delle nuove frontiere del Reich, che
circondavano la Cecoslovacchia su tre lati. Poggiò la mano sinistra
sulla carta, posando l'indice e il pollice sulle frontiere cecoslovacche. Fece
l'occhietto a Keitel e strinse le due dita.
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Il dottor Joseph Goebbels, organizzatore delle camne elettorali di Hitler negli anni '20, guarda la macchina fotografica con occhio bieco in occasione della sua visita, nel 1933, alla sede della Società delle Nazioni a Ginevra. Docente, poi giornalista, Goebbels orchestrò a Berlino il consenso al nazismo con mezzi che per sua stessa ammissione comprendevano «agitazione diffamatoria e tutte le più spregevoli astuzie della stampa scandalistica». Fu lui che contribuì a creare il mito dell'infallibilità di Hitler e, per ricompensa, nel 1935 fu posto a capo del ministero dell'informazione e della proanda. In tale veste esercitava un rigido controllo su stampa, radio, cinema, teatro e letteratura. |
Con la disoccupazione che coinvolgeva circa sei milioni di persone, le
vedute estremiste di Hitler e le sue soluzioni semplicistiche erano molto
apprezzate in quasi tutti i settori della società tedesca. Egli
girò di nuovo il paese in aereo toccando, nella seconda metà di
luglio, cinquanta città. In ognuna, le SA marciarono nelle strade,
sciogliendo con la forza convegni rivali e malmenando quanti si opponessero.
Questa volta i nazisti guadagnarono la maggioranza dei seggi, 230 su 608 non
ancora una maggioranza assoluta, ma sufficiente per rendere Hitler la ura più
forte della politica tedesca. lì cancelliere, l'aristocratico Franz von
Papen, gli offri il vicecancellierato.
Però, come Mussolini nel 1922, Hitler decise di azzardare una posta
più alta e con sdegno respinse l'offerta di von Papen pretendendo la
carica di cancelliere. Von Papen e Hindenburg gli opposero un netto rifiuto.
Fortunatamente per lui nei mesi seguenti la situazione politica ebbe un momento
di stallo e Hindenburg, temendo alla fine una guerra civile, fece marcia
indietro e offri a Hitler la carica che pretendeva. A certe condizioni,
tuttavia: Hitler doveva accettare von Papen come vicecancelIiere e non doveva
designare più di tre nazisti al gabinetto.
Uno di questi fu Göring, il quale, come ministro prussiano dell'interno,
cominciò subito a effettuare epurazioni nell'amministrazione prussiana,
rimpiazzò centinaia di funzionari con nazisti e costituì una
polizia ausiliaria nazista di cinquantamila elementi, la Gestapo.
Non ancora soddisfatto, Hitler pretese altre elezioni. Gli eventi volgevano
ormai drammaticamente a suo favore. Il 27 febbraio 1933, mentre Hitler era a
cena con Goebbels, si ebbe notizia che il Reichstag era in fiamme. Un giovane
comunista olandese, Marinus van der Lubbe, fu arrestato poco prima che Göring -
per coincidenza apparente - arrivasse sulla scena. Hitler colse l'occasione che
gli si offriva. Dispose l'entrata in vigore di un decreto di emergenza con
sospensione dei diritti civili, asserendo che l'incendio rappresentava un
segnale di rivolta da parte della sinistra. La Gestapo di Göring arrestò
quattromila comunisti. Van der Lubbe fu sottoposto a processo, dichiarato
colpevole e giustiziato.
Alle elezioni successive, ai primi di marzo, i nazisti arrivarono a 288 seggi
con voti pari al 43,9 per cento; malgrado godessero quasi del monopolio della
proanda e malgrado la tattica intimidatoria delle SA, non avevano ancora la
maggioranza. Tuttavia ciò aveva poca importanza. Hitler sollecitò
il diritto a governare per decreto per quattro anni. Alla camera, dominata da
una enorme svastica e da schiere di SA, i deputati, impauriti, a grande
maggioranza gli conferirono poteri dittatoriali (la paura era giustificata: dei
94 dissenzienti, 24 vennero poi assassinati).
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Discorso di Hitler al Reichstag. La scenografia era parte integrante della mitologia nazista. Nel Mein Kampf (La mia battaglia) Hitler scrisse: 'Le manifestazioni di massa non solo rafforzano il singolo ma lo avvicinano e contribuiscono a creare lo spirito di corpo. L'uomo che, quale primo rappresentante di una nuova dottrina, è esposto nella sua azienda o nella sua officina, a gravi imbarazzi, ha bisogno di essere rafforzato nella sua convinzione di essere membro e campione di una vasta comunità Se egli, uscendo dalla piccola azienda o dal grande stabilimento dove si sente così piccolo, entra per la prima volta in un'assemblea di massa e vede attorno a sé migliaia e migliaia di persone pensanti come lui, se è travolto dal suggestivo entusiasmo di altri tre o quattromila uomini quando ancora cerca la sua strada, se l'evidente successo e il consenso di migliaia di individui gli confermano che la nuova dottrina è giusta e gl'insinuano il dubbio sulle opinioni finora professate, - allora egli stesso soggiace al fascino di quella che noi chiamiamo «suggestione di massa»'. |
Ormai la rivoluzione nazista era in atto ma vi era ancora qualcosa che poteva essere motivo di opposizione: le rissose squadre d'assalto che con i randelli avevano costretto gli avversari di Hitler al silenzio. I due milioni di SA di gran lunga superavano per numero l'esercito e il loro capo, Ernst Röhm, grossolano personaggio dai modi spicci, mirava a prenderne il controllo assoluto. Ma Hitler era già proteso verso conquiste fuori della Germania e pertanto più che una banda di teppisti sadici gli serviva un esercito regolare. Lasciò il compito di occuparsi di Röhm alla sua nuova guardia del corpo, la Schutzstaffel (squadra di sicurezza), ovvero SS, piccola schiera poi trasformatasi in un vero e proprio esercito.
L'annessione dell'Austria
Per un certo periodo sembrò che la rivoluzione nazista stesse dando
ciò che aveva promesso. Hitler nulla sapeva di economia ma sapeva
ciò che volevano i tedeschi: lavoro e orgoglio nazionale. In alcune zone
le misure naziste ebbero in realtà un benefico effetto sull'economia.
Furono vietati gli scioperi e, grazie ai piani di lavoro - particolarmente
nelle industrie belliche, agricole ed edili - nel 1935 la disoccupazione era
scesa da sei milioni di persone a 1,7 milioni. In generale, però, il
recupero dell'economia tedesca fu dovuto più all'opera intelligente
degli amministratori finanziari che non alle iniziative naziste. Sotto la guida
di Hjalmar Schacht, presidente della Reichsbank e ministro dell'economia furono
nuovamente ripianati i debiti con l'estero, concessi sussidi per l'esportazione
al fine di incrementare il commercio estero e raggiunti accordi di scambio per
ottenere le materie prime d'importanza vitale. Di conseguenza, la produzione
pro capite aumentò del 64 per cento nei primi sei anni di governo
hitleriano e, alla fine degli anni '30, la produzione nazionale di petrolio,
materie plastiche, fibre e gomma sintetiche era duplicata.
I risultati del benessere economico tedesco furono per la maggior parte
impiegati nella ricostruzione della potenza militare nazionale. Hitler aveva
espresso chiaramente, già qualche settimana dopo. la nomina a
cancelliere, le sue priorità. «Qualsiasi progetto pubblico atto a
produrre occupazione deve essere valutato con un solo criterio: è, o no,
indispensabile alla restaurazione delle capacità belliche della nazione
tedesca?». Le condizioni del trattato di Versailles stabilivano che l'esercito
tedesco non doveva superare le centomila unità, che la marina doveva essere
simbolica e l'aeronautica inesistente. Hitler aveva sempre ritenuto queste
limitazioni inique. Pertanto ora pretendeva uno stato di parità. Forse,
propose, altre nazioni dovrebbero livellare il loro disarmo a quello tedesco ma
la proposta non fu accolta. Pertanto, si ritirò dalla Società
delle Nazioni, l'organizzazione internazionale costituita dal trattato di
Versailles a salvaguardia della pace mondiale. Hitler mise a punto, agli inizi
segretamente poi apertamente, un massiccio piano di riarmo con lo scopo di
creare per la Germania le condizioni idonee a muovere una guerra offensiva
entro il 1940. Nel 1936 annunciò la sua intenzione di sestuplicare gli
stanziamenti bellici che, da quasi sei miliardi di marchi, avrebbero, nel 1939,
dovuto superare i trentadue miliardi. lì 5 novembre 1937, nel corso di
una conferenza riservata con i suoi capi militari Hitler li mise al corrente
delle sue mire a lungo termine in Europa. Il Lebensraum era necessità
assoluta e pertanto era di importanza basilare che nell'arco di tempo tra il
1938 e il 1943 la Germania si aggregasse l'Austria e la Cecoslovacchia,
occupasse la Polonia e per ultimo invadesse e conquistasse la Russia.
Al momento del suo incontro con Mussolini nel 1934 Hitler aveva già in
mente la sua prima avventura all'estero, l'annessione dell'Austria. Da quando
era salito al potere, il partito nazista viennese aveva dimostrato grande
interesse a che la Germania saldasse un'unione indissolubile - Anschluss - con
il paese che gli aveva dato i natali. Nel luglio 1934 alcuni membri del
partito, vestiti da soldati austriaci, uccisero, sparandogli, il cancelliere
austriaco, Engelbert Dollfuss, un dittatore che odiava alla stessa stregua
nazisti e comunisti. Ai cospiratori, però, non fu dato appoggio né dall'esercito
né dal governo austriaco. Essi infatti vennero arrestati mentre Mussolini, che
era garante dell'indipendenza austriaca, inviò cinquantamila soldati al
confine del Brennero. Hitler ne fu colpito: gli era sembrato che, quando si
erano incontrati a Venezia il mese prima, il duce gli avesse dato la sua
approvazione. Per il momento desistette da ogni ulteriore azione, rinnegando un
suo qualsiasi collegamento con l'assassinio, ma cercò di distogliere ,
Mussolini dal suo impegno con l'Austria.
I due anni successivi furono deludenti per Hitler. Fu solo nel 1936, quando il
suo esercito era cresciuto a più di mezzo milione, che gli riuscì
il suo primo colpo in politica estera. Il 7 marzo, colonne di soldati di
fanteria marciarono al passo dell'oca su Colonia e altre città
importanti tra il Reno e il confine francese. A termini del trattato di
Versailles, la Renania era zona smilitarizzata. In pratica Hitler aveva violato
il trattato. Un'immensa folla di tedeschi lo acclamò entusiasticamente e
con un plebiscito, pratica ormai radicata per far mostra di popolarità,
il popolo delle Renania approvò la sua azione con uno schiacciante 93,8
per cento di voti.
La Francia e la Gran Bretagna protestarono ma non agirono: nessuno era disposto
a credere che Hitler stesse attivamente preparando la guerra. La maggior parte
degli statisti preferì pensare che cercava semplicemente di cancellare
le umiliazioni che molti avevano comunque giudicate ingiuste. Se la Francia
avesse mandato le sue truppe, i simbolici reparti militari di Hitler si
sarebbero dovuti ritirare, ma nessuno se la sentiva di fare guerra a Hitler per
la sua marcia in territorio tedesco. Come poi si espresse il Times di Londra,
in fondo Hitler era solo andato nel giardino di casa sua.
Nel frattempo Mussolini aveva volto il suo sguardo verso lidi lontani. Poiché
negli anni '30 l'economia italiana non era molto stabile, cercò di
estendere i possedimenti in Africa, dove le colonie italiane - Eritrea, Somalia
e Libia - erano, a suo dire, solo le «briciole avanzate da sontuosi bottini
altrui». La Somalia confinava con una possibile vittima, l'Etiopia, che egli
asseriva essere una cassaforte di oro, platino, petrolio, carbone e beni
agricoli. Nell'ottobre 1935, truppe italiane, trecentomila uomini con
artiglieria, bombardieri e gas invasero l'Etiopia. I loro avversari, in stracci
e malamente armati, furono facile preda. Il lio di Mussolini, Vittorio, che
combatteva come pilota, scrisse che sarebbe stato bene per tutti i giovani
italiani fare prima o poi l'esperienza della guerra perché fra tutti gli sport
quello era il più inebriante. Il 5 maggio 1936 i carri armati italiani
entrarono in Addis Abeba, senza incontrare resistenza. L'imperatore Hailé
Selassié, con la famiglia e centinaia di sostenitori, si rifugiò in
esilio in Gran Bretagna.
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Soldati etiopi, a piedi nudi, in marcia per combattere l'esercito italiano che aveva invaso il loro paese nel 1936. Date le miserevoli condizioni delle forze armate etiopi, Mussolini era convinto che «la più grande guerra coloniale della storia», come la chiamava, sarebbe stata «una guerra senza lacrime». Invece, per quanto gli etiopi non avessero obiettivamente possibilità di difesa contro le colonne motorizzate, i bombardieri e i gas del duce, gli italiani impiegarono otto mesi prima di riuscire a entrare nella capitale, Addis Abeba. Nel corso della guerra l'Italia perse cinquemila soldati; per la maggior parte appartenevano alle truppe coloniali africane; Mussolini commentò che avrebbe preferito maggiori perdite italiane, avrebbero conferito alla guerra un carattere di maggior gravità. |
Gli altri paesi espressero la loro indignazione ma non intervennero. La
Società delle Nazioni si mostrò penosamente inadeguata nei
procedimenti internazionali che impose. Stigmatizzò Mussolini come
aggressore e impose sanzioni economiche che fin dagli inizi rimasero lettera
morta. Nessuno voleva spingere Mussolini a una guerra in Europa, né da solo né
- molto peggio - in alleanza con la Germania, altra minaccia alla pace
internazionale. Conseguentemente, sin dall'inizio le sanzioni non intendevano
essere punitive. Non includevano prodotti di prima necessità quali
carbone, acciaio e petrolio né includevano alcuna proibizione all'Italia di
usare il Canale di Suez, passaggio principale per le importazioni italiane
d'oltremare.
Comunque sia, le sanzioni ebbero un risultato nettamente opposto a quello
desiderato. In collera con la Francia e la Gran Bretagna, che fin allora
avevano intrattenuto rapporti abbastanza amichevoli con l'Italia, Mussolini
espresse parole amare contro i governi europei, accusandoli di preferire
«un'orda di negri bastardi» alla «madre della civiltà». Inoltre,
cominciò a vedere in Hitler un possibile alleato. Verso la fine del
1936, quando ambedue i paesi avevano mandato aiuti militari ai nazionalisti
nella guerra civile snola, duro conflitto tra i repubblicani appoggiati dai
comunisti e le forze della destra del generale Francisco Franco, Mussolini per
la prima volta fece accenno all'«Asse» Roma-Berlino. L'anno seguente si
recò, in visita di stato, in Germania. Per l'occasione Hitler
organizzò una parata di SS, manovre militari e un'adunata di un milione
di persone a Berlino. Ovunque risuonavano osanna per i due capi. Grazie a
questa accoglienza i dubbi di Mussolini sul conto di Hitler si dissiparono,
così come svanì anche il suo impegno a proteggere l'indipendenza
dell'Austria.
Finalmente Hitler era libero di risolvere la faccenda rimasta in sospeso con il
suo paese di nascita. Il 12 febbraio 1938 invitò il cancelliere
austriaco Kurt von Schuschnigg al suo rifugio di montagna di Berchtsgaden, a
sud-est di Monaco. Lì lo sottopose ad una diatriba di due ore, avanzando
le sue pretese che nel governo austriaco venisse incluso un gruppo di nazisti e
che tutti i nazisti fossero rilasciati. Poi presentò un ultimatum:
Schuschnigg doveva firmare un accordo, che era già stato redatto, con il
quale si accettavano le richieste di Hitler. Se non avesse firmato, la
questione sarebbe stata risolta con la forza. «Rifletteteci, Herr Schuschnigg,
rifletteteci bene, Aspetterò solo fino a oggi pomeriggio. E farete
meglio a prendere le mie parole per buone. Non ho l'abitudine di bluffare e il
mio passato lo dimostra». Dopo averci riflettuto, l'intimidito Schuschnigg
firmò. Tuttavia, tornato a Vienna. il suo coraggio si risvegliò e
indisse un plebiscito popolare per stabilire se, o meno, l'Austria dovesse
restare indipendente. Fuori di sé, Hitler gli intimò di revocare il
plebiscito, pena l'invasione. Schuschnigg modulò, poi si dimise. il
suo successore provvisorio il ministro degli interni Arthur Seyss-Inquart,
informatore nazista alle dipendenze di Berlino, prontamente sollecitò
l'invasione tedesca per «ripristinare l'ordine». Prima di agire, però,
Hitler si preoccupò di chiarire la sua decisione con Mussolini che nulla
eccepì.
Le truppe tedesche attraversarono i confini il 12 marzo ed ebbero
un'accoglienza tumultuosa.
Hitler seguì due giorni dopo: fu un ritorno trionfante alla città
dove tanto tempo prima moriva di fame nell'ombra. Un mese dopo, con plebiscito,
il 99,75 per cento degli austriaci approvarono l'Anschluss. I socialisti, i
comunisti e gli ebrei furono umiliati pubblicamente. Schuschnigg fu mandato in
un campo di concentramento.
Anche questa volta nessun paese si mosse. Così come aveva fatto per la
Renania, Hitler, mentre pubblicamente affermava il suo impegno per la pace,
fidando sulla riluttanza degli altri paesi ad arrivare alla violenza, prese
quello che voleva. Il primo sulla lista dei suoi tanti obiettivi era stato
conseguito senza che fosse stato sparato un solo colpo. Ora cominciò a
dedicarsi al suo prossimo obiettivo. Durante il volo di ritorno da Vienna,
Hitler mostrò al suo capo di stato maggiore Wilhelm Keitel un ritaglio
di giornale. Era una carta muta delle nuove frontiere del Reich, che
circondavano la Cecoslovacchia su tre lati. Poggiò la mano sinistra
sulla carta, posando l'indice e il pollice sulle frontiere cecoslovacche. Fece
l'occhietto a Keitel e strinse le due dita.
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