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IL CASO ALDO MORO
Il 16 marzo 1978 le BR rapirono a Roma, in via Fani, Aldo Moro e massacrarono i cinque uomini della sua scorta. Era il giorno della presentazione alla camera del quarto governo Andreotti, detto della "solidarietà nazionale", in quanto includeva a pieno titolo il PCI nella maggioranza. Artefice di tale operazione era stato Moro, per questo considerato dalle BR ago della bilancia politica italiana. L'agguato dei terroristi era stato preparato minuziosamente da lungo tempo e, come risultò in seguito, la coincidenza del rapimento con l'avvio del nuovo governo Andreotti fu occasionale. Non scattò nessun piano d'emergenza e i rapitori poterono facilmente eclissarsi.
Le reazioni al rapimento furono convulse; il governo ottenne la fiducia, ma si dimostrò impotente di fronte alla situazione, tanto che i partiti della stessa coalizione si divisero fra gli intransigenti e i favorevoli alla trattatica (il cosiddetto "partito umanitario", formato dai socialisti e da un parte della DC). I servizi segreti si dimostrarono inefficienti e successivamente risultò che i loro vertici erano in parte costituiti da esponenti della P2. Con il rapimento di Moro le BR si proponevano di ottenere dalla trattativa con il governo lo status di avversari politici e minare la solidarietà della coalizione di governo. Oltre che dei loro comunicati, le BR si servirono anche delle lettere indirizzate da Moro ai familiari, agli amici e a esponenti politici. A chiedere la libertà per il prigioniero intervennero il papa Paolo VI e il segretario dell'ONU Waldheim. Schieratosi il governo sulla posizione degli intransigenti, le BR videro fallire il loro piano e si divisero al loro interno tra "falchi" e "colombe". La vittoria dei primi nell'organizzazione fu evidente con il ritrovamento del cadavere dell'uomo politico il 9 maggio, dopo 55 giorni di prigionia, a bordo di un'auto parcheggiata a Roma, in via Caetani, a metà strada tra le sedi della DC e del PCI. Rispettando la volontà dello statista assassinato, la famiglia rifiutò il lutto nazionale e i funerali di Stato. Moro venne sepolto dopo una cerimonia privata nel cimitero di Turrita Tiberina.
Come risultò in seguito, lo statista non aveva rivelato ai brigatisti nessun segreto di Stato e durante la prigionia i suoi carcerieri non gli avevano somministrato sostanze in grado di alterarne la volontà. La tragica conclusione del caso portò alle dimissioni del ministro degli interni, Cossiga.
Le indagini sul rapimento e l'assassinio dell'uomo politico democristiano diedero i primi risultati nel 1980, quando una prima inchiesta venne chiusa. Lo stesso anno le rivelazioni di P. Peci e di altri "pentiti" portarono all'apertura di una seconda inchiesta, poi unificata alla prima. Il processo ebbe inizio il 14 aprile 1982 a Roma e si concluse il 24 gennaio 1983 con una sentenza che infliggeva trentadue ergastoli e più di 1.200 anni di reclusione. Il processo d'appello, tenutosi tra il dicembre 1983 e il marzo 1984, ridusse alcune pene (dieci ergastoli furono trasformati in pene minori). La sentenza d'appello venne confermata dalla corte di cassazione nel novembre 1985.
Nel frattempo, a seguito di ulteriori prove raccolte, era stata avviata una terza inchiesta, conclusasi il 23 febbraio 1984 con 213 rinvii a giudizio. Il conseguente processo si chiuse il 12 ottobre 1988 con la condanna di 26 brigatisti all'ergastolo e di altri 127 a pene minori.
Il ritrovamento di numerose fotocopie di lettere di Moro in un "covo" delle BR nell'ottobre 1990 ha nuovamente riaperto numerosi interrogativi sulla vicenda, in parte strumentalizzati da uomini politici di varie tendenze.
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