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Il dopoguerra in Italia e in Europa
Guerra totale era stata quella del 1914-l8: essa aveva coinvolto popoli interi e distrutto immense ricchezze. La guerra aveva arrecato un duro colpo al prestigio della vecchia Europa, che ora, finite le ostilità, appariva più divisa prima del conflitto. Pure stremata di forze, essa era ancora carica di odi e di egoismi nazionalistici scatenati. L'idea della pace punitiva contro la Germania, perseguita tenacemente dalla Francia di Clemenceau, si sarebbe rilevata gravida di nefaste conseguenze. Era veramente assurdo pensare che un popolo di 70 milioni, come quello tedesco potesse essere obbligato a lavorare per oltre mezzo secolo solo per are le riparazioni.
Disoccupazione, aumento dei prezzi e inflazione si abbatterono come flagelli in Germania, Russia e Austria.
Forse si sarebbero potute alleviare le gravi condizioni economiche dei paesi vinti, con l'aiuto della società delle nazioni, ma essa era nata zoppa. Ne facevano parte, tra le grandi potenze, solo l'Inghilterra, la Francia, l'Italia e il Giappone. Non ne facevano parte gli Stati Uniti che tra l'altro si erano rifiutati di firmare il Trattato di Versailles.
La guerra, anche per un paese come l'Italia che vi era entrata convinta di fare la sua piccola guerra, si era risolta in uno sconvolgimento sociale, in uno scombussolamento di valori, di tradizioni, di idee come non si era verificato almeno dall'unità.
Il lavoro non poteva riprendere al punto in cui il chiamato alle armi l'aveva lasciato; il reduce non poteva appendere lo zaino alla parete e mettersi quieto. Al front aveva conosciuto forme di solidarietà con altri combattenti delle più lontane parti d'Italia; il dovere della patria gli aveva avvicinati, ma l'esperienza comune aveva accresciuto, acuito la sensibilità sociale dei combattenti.
Il reduce non ritrovava la società così come l'aveva lasciata, perchè il fronte interno, il mondo civile, aveva a suo modo partecipato alla guerra e si era trasformato. La prima guerra mondiale non aveva solo interessato gli eserciti combattenti, ma tutto il paese; aveva interessato milioni di operai impegnati nelle fabbriche, aveva interessato le donne che avevano preso il posto degli uomini in tanti lavori.
Ma fu soprattutto nel settore economico e dei servizi che lo Stato durante la guerra si era trasformato. Il vecchio stato liberale, anche quello giolittiano con il suo riformismo graduato e centellinato, si era trasformato.
Lo stato era diventato distributore di impieghi e di commesse produttive. Non si limitava più a garantire con norme di polizia la libertà di lavoro, esso stesso dava lavoro e si assumeva compiti operativi-economici.
Siderurgia e meccanica furono i settori in cui si fece sentire l'intervento dello Stato. Il complesso Ilva e quello dell'Ansaldo furono tra i colossi alimentati dalle commesse belliche.
Ma le trasformazioni più significative si ebbero nel campo dei partiti. Anzitutto si deve mettere in luce la sa sulla scena politica italiana di un grande partito di massa che prima della guerra non esisteva: il partito popolare italiano. Questo partito che si rifaceva alla tradizione democratico-cristiana rappresentava l'aspirazione di vasti strati del movimento cattolico.
L'artefice di questo partito fu Luigi Sturzo sacerdote.
Il partito popolare fu un fatto nuovo nella vita pubblica italiana, perchè dette alle masse cattoliche un fisionomia politica autonoma. Fu per altro il solo partito che nel primo dopoguerra pose il problema di alcune importanti riforme istituzionali (introduzione della proporzionale).
Anche il partito socialista uscì trasformato alla fine del conflitto. Ma ciò che cambiò nel partito socialista fu soprattutto l'orientamento ideologico. Esso era diviso in massimalisti e riformisti. Nel congresso di Bologna del 1919 aveva vinto la corrente massimalista, favorevole alla presa violenta del potere.
D'altra parte, come si è accennato, il partito seguitava ad essere tutto sommato una specie di confederazione di circoli di natura culturale controllati da operaisti e riformisti, sostanzialmente si sottraevano alla direzione del partito, facevano da sè, continuando a sostenere programmi di strette rivendicazioni economiche.
Chi cercò di superare la posizione massimalista fu il gruppo socialista che si raccoglieva attorno alla rivista 'Ordine Nuovo' e che aveva vicino alla sua testa un sardo di grande ingegno, Antonio Gramsci. Vicino a Gramsci era Palmiro Togliatti.
Mentre il partito socialista, che pure raccoglieva la fiducia e l'attesa di grandi masse operaie e contadine, si dilaniava nelle lotte interne, nasceva un altro movimento, destinato a incidere profondamente nella vita politica italiana del primo dopoguerra: il fascismo guidato da Benito Mussolini. Questo movimento prese il nome, all'inizio di fasci italiani di combattimento in cui confluivano: nazionalisti, dannunziani, futuristi animati da eccessivo anticonformismo.
Il governo presieduto da Francesco Saverio Nitti che successe a Orlando durò pochi mesi. Egli era convinto che la via del progresso in Italia risiedesse nel connubio fra democrazia e sviluppo industriale. Ma per attuare la sua linea politica, aveva bisogno dell'appoggio dei socialisti e dei popolari: introdusse perciò la proporzionale.
Nitti si trovò a governare in un momento assai critico della vita economica del paese: gli scioperi si susseguivano agli scioperi, il costo della vita aumentava acuendo il disagio fra le masse.
A rendere più caotica la situazione sopraggiunse la notizia che D'Annunzio stava marciando su Fiume con reparti dell'esercito. Nitti divenne oggetto di una delle offensive proandistiche più violente e pesanti da parte della stampa nazionalistica: fu accusato di essere un rinunciatario e un vile. Nitti rimase indeciso, dando l'impressione di un vuoto di potere. Mussolini giunse a dichiarare che il vero governo era a Fiume e non a Roma. In queste condizioni presentò alla camera le dimissioni del suo terzo ed ultimo ministero. A lui succedette Giolitti.
Quello di Giolitti fu certamente il ministero più fattivo e positivo del primo dopoguerra.
Giolitti si dichiarò subito convinto che fossero necessarie nuove riforme sociali, specialmente nei riguardi dei lavoratori della terra. Memore del fatto che l'Italia era entrata in guerra nel 1915 con un patto (il patto di Londra), che era stato nascosto al popolo e al parlamento, volle che i trattati fossero resi pubblici. Sostenne che si dovevano ripristinare le autorità dello Stato e quella del Parlamento.
Attorno a questo programma fu possibile a Giolitti raccogliere larghi consensi nel paese. Il Partito Popolare accettò di collaborare al nuovo governo. Giolitti interpetrò e rispettò quel convincimento generale dei meno abbienti e degli uomini di buon senso che i ricchi dovessero are i debiti i debiti della guerra, che era tempo di venire incontro alle richieste dei lavoratori della terra e che la politica estera doveva essere in qualche modo controllata anche dal popolo.
Nel bel mezzo della programmazione goilittiana, si verificò nel paese l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai e dei sindacati di orientamento socialista. Gli operai metallurgici, aderenti al sindacato della FIOM, avevano chiesto agli industriali il rinnovo del contratto per aumenti salariali. Gli industriali rifiutavano ogni aumento.
I sindacati rossi plocamarono uno sciopero bianco, vale a dire gli operai entravano nelle fabbriche ma non lavoravano.
Come una macchia d'olio il movimento si estese in tutte le fabbriche metallurgiche, avendo il suo centro propulsivo naturalmente nel famoso triangolo industriale Torino-Milano-Genova.
Che cosa si voleva dall'occupazione delle fabbriche? I riformisti ritennero che ci si dovesse limitare chiedere aumenti salariali; i massimalisti ritenevano invece che l'occupazione delle fabbriche fosse solo la prima tappa di un grande movimento rivoluzionario che doveva portare gli operai alla conquista del potere per realizzare, come in Russia, una repubblica socialista.
Giolitti assunse in questo drammatico conflitto l'atteggiamento neutrale. Si rifiutò di intervenire con i mezzi repressivi, scontentando gli industriali e quanti temevano uno sconvolgimento dell'ordine costituito e l'instaurazione di una repubblica rossa.
Gli operai erano senza una guida capace e convinta per le profonde divisioni che ormai laceravano il partito socialista; l'agitazione rimaneva chiusa nelle fabbriche senza alcun legame con i contadini.
Messi in un vincolo cieco, i socialisti riformisti, con Turati alla testa invocarono il soccorso di Giolitti, il quale compì l'ultimo miracolo. Mise d'accordo sindacati e industriali e promise agli operai una legge che consentiva loro di controllare la gestione amministrativa delle fabbriche: legge che però non vide mai la luce.
Giolitti cercò nella politica estera la via per ripristinare attorno a sè i consensi di quella stessa opinione pubblica, liberal-democratica e socialista, che aveva favorito sino alla guerra mondiale i suoi esperimenti politici.
Avvicinandosi all'Inghilterra e alla Francia raggiunse un accordo con gli Iugoslavi nel convegno di Rapallo, in base al quale Fiume veniva proclamato stato indipendente, l'Italia si insediava nell'Austria e a Zara. Nel 1924 la Iugoslavia riconoscerà Fiume italiana. D'Annunzio non riconobbe il trattato di Rapallo e continuò a rimanere a Fiume. Mussolini, invece, fu più cauto:egli si dichiarò d'accordo con la soluzione per Fiume adottata a Rapallo; aveva ben capito che la resistenza di D'Annunzio sarebbe stata vana e avrebbe rischiato di compromettere anche il suo movimento. Giolitti dette incarico al generale Enrico Caviglia di occupare Fuime e di allontanare D'Annunzio. Si attaccò Fiume ordinando a una nave da guerra di sparare alcune cannonate sul palazzo del comandante D'Annunzio, il quale aveva giurato di versare anche il sangue pur di difendere la città. Ma i suoi gesti eroici non commossero nessuno: nè fascisti, nè nazionalisti vennero in suo aiuto. D'Annunzio abbandonò Fiume, che secondo gli accordi di Rapallo fu organizzato in uno stato indipendente.
Nel gennaio 1921 si tenne a Livorno il congresso del Partito Socialista. Il congresso non fu turbato da provocazioni fasciste, anche per le severissime disposizioni date per l'occasione da Giolitti ai prefetti. Il presidente del Consiglio si aspettava un successo della corrente riformista che invece fu battuta. Lenin chiese ai massimalisti italiani di mettere fuori i riformisti.
I socialisti della corrente massimalista si rifiutarono di rompere con la corrente riformista e di estrometterla dal partito. A questo punto la corrente che faceva capo a Gramsci e a Bordiga decise di staccarsi dal partito Socialista e di fondare un nuovo partito, che sarà appunto il Partito comunista italiano.
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