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Il suono che disgrega la pietra
Ci siamo chiesti perché nonostante la volontà di conoscere che contraddistingue coloro che vivono il mondo dell'archeologia antica, non si riesca a svelare quella parte impenetrabile dei segreti egiziani. E' limitata la nostra conoscenza o la loro imperscrutabilità dipende da limiti intrinseci?
Nel corso di una serie di approfondimenti in Egitto abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con vari egittologi, e spesso, le conclusioni a cui si è giunti erano demoralizzanti constatando come il maggior limite che la scienza possa avere sia il rigetto nell'accettare le novità che si scostano dalle tradizioni, dai solchi consolidati che costituiscono dei cliché fuori discussione nonostante la validità di argomentazioni inoppugnabili. Quando cominciammo ad interessarci alla tecnologia della lavorazione della pietra ed alla diffusione e lavorazione dei metalli, del ferro in particolare, ancor prima che in Egitto potesse tecnicamente dirsi avanzata l'Età del Bronzo o seconda età del metallo (2200-l200 a.C.), ci trovammo a scontrarci con l'opinione personale di chi, a priori, escludeva il confronto, sostenendo senza argomentare che l'Età del Ferro non iniziasse prima del 600 a.C.
Ma nel corso delle nostre ricerche siamo approdati ad alcune conclusioni certamente interessanti e che hanno indotto alla riflessione anche la scuola più tradizionale e radicata dell'egittologia. In più di un'occasione abbiamo riportato, in articoli scientifici pubblicati su riviste e opere di carattere internazionale, alcuni degli aspetti che rispondono ad una logica di chiarificazione e di divulgazione.
Un'etnia sconosciuta
Il punto di partenza della tecnologia che abbiamo voluto verificare è quanto contenuto nei saggi Ten Years Digging in Egypt, (1881-l891) e The Pyramids and Templers of Egypt di sir William Matthew Flinders Petrie che, sulla base del rinvenimento in alcune tombe del tardo periodo predinastico (3500-3100 a.C.) nella zona settentrionale dell'Alto Egitto di alcuni scheletri di un popolo dal cranio e dalla corporatura più grandi di quelli degli indigeni, postulò che fossero appartenuti ad un'etnia sconosciuta, dotata di particolare raffinatezza tecnica.
Nello studio Archaic Egypt l'egittologo Walter Emery scrisse che fosse plausibile parlare di una confusione di razze che avvenne con gli indigeni, ma che tuttavia per un periodo dopo l'unificazione dell'Alto e Basso Egitto, ovvero dal 3000 a.C. circa, la differenziazione tra l'aristocrazia civilizzata e la massa degli indigeni rimase piuttosto netta, specialmente per quanto riguarda gli usi funerari (cfr. HERA n'l). Per il Canone Regio di Torino questo popolo sarebbe stato quello degli Shemsu-hor, i Comni di Horus che avrebbero regnato per 13.400 anni prima dell'ascesa al trono di Menes, il re a cui si deve l'unificazione dei regni. Discendenti diretti di quelle divinità che la tradizione egiziana vorrebbe fossero gli abitanti del Primo Tempo, coloro che vissero nell'età del Leone, sono indicati oggi dagli scienziati come i costruttori delle piramidi di Giza.
Petrie rilevò che la stessa tecnologia costruttiva delle piramidi fu impiegata anche nella realizzazione delle suppellettili trovate in alcune vicine tombe.
Coloro che avevano saputo collocare così sapientemente le pietre di rivestimento esterno delle piramidi con una distanza tra loro pari a una fessura non più larga di mezzo millimetro, per una lunghezza di lastra di almeno 3,25 metri, mantenendo poi nelle intersezioni un film sottilissimo di cemento, a fronte di pesi nell'ordine delle 15/16 tonnellate a pietra, avevano riproposto questa conoscenza in esempi tecnici che quanto meno lasciano sconcertati.
Tagli netti e precisa perforazione della roccia, lasciano emergere una tecnologia molto sofisticata per l'epoca ed alcune tracce osservate in alcuni punti portano a pensare all'uso di seghe o di trapani con punte tubolari in rame e più tardi in bronzo.
Lavorazioni impossibili
Il sarcofago di granito rosso conservato nella Camera del Re della Grande Piramide mantiene, per esempio, segni netti di taglio longitudinale che si spiegano ipotizzando l'uso di un segaccio lungo almeno 2.70 metri.
C'è da chiedersi come possano aver tagliato questo monolito di granito, se le poche seghe rinvenute in Egitto di quel periodo avevano la lama di rame o in bronzo seghettata.
Con le lame di rame o bronzo, i cui denti siano stati coperti di sabbia durante la forgiatura, si fa già fatica a tagliare il legno, uriamoci il granito. Tra le ipotesi che abbiamo verificato vi è anche quella della mescolanza, nella lega di rame, di sostanze indurenti come il berillio o l'arsenico. La rimartellatura poteva poi indurire il rame, tanto che abbiamo constatato come da una durezza Brinell di 87, con questo processo essa raggiungeva un valore di circa 135, a fronte dei nostri attuali acciai dolci che hanno durezze da 100 a 800 Brinell. La durezza Brinell del bronzo (con 9,31 % di stagno) è invece 136 e diviene 257 dopo il martellamento.
Conveniamo con Petrie quando sostiene che se si può agevolmente tagliare l'alabastro di Hatnub e di Wadi el-Garawi, l'ardesia di Wadi Hammamat e il calcaree di Tula, il granito, la quarzite ed il porfido di Gebel Dukhan non si possono che scalfire a seguito di faticose ore di lavoro. Il basalto nero di Gebel Qatram, il granito rosa di Aswan, la quarzite di Gebel Ahinar, la diorite del deserto occidentale di Abu Simbel e la dolerite nubiana non si riesce a scalfirla se non dopo ore di duro lavoro sia a secco che bagnando la superficie di taglio, fermo restando che gli utensili in bronzo si sbriciolano però sotto la pressione e l'attrito, provare per credere.
Del resto sapevamo che dal settimo grado della scala di Mohs, ovvero dal quarzo in su, con rame e abrasivo non si può pensare di ottenere un taglio netto.
L'ipotesi di gemme incastonate nel bronzo è allora l'unica che giustifica i lavori eseguiti in assenza di ferro o acciaio, fermo restando che si escludono a priori i diamanti, dato che non se ne trovano in Egitto.
Si potrebbe ipotizzare l'uso di gemme di corindone non cristallizzato, ovvero rubini e zaffiri misti a smeriglio di diorite o silicio. Nella lavorazione dell'obelisco incompiuto di Aswan, un monolito di granito lungo 42 m, del peso di 1.200.000 kg (l'Ago di Cleopatra, pur essendo enorme, è lungo 22 m e pesa 190.000 kg), fu sbozzato in superficie e scavato lateralmente utilizzando palle di dolerite dei diametro di 12-30 cm e del peso medio di 5,5 kg montate su mazzapicchi. Non si rilevano infatti segni di scalpello o di taglio che invece appaiono in altri vicini siti.
Dallo studio del vasellame di diorite trovato in alcune tombe, Petrie dimostrò l'impiego di utensili con incastonati cristalli duri che avrebbero permesso la lavorazione dei materiali più coriacei, egli provò anche che gli antichi Egiziani avevano già in uso il tornio. Nella quarta dinastia il suo uso è ampiamente dui dell'imprecisa centratura su ipotetiche contropunte.
Trapani rotanti per il sarcofago
Ma l'ipotesi che suggerisce l'impiego di un metallo assai più tenace del bronzo nell'utensilistica del cavatore egizio. è stata ricavata dallo studio delle tracce tubolari dei fori rilevati nel sarcofago conservato nella Camera del Re della piramide di Cheope: diversi fori circolari dimostravano che lo scalpellino era penetrato nel vivo delle pietra e poi, una volta spezzata la carota che la punta tubolare lasciava, si era proceduto alla levigatura. 1 fori rilevati vanno da un diametro di alcuni millimetri (da 4 a 7) sino a circa 12 mm.
Non è da escludere che all'azione di punte cave munite di gemme rotanti ad alta velocità, si combinasse quella di un getto d'acqua e abrasivo. Non sarebbero queste tecnologie esclusivamente tipiche dell'Antico Regno, perché in recenti scavi a Naqada, circa 400 km dal Cairo la cultura gerzeana del 3500-3100 a.C. dimostrò di aver utilizzato del vasellame in diorite e pietra dura altrimenti non scalfibile con il solo rame. A poco vale la teoria che vorrebbe la provenienza del vasellame dalla Mesopotamia.
Sui bordi delle pietre tagliate si rilevano spesso ampie macchie verdastre caratteristiche dell'uso di seghe di rame o bronzo, mentre nei visibili tagli si è trovata ulteriore sabbia verde collegata all'impiego del rame. L'egittologia tradizionale ha però rigettato la teoria degli utensili in cui siano incastonate le gemme e dei trapani tubolari, perché di essi non è mai stata trovata traccia negli scavi.
Siamo del resto d'accordo con Petrie quando sostiene che le stesse fossero probabilmente di proprietà regale o del tempio e che, come tali, dovessero essere restituite dopo l'uso al sacerdoti responsabili della loro conservazione al pari di un segreto.
E del resto le gemme potevano essere sostituite e il rame o il bronzo potevano essere rifusi ed ecco dunque perché non ne furono mai gettati via.
Tecnologia ultrasonica
Nello studio sulle lavorazioni litiche sono emersi alcuni dati sconcertanti anche per noi: i trapani, misurando la rugosità ed i rilievi dei fori, appaiono mossi da alta velocità a cui era abbinato un carico di 1 o 2 tonnellate!
Il rapporto tra rotazione e avanzamento della punta tubolare ricavato dai rilievi è stato calcolato come 1/60, ovvero 2,54 min di avanzamento nella roccia a giro in una circonferenza di 15,24 min nel quarzo.
Valori semplicemente straordinari che potrebbero preludere all'impiego di metalli assai più duri del bronzo e che comunque introducono all'utilizzo di punte vibranti con frequenze ultrasoniche in grado di disgregare la roccia che vibra per simpatia, un po' come si fa oggi. Da qui postulare l'utilizzo del ferro o dell'acciaio è un passo breve.
L'errore degli egittologi
Che il ferro fosse conosciuto nell'epoca in cui costruita la Grande Piramide, età che recenti teorie vorrebbero retrodatate di molti millenni, lo sappiamo per certo grazie al ritrovamento nel 1837 di una lastra di ferro, oggi conservata al British Museum, in prossimità dell'estremo esterno del canale sud, quello orientato verso la Cintura di Orione, che emerge sulla facciata presso il 102' corso di muratura. 1 blocchi rimossi dall'esplosione di una carica di dinamite collocata da Howard Vyse, esploratore e colonnello britannico, rivelarono che il condotto era chiuso con un piatto di ferro dello spessore di 3 mm, lungo 30.48 cm e largo 10.16. Vyse, certificò e dimostrò con i membri della sua spedizione che il piatto era stato inserito durante la fase di costruzione della Piramide, quindi lo spedì a Londra, dove abbiamo trovato tracce di quanto Flinders Petrie scrisse al suo riguardo 'benché siano stati sollevati alcuni dubbi riguardo al pezzo esclusivamente per la sua rarità, le prove della sua autenticità sono molto precise; si può notare un calco di nummulite (un protozoo marino fossilizzato) sulla parte arrugginita, il che dimostra che è stato sepolto per intere epoche sotto un blocco di pietra calcarea nummulitica, perciò è sicuramente antico. Non può esservi dubbio sul fatto che sia un pezzo autentico '.
Solo nel 1989 venne eseguita un'analisi metallografica dal dott. M.P. Jones dell'Imperial College di Londra e dal dott. Sayed El Gayer dell'Università di Suez. Al termine dell'analisi fu escluso che il piatto potesse essere di ferro meteoritico, dal momento che il nickel è presente in termini di minime percentuali.
Il metallo sarebbe dunque un manufatto fuso e forgiato dall'uomo, peraltro in modo primitivo ed inesperto, ad una temperatura di 1.000°- 1.100° e le tracce d'oro che conserva su un lato ne fanno un pezzo pregiato, connesso con qualche culto. L'analisi metallografica conclude testualmente che ' sulla base della presente indagine si può concludere che il piatto di ferro è molto antico. La dimostrazione metallurgica rafforza la dimostrazione archeologica secondo la quale il piatto fu incorporato nella Piramide all'epoca in cui fu costruita'. Un dato, questo, tuttora sconosciuto a molti egittologi che stravolge la tradizionale cronologia storica egizia (il ferro lavorato viene ufficialmente considerato come introdotto dagli Ittiti in Egitto nel XIV sec. a.C. N.d.R.) con tutte le ipotizzabili conseguenze che ne derivano.
Chi è Roberto Manieri. Giornalista professionista e fotoreporter è studioso di egittologia e collabora a pubblicazioni di carattere scientifico, tra cui National Geographic.
Per conto di varie case editrici nazionali ed estere e istitituti enciclopedici ha realizzato ricerche e studi, approfondendo varie tematiche legate alle antiche civiltà ed ai misteri irrisolti, a cui approccia con metodo e stile documentato e scientifico.
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