storia |
I Romani sentirono profondamente l'attrattiva della vita domestica.
La moglie appare in ogni età la comna dell'uomo romano; gli stà vicino nei ricevimenti e nei banchetti, divide con lui l'autorità sui li e sui servi.
La matrona interveniva al banchetto, ma vi stava seduta, non sdraiata; non partecipava alla commissatio e beveva solo mulsum.
Nell'età infantile, bambini e bambine crescevano giocando insieme e insieme andavano alle scuole elementari dove imparavano a leggere, a scrivere, a far di conto, stenografare.
Terminati i primi studi, le giovinette di buona famiglia continuavano a istruirsi privatamente: studiavano la letteratura latina e la greca, imparavano a sonar la cetra, a cantare, a danzare.
Questa complessa educazione intellettuale non distoglieva la donna dall'occuparsi dei lavori femminili.
Sorvegliavano e guidavano le schiave eseguendo esse stesse i lavori più fini (ricami).
Nei tempi più antichi la matrona filava con le ancelle, e questa occupazione era stimata indice di grande virtù.
Alle fanciulle in età da marito, era imposta una vita ritiratissima, in attesa che il padre trovasse loro uno sposo.
Col matrimonio, poi, la donna romana acquistava libertà di vita e di movimento.
Nessuno costringeva le matrone romane ad un regime di clausura: godevano la fiducia dei propri mariti, uscivano, si scambiavano visite, andavano in giro per i negozi a fare spese.
La sera accomnavano il loro marito al banchetto e rincasavano tardi.
La forma di matrimonio detta cum manu, in uso nei tempi più antichi, sottometteva la donna al potere maritale (manus) nello stesso modo con cui i li erano soggetti alla patria potestas.
La cerimonia veniva celebrata col rito della confarreatio o con quello della coemptio.
Secondo il primo rito gli sposi, con la testa velata, sedevano su due sedie, poste l'una accanto all'altra, sulle quali era stata distesa la pelle di una vittima sacrificata poco prima per prendere gli auspici per le nozze.
Durante il sacrificio nuziale gli sposi dividevano una focaccia di farro, libum farreum, da cui il nome di confarreatio.
Il secondo rito (coemptio) simbolizzava una vendita durante la quale il padre della sposa cedeva allo sposo il suo potere sulla lia.
Invece con la forma di matrimonio sine manu, o libero, la donna, pur sposandosi, continuava ad appartenere alla famiglia paterna e rimaneva sempre soggetta al padre (fu in uso durante l'età classica sino dagli ultimi anni della repubblica, era basato sulla volontà degli sposi di considerarsi marito e moglie e facilmente si poteva sciogliere, bastava per esempio, che il marito intimasse alla moglie, direttamente o con un biglietto o per mezzo di uno schiavo: 'ripigliati quel che è tuo' (tuas res tibi habeto) che il matrimonio era sciolto).
Il repudium, semplicissimo nella forma, era considerato atto di eccezionale gravità.
Il giorno delle nozze era scelto con cautela in mezzo a una selva di giorni e di mesi di cattivo augurio che la superstizione dei Romani evitava.
Il periodo migliore era la seconda metà di giugno.
Alla vigilia delle nozze la sposa consacrava a una divinità i balocchi della sua infanzia, poi indossava l'abito nuziale, si copriva la testa con una cuffia di colore arancione e, così ornata, si coricava.
La mattina delle nozze la sposa ornava i capelli con bende (vittae) e veniva pettinata in un modo speciale, con i capelli divisi in varie ciocche.
L'abito nuziale era una tunica bianca e semplice, lunga sino ai piedi, stretta in vita da una cintura i capi della quale erano legati con un nodo speciale (nodus herculeus).
Dalla testa della sposa scendeva, sino a coprirne il volto, un velo arancione, il flammeum.
Durante il rito la sposa era assistita dalla pronuba, una matrona che, per essere onorata di tale ufficio, doveva avere avuto un solo marito.
Il rito cominciava con un sacrificio augurale dal quale si traevano gli auspici.
Terminato il sacrificio, seguiva la sottoscrizione delle tabulae nuptiales, il contratto di matrimonio, in presenza di dieci testimoni; quindi la pronuba prendeva le destre degli sposi e le poneva l'una nell'altra.
Terminate tutte le formalità, aveva luogo il banchetto (cena nuptialis).
La casa della sposa era addobbata a festa; dalla porta e dagli stipiti pendevano corone e fiori, rami di piante sempreverdi, come il mirto e il lauro, e fasce colorate; nell'ingresso si stendevano dei tappeti; nelle case patrizie si aprivano gli armadi che custodivano le immagini di cera degli antenati.
Dopo il banchetto, verso sera, gli invitati accomnavano la sposa nella casa del marito.
La cerimonia dell'accomnamento avevano inizio con un tentativo di ratto: lo sposo, all'improvviso, faceva finta di strappare la giovane moglie dalle braccia della madre.
Si formava, poi, un corteo diretto alla casa dello sposo.
La sposa avanzava portando il fuso e la conocchia, simboli della sua nuova attività di madre di famiglia, ed era preceduta da un fanciullo che agitava una fiaccola di biancospino accesa nel focolare della casa della sposa.
Altri due fanciulli stavano ai lati della sposa e dietro di lei veniva una folla schiamazzante che gridava il grido nuziale talasse o talassio, parola di cui non si conosce con certezza il significato.
Quando la sposa giungeva alla casa maritale, ne ornava la soglia con bende di lana e la ungeva con lardo di maiale e con olio.
Il marito, che aveva preceduto la moglie, stando sulla porta le domandava come si chiamasse, ed essa rispondeva amabilmente: Ubi tu Gaius ego Gaia; allora quelli che l'accomnavano la sollevavano di peso e la portavano in casa senza che lei toccasse la soglia.
La pronuba faceva sedere la sposa sul lectus genialis di fronte alla porta, dov'essa pronunziava le preghiere di rito alle divinità della nuova casa.
Con ciò la festa era finita; il corteo nuziale si scioglieva e gli invitati tornavano alle loro case.
Il giorno dopo le nozze la sposa, che vestiva per la prima volta gli abiti matronali, faceva un'offerta ai Lari e ai Penati e riceveva doni dal marito; quindi aveva luogo un banchetto intimo fra i parenti dello sposo.
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