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Dal 1903 subentrò al governo, come Primo Ministro, Giovanni Giolitti, che rimase al potere fino al 1914.
Giolitti, liberale riformista, fu un grande statista e fu subito consapevole dei nuovi equilibri e delle trasformazioni sociali ed economiche che il XX secolo portava con sé. Per questo cercò subito di conciliare le esigenze dello Stato con le nuove istanze dei lavoratori, affinché le lotte di classe non minacciassero l'equilibro del Paese.
Nella ricerca di un nuovo equilibrio politico Giolitti fu avvantaggiato sicuramente:
Dalla debolezza politica dei socialisti e dei cattolici;
Dal sistema parlamentare, che permetteva ampio gioco al trasformismo.
Il progetto innovatore del Giolitti si esplicò subito nella teorizzazione del non intervento dello Stato nelle lotte tra capitale e lavoro, essendo necessari i miglioramenti salariali e visto che le classi popolari rappresentavano la maggioranza del Paese. In questo modo si sarebbe evitato che queste classi non si avvicinassero troppo al socialismo, vedendo nello Stato Liberale il proprio futuro.
Il bisogno di un appoggio da parte delle forze socialiste nacque dalla consapevolezza di un indebolimento dei partiti di origine risorgimentale.
Seppure i liberali avessero la maggioranza, il partito era comunque diviso in piccoli gruppi in lotta tra loro; deboli erano anche i radicali (libero professionisti e intellettuali) e i repubblicani.
Giolitti cercò il consenso dei socialisti facendo propri alcuni punti del programma minimalista, quali la libertà di parola, di stampa, di riunione e il riconoscimento dei sindacati.
Tuttavia, il proposito di fare del PSI un partito collaborazionista si scontrava con l'esistenza, al suo interno, dell'ala minimalista e di quella massimalista, con il rischio di una scissione. Conseguente fu quindi il rifiuto di Turati a entrare a far parte del governo.
Turati, del resto, aveva evitato la scissione proprio nel Congresso Socialista del 1900, in cui aveva sostenuto che il programma minimo, simile quello giolittiano, doveva essere visto come primo passo verso il raggiungimento di quello massimo.
Proprio sul fronte socialista, Turati aveva però dovuto anche scontrarsi con i sindacalisti rivoluzionari, che avversavano un sistema liberale-parlamentare e che vedevano nello sciopero generale l'unico sbocco rivoluzionario possibile.
Tuttavia, Turati condivideva con gli esponenti della destra riformista (Bonomi e Bissolati) una prospettiva riformista e non rivoluzionaria, secondo cui era necessario puntare sul suffragio universale per trasformare il parlamento nel rappresentante del popolo, più che in un organo della borghesia.
Il primo esperimento di sciopero generale, voluto dai sindacalisti rivoluzionari, si ebbe nel 1904: Giolitti attuò la sua politica di non intervento e, dopo aver sciolto il parlamento, indisse nuove elezioni.
Tale modo di agire si presentò come un successo per Giolitti, dal momento che la sinistra parlamentare s'indebolì, nel PSI si rafforzarono i riformisti e molti cattolici votarono candidati liberali non anticlericali.
Giolitti intese subito come il conflitto tra lo Stato e la Chiesa avesse perduto i connotati di un tempo. Per questo adottò una separazione tra i due piani, coniugando la formula secondo cui Stato e Chiesa sono "due parallele che non devono incontrarsi mai".
Si trattò di una politica di apertura che trovava un riscontro nel nuovo papa Pio X (1903- 1914), che aveva già incoraggiato nelle elezioni amministrative alleanze tra cattolici e liberali moderati.
Nonostante una certa apertura sul piano politico, rimase, da parte della Chiesa, una sostanziale chiusura sul piano culturale, soprattutto in merito alla questione del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno. Nell'enciclica Pascendi Pio X mostrò la propria intransigenza, definendo "modernismo" tutti gli atteggiamenti non solo lontani dall'ortodossia, ma anche quelli appartenenti al filone cattolico- liberale.
In questa maniera l'indubbia dimensione pastorale del papa non riusciva a colmare la debolezza culturale nei confronti del mondo moderno, che veniva negativamente affrontato in maniera repressiva.
Sempre nella medesima ottica centralistica Pio X decise, nel 1904, di sciogliere l'Opera dei Congressi, al fine di contenere le proposte di Romolo Murri, che, di lì a poco, avrebbe fondato la Lega Democratica Nazionale, volta a combattere un cattolicesimo troppo moderato e non attento alle dinamiche sociali.
Nel 1909 il proposito di Murri di fondare un partito d'ispirazione cattolica contro la linea ufficiale della Chiesa si spegneva con la scomunica di Murri stesso.
Gli anni delle riforme sono compresi tra il 1905 e il 1909, in cui Giolitti poté appoggiarsi ai cattolici e ai socialisti, che nel 1908 avevano condannato apertamente il sindacalismo rivoluzionario.
Le riforme in campo economico e sociale furono:
La nazionalizzazione delle principali linee ferroviarie;
Norme sul lavoro di carattere sociale (obbligo di riposo festivo, prevenzione degli infortuni, proibizione del lavoro notturno per donne e bambini, diritto di sciopero).
Interventi e leggi speciali per il Mezzogiorno.
Inoltre in questi anni Giolitti attuò una forte azione di risanamento finanziario dello Stato (infatti la produzione industriale in questo anno crebbe mediamente del 12%).
A trainare tale sviluppo furono soprattutto i settori dell'industria meccanica, di quella metallurgica e di quella siderurgica. Questi settori erano nati in un regime protezionistico ed erano alimentati da cospicui aiuti statali e perciò non si preoccupavano di rinnovare i propri metodi di produzione.
La trasformazione economica attuata da Giolitti fu certamente impetuosa, caratterizzata dal protezionismo e dagli aiuti statali, anche se alla fine dell'età giolittiana l'agricoltura forniva ancora il 45% del prodotto nazionale, mentre l'industria solo il 25%.
Tre furono i punti di crisi dello sviluppo economico:
La limitatezza del mercato interno, che determinò un'imponente emigrazione verso altri Paesi europei e verso l'America.
L'eccessiva dipendenza di alcuni dei principali rami industriali dal protezionismo doganale e delle banche, che, se in difficoltà, dovevano ricorrere all'aiuto dello Stato.
La quasi esclusiva concentrazione delle industrie nell'Italia settentrionale.
I limiti che la politica giolittiana portava con sé portarono alcuni intellettuali (Einaudi, Salvemini, direttore dell'Unità) a rivendicare il liberismo, anche sotto una prospettiva socialista.
Ad essi si aggiunsero i meridionalisti, che protestavano contro la politica economica di Giolitti, volta a favorire l'economia del Nord e gli interessi della parte più qualificata del mondo operaio e capace di fornire elementi di corruzione.
Tali critiche non sempre furono obiettive, in quanto era difficile incidere sulla realtà del latifondismo tipica del Sud Italia. Del resto, l'approvazione delle leggi statali a favore del Mezzogiorno non potevano, da sole, risolvere la questione agraria, che s'insinuava nella più ampia questione meridionale.
Dopo le elezioni del 1909 il delicato equilibrio del governo di Giolitti iniziò ad inclinarsi; la vicenda che maggiormente modificò tale equilibrio fu quella coloniale in Libia.
Quest'impresa era ormai richiesta dai settori industriali e bancari, dall'opinione pubblica e dal mondo socialista, che vedeva nella Libia un nuovo sbocco lavorativo per la manodopera contadina meridionale.
Tale impresa fu infine anche appoggiata dal movimento nazionalista, formatosi inizialmente come movimento letterario e culturale e sviluppatosi poi favorendo un'ideologia imperialista, protezionista, aristocratica e bellicista. D'Annunzio, per esempio, vedeva la guerra come "la più grande delle azioni umane", mentre per Giolitti non era che un "fatalità storica".
La guerra iniziò nel 1911, con la dichiarazione di guerra alla Turchia (che dominava il territorio libico). La resistenza fu tenace e la vittoria italiana fu ottenuta a caro prezzo.
La pace di Losanna (1912) sancì le conquiste, alle quali si aggiunse l'occupazione delle isole di Rodi e del Dodecaneso.
Alla guerra di Libia non seguirono le conseguenze che Giolitti si era aspettato.
Il sistema liberale giolittiano ne uscì sostanzialmente indebolito, serrato tra gli attacchi di destra dei nazionalisti e tra le accuse dei socialisti massimalisti rivoluzionari, il cui potere era in ascesa; essi avevano sfruttato la polemica contro la guerra di Libia ed erano capeggiati da un nuovo uomo, Benito Mussolini, direttore dell'Avanti!, un giornale la cui impronta era antimonarchica, anticlericale e antigiolittiana.
A questa nuova fase Giolitti cercò di rispondere con alcune importanti riforme, tra cui la riforma scolastica "Credano" e l'introduzione del suffragio universale maschile.
La mossa più ardita Giolitti la fece però coi cattolici: da alcuni anni ormai si era formata un'intesa, ma nel 1919, nonostante il non expedit, un gruppo di cattolici diventò addirittura deputato in parlamento.
Un compromesso venne sancito col patto Gentiloni, che prevedeva che nelle elezioni del 1913 i cattolici potessero votare i candidati liberali che non adottassero una politica anticlericale.
Questo spiega la diffidenza di molti liberali e il rafforzarsi delle istanze nazionaliste.
Di fronte al precipitare degli eventi Giolitti decise di cedere il governo al conservatore Solandra (1914).
Nel giugno dello stesso anno uomini come il socialista Mussolini, l'anarchico Malatesta e il repubblicano Nenni proclamarono in Romagna e nelle Marche alcune "effimere repubbliche rosse", che provocarono un'immediata depressione.
Pochi giorni dopo sarebbe scoppiata la Prima Guerra Mondiale e il corso degli eventi sarebbe completamente mutato.
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