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LO STATO IMPERIALISTA DELLE MULTINAZIONALI NON E' FASCISTA NE' SOCIALDEMOCRATICO
Nel passaggio dalla pace armata alla guerra si fa sempre
più diretto e generalizzato lo scontro rivoluzione-controrivoluzione, ma
non si ha però, come alcuni sostengono, una trasformazione dello Stato
democratico in Stato fascista. Ci troviamo invece sempre in presenza di uno
Stato che, ristrutturandosi, ha subito delle modificazioni nel peso specifico
dei suoi componenti fondamentali; prima gli strumenti pacifico-riformisti
avevano il predominio sugli strumenti militari-repressivi, ora invece
l'annientamento predomina e subordina a sé la funzione riformista.
Fascismo e socialdemocrazia sono state forme politiche oscillanti che il potere
della borghesia ha assunto nella fase del capitalismo monopolistico nazionale.
Possiamo aggiungere ancora, semplificando al massimo, che fascismo e
socialdemocrazia si sono, nella storia, reciprocamente esclusi. Nello stato
imperialista invece la sostanza di queste forme politiche coesiste, dando luogo
ad un 'regime' originale che perciò non è fascista né
socialdemocratico, ma rappresenta un superamento dialettico di entrambe.
Alcuni definiscono la fase di transizione dalla pace armata alla guerra come
processo di fascistizzazione e la forma politica dello Stato in questa fase
come 'nuovo fascismo'.
Queste due categorie, anche se colgono alcuni aspetti del fenomeno, non
riescono però a scavare in profondità e introducono così
notevoli elementi di confusione.
Innanzitutto il fascismo non è un fenomeno metastorico (cioè al
di fuori della storia), ma rappresenta la forma assunta dallo Stato borghese in
una data fase di sviluppo delle forze produttive (capitalismo monopolistico a
base nazionale) e come tale presenta specificità non riscontrabili nello
Stato imperialista delle multinazionali.
Dello Stato fascista, lo Stato imperialista recupera, perfezionandolo e
mistificandolo, tutto l'apparato della controrivoluzione preventiva,
scartandone però tutto il bagaglio angustamente nazionalistico
(esasperata coscienza nazionale, autarchia).
C'è inoltre un altro aspetto da tener presente: il fascismo ha dovuto
conquistare dall''esterno' il vecchio Stato liberale, rimodellandolo
poi sul suo progetto strategico; ora invece la conquista degli apparati da
parte del personale politico della borghesia imperialista procede esclusivamente
per 'linee interne'. Lo Stato imperialista non è dunque
fascista.
Il concetto di fascistizzazione appare non solo riduttivo ma anche falsante
nella misura in cui non ci consente di cogliere il nuovo carattere della
'violenza concentrata' né il rapporto organico che essa stringe con
le pratiche di integrazione riformista.
Altri in questa fase di transizione credono di scorgere una tendenza alla
trasformazione dello Stato in senso socialdemocratico e si chiedono se la
socialdemocrazia rappresenti o meno la via d'uscita alla crisi imperialistica
e, più precisamente, se il PCI si accinga o meno a fare il suo ingresso
nell'area di potere. Questo quesito ne contiene in sé un altro, cioè se
il PCI sia o meno un partito socialdemocratico.
Tra socialdemocrazia e riformismo moderno le differenze sono numerose ed alcune
di fondo. La socialdemocrazia è un fenomeno tipico di quelle fasi dello
sviluppo capitalistico in cui le crisi seguono ancora un andamento ciclico:
uscendo dai periodi di depressione, il capitalismo può, ricorrendo ad
una politica riformista, 'corrompere gli strati di aristocrazia
operaia' che costituiscono i a base di massa della socialdemocrazia
storica.
In altre parole, la possibilità di una ripresa produttiva consente alla
borghesia un margine di contrattazione reale con la 'destra operaia':
ciò provoca, tra gli altri effetti, l'integrazione dei gruppi dirigenti
dei partiti riformisti all'interno del blocco sociale che detiene il potere.
L'alleanza tra borghesia e riformismo è dunque di natura sociale, oltre
che politica: i socialdemocratici e gli 'operai professionali' si
schierano a fianco del padrone perché con esso hanno interessi reali comuni (la
ripresa dell'accumulazione e la ristrutturazione produttiva) e perché ambiscono
a diventare essi stessi padroni con fondate possibilità di riuscire a
divenirlo. Inoltre, le particolari caratteristiche dello Stato in questa fase
della storia del capitalismo facilitano l'ingresso della socialdemocrazia in
quel governo che è da sempre l'anticamera del potere: lo Stato ancora
relativamente autonomo dall'economia, giustifica in qualche misura l'illusione
che sia possibile la sua conquista ed il suo utilizzo da parte della classe
operaia.
Questi dati oggi non si danno più. La crisi del sistema imperialista non
è prevedibile che sfoci in una ripresa dell'accumulazione, sia perché
l'economia è entrata in una fase di stagnazione da cui si
risolleverà solo con la guerra per una diversa ripartizione dei mercati,
sia perché le politiche economiche adottate dagli stati tendono a restringere,
anziché ad ampliare, la base produttiva. Mancano di conseguenza, tanto le basi
strutturali (natura e andamento della crisi) quanto quelle soggettive
(politiche dei governi e degli stati) per rendere possibile l'integrazione dei
revisionisti in un blocco sociale che persegua una politica di tipo
riformistico. O meglio: è ancora possibile che i revisionisti (il loro
gruppo dirigente) siano temporaneamente ospitati all'interno del Governo, ma
è escluso che esistano le condizioni per integrare strati di
aristocrazia operaia o di ceti medi all'interno di un blocco di potere
incaricato di gestire un tipo di sviluppo che non si può più
dare, stante il carattere imperialistico e multinazionale del capitalismo della
nostra epoca. Che cosa, infatti, possono concedere i capitalisti all'operaio
professionale in cambio della sua collaborazione se non la cassa integrazione,
licenziamenti, aumento dello sfruttamento e progressiva ma costante riduzione
del potere d'acquisto dei salari? E comunque, al di là delle
contropartite materiali, in quale ipotesi di sviluppo possono essere coinvolte,
anche soltanto ideologicamente, quelle fasce di aristocrazie operaie che hanno
ormai esaurito il loro potenziale progressista dal punto di vista del capitale?
L'assenza delle condizioni strutturali per la formazione di un nuovo blocco
sociale di potere non esclude tutte le caratteristiche di questo rapporto che,
d'altra parte, dipendono dalla situazione di classe, oltre che dal livello
delle forze produttive.
Se a are il prezzo dell'ascesa al potere della socialdemocrazia storica
furono prima di tutto i contadini, dal momento che la ripresa
dell'accumulazione avveniva a scapito della camna, oggi il rapporto
preferenziale della borghesia imperialista con i revisionisti si fonda
sull'individuazione del 'proletariato emarginato' come variabile di
cui è indispensabile detenere il controllo.
In altre parole, l'operaio professionale 'dovrebbe diventare,
simultaneamente, un vero e proprio soldato della produzione e funzionare come
poliziotto sia nei confronti dei comni di lavoro, sia soprattutto nei
confronti della massa dei proletari marginalizzati della grande
metropoli'.
Per tutti questi motivi è inevitabile che la politica dei revisionisti
perda progressivamente tutti i propri tratti riformistici per assumerne di
apertamente repressivi: da progressiva, la funzione del PCI diventa
così, di fatto ed indipendentemente dalla volontà dei suoi
militanti, conservatrice, finalizzata com'è ad esercitare un rigido
controllo sul mercato del lavoro e ad organizzare il consenso attorno ad un
progetto di sviluppo economico e sociale che essendo per la natura
dell'imperialismo, incapace di mobilitare e coinvolgere le masse (com'era
riuscito a fare ad esempio il fascismo), costringerà sempre di
più i revisionisti a ricorrere a strumenti coercitivi e ad imporre
forzatamente il consenso, anziché a sollecitarlo e ad interpretarlo.
Questo avverrà perché, se l'imperialismo è capitalismo in
putrefazione non si dà ulteriore sviluppo delle forze produttive senza
sconvolgimento dei rapporti di produzione corrispondenti, ciò significa
che la necessità di mantenerli inalterati si dovrà scontrare con
la volontà di modificarli e che i partiti riformisti di tradizione
operaia, da strumenti per la pace sociale si trasformeranno in altrettanti
strumenti per la guerra civile.
In questo senso è possibile sostenere che i revisionisti sono al
servizio dello Stato imperialista delle multinazionali e che la contraddizione
con il revisionismo moderno, oltre ad essere antagonistica, va affrontata anche
sul piano militare. Già oggi grazie alla mediazione dei revisionisti, la
militarizzazione si estende dalla fabbrica al quartiere, ai rapporti
interpersonali, alle famiglie, in una catena di rapporti sociali gerarchizzati
e violenti, dominati dalle leggi di una società repressiva che
l'imperialismo vorrebbe sempre più simile ad un lager di milioni di
produttori.
Va tenuto presente, inoltre che, una delle ragioni per cui l'alleanza con il
revisionismo moderno è auspicabile per la borghesia, consiste nella
possibilità di penetrare più agevolmente nei mercati dell'Est
europeo.
Oltre che dei progetti politici delle multinazionali nel loro complesso, il PCI
è anche e soprattutto al servizio dello Stato imperialista in quanto
imprenditore esso stesso: in questo caso il ruolo del PCI cessa di essere
puramente subalterno, per divenire attivo, assumendo i caratteri riformistici
di una ipotesi evoluzionistica e gradualistica di transizione al socialismo. La
duplicità della funzione e della natura del PCI (da una parte, funzione
poliziesca e natura conservatrice; dall'altra, funzione razionalizzatrice e
natura riformistica) è probabile stia al fondo dei suoi successi
elettorali e della stia 'tenuta' in presenza di una lotta di classe
che tocca i livelli sempre crescenti di maturità.
Se nei confronti dei monopoli e delle multinazionali l'atteggiamento del PCI
è indiretto e passa attraverso la mediazione dello Stato, nei confronti
dello Stato considerato come capitalista esso stesso, il punto di vista dei
revisionisti ha più di un fenomeno teorico e trova giustificazione nel
rilievo particolare che ha assunto (già durante il fascismo) e seguita
ad assumere l'intervento dello Stato nell'economia italiana.
Alla base delle valutazioni del PCI sta 'il recupero delle analisi di
Engels e di Lenin sulla natura ambivalente del capitalismo di Stato,
cioè è visto da un lato, come punto di massimo sviluppo del
capitale e, dall'altro, come punto di sua massima contraddizione (sul quale
incidere politicamente), in quanto espressione di una acutizzazione della
contraddizione di fondo tra il carattere sempre più sociale della
produzione capitalistica e il carattere privato dell'appropriazione del
plusvalore'. Da ciò, 'una sorta di ottimismo sulla
possibilità di 'uso' immediato degli strumenti di intervento statale e
in particolare dell'impresa pubblica per fini diversi da quelli per cui sono
nati'.
Muovendo da questi presupposti teorici che ignorano non soltanto i rapporti tra
Stato e multinazionali (al punto che i revisionisti giungono a favoleggiare
un'alleanza fra classe operaia ed impresa pubblica in funzione
antimonopolistica) ma persino gli interessi diretti che lo Stato, in quanto
imprenditore, ha nella sfera della produzione, è conseguente che
riformismo e repressione divengano facce di una stessa medaglia e che il PCI si
riveli uno strumento, più o meno decisivo o più o meno
accessorio, di divisione della classe operaia, di controllo del mercato del
lavoro, di organizzazione del consenso e di repressione dell'autonomia
proletaria e della rivoluzione.
All'interno del partito revisionista vive perciò anche una
ambiguità tra due tendenze; una che potremmo definire impropriamente
'ala sinistra della socialdemocrazia' la quale ha fatto proprio con
l'accettazione della NATO anche il sistema di valori occidentali; l'altra che
si ispira al 'capitalismo di Stato' e che vede il
'compromesso' come primo passo tattico in questa direzione.
Ciò comporta che il legame tra il partito revisionista e il
socialimperialismo sovietico viene a dipendere dalla posizione di maggior forza
della seconda corrente rispetto, alla prima.
A livello europeo l'ultrarevisionismo cerca di porsi come forza autonoma, forza
egemonizzante rispetto ad un'area politica che vede accomunati cani e porci
della sinistra della socialdemocrazia, passando per i 'vari
eurocomunismi', per arrivare alle false incitazioni leniniste tipo
Portogallo. Esso si pone nei confronti dell'imperialismo come forza
interna-esterna, per questo ispira diffidenza a sectiuner e ai suoi vassalli
europei, i quali sarebbero pure tentati di usarlo, ambiziosamente, in funzione
catalizzante del 'dissenso' nei paesi dell'Est; ma per il momento
resta comunque un'arma a doppio taglio.
L'unica carta che l'ultrarevisionismo pareva avesse in mano, essere cioè
garante della 'pacificazione' dell'area meridionale dell'Europa, ha
perso gran parte del suo valore in seguito allo sviluppo dei movimenti
autonomisti di liberazione (ETA, IRA), alla crescita di forme di guerriglia
metropolitana (RAF, NAPAP, BR) e alla crescita generalizzata dei movimenti
autonomi di massa.
L'unità dell'eurocomunismo (dall'agente della CIA, Carrillo al fratello
scemo di De Gaulle, Marchais) è l'unità dell'opportunismo:
è l'unità dei rinnegati del marxismo-leninismo, del tradimento
delle aspirazioni di emancipazione della classe operaia.
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