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La Giovinezza E L'ascesa Al Potere Di Ottaviano - La giovinezza di Ottaviano, La lenta ascesa al potere, Ottaviano di fronte ad Antonio, I poteri di A

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La Giovinezza E L'ascesa Al Potere Di Ottaviano

La giovinezza di Ottaviano

Da parte di padre, Ottaviano apparteneva a una famiglia di Velitrae (oggi Velletri) che non aveva origini patrizie. Il bisnonno e il nonno facevano parte dell'ordine equestre e avevano fatto carriera con funzioni subalterne. Il padre era stato membro della nobiltà senatoriale per gli scaglioni del cursus honorum; dopo aver occupato un posto di pretore, era stato governatore della Macedonia. Quale compenso a questa mediocre notorietà, Ottaviano conobbe l'agiatezza, se non proprio la ricchezza. Da parte di madre, Azia, era invece legato alle più grandi famiglie di Roma. Azia era lia di M. Azio Balbo, di vecchia famiglia di senatori, imparentata al grande Pompeo, e di Giulia, una delle sorelle di Giulio Cesare. Essere il pronipote del dittatore fu la fortuna del giovane Ottaviano. Fu allevato a Velletri, dove perse il padre all'età di quattro anni. Sebbene risposata a L. Marzio Filippo, la madre seguì da vicino la sua educazione, tanto più che per la sua debole costituzione il giovane destava le preoccupazioni di Azia. Fu allievo dotato e attento, sia in retorica, sotto l'insegnamento di M. Epidio, sia in letteratura e in greco, di cui gli furono precettori maestri stoici, quali Apollodoro di Pergamo, Ario di Alessandria, Atenodoro di Tarso. È in gran parte questa aperta intelligenza che, molto presto, attirò su di lui l'attenzione del prozio Giulio Cesare. Già all'età di dodici anni, egli pronunciò, davanti al popolo romano radunato, l'elogio funebre della nonna. A 14 anni vestì la toga virile. Al giovane Ottaviano non mancavano ormai riconoscimenti. Nel 48 fece parte del collegio pontificio, che Giulio Cesare presiedeva quale massimo pontefice. Nel 47, durante l'assenza di Cesare da Roma, egli esercitò le funzioni di prefetto della città. Ma il dittatore avrebbe anche voluto fargli prendere parte attiva ai suoi successi militari; sfortunatamente la salute di Ottaviano non gli permise di recarsi in Africa, fatto che non impedì al suo prozio di fargli accordare i dona militaria e la partecipazione alla cerimonia del trionfo nel 46. L'anno dopo, colpito da una grave malattia, poté raggiungere Cesare in Sna solo al termine della camna decisiva in Munda. Tutto lo designava già come l'erede di Cesare, ma quest'ultimo voleva ch'egli completasse la sua educazione intellettuale e militare. Lo mandò in Grecia, ad Apollonia, per terminare i suoi studi e sorvegliare i preparativi dell'esercito, che Cesare progettava di mandare ben presto contro i Parti. Là, alla fine del mese di marzo del 44, il giovane Ottaviano ricevette la terribile notizia; l'uomo che ammirava e rispettava tanto era stato assassinato in pieno senato.



La lenta ascesa al potere

Ottaviano, non ancora diciannovenne, deve decidere del suo destino. Egli avrebbe potuto allora abbandonare ogni ambizione, ma lo spettacolo offerto da Roma fin dalla sua prima infanzia, gli ha dimostrato che il potere appartiene a coloro i quali danno prova di tenacia e di audacia. Consapevole che la sua assenza favorisce l'ascesa di Antonio (nato nell'83 a.C.), allora console, che si impone quale vendicatore di Cesare, decide di tornare in Italia. Sbarcando a Lupiae, presso Brindes (oggi Brindisi), alla fine di aprile, egli apprende che, col suo testamento, Cesare lo fa erede e lio adottivo. Ottaviano è così designato successore del dittatore assassinato; egli non può più indietreggiare davanti al suo destino, nonostante le preghiere della madre e del patrigno. Non esita a recarsi a Roma, dove giunge senza clamore all'inizio del mese di maggio. Egli pretende di venir riconosciuto quale erede del padre; tutto, nei suoi modesti atteggiamenti, sembra confermarlo. Ma egli mette Antonio in un crudele imbarazzo: accordare al giovane Ottaviano ciò che domanda significa dargli il potere. Ogni azione di Antonio ha dunque l'obiettivo di impedire ai comizi del senato di riconoscere l'adozione di Ottaviano da parte di Cesare; senza questo riconoscimento Ottaviano non può legalmente essere considerato lio di Cesare. La posizione di Ottaviano è difficile, ma Antonio non osa attaccarlo direttamente per la statura morale del giovane uomo e per i suoi legami con Cesare; in luglio, egli presiede ai giochi in onore della vittoria di Cesare dove, secondo la leggenda, appare una cometa che il popolo interpreta come segno della volontà del dittatore assassinato. Ottaviano lascia maturare la situazione politica che vede fronteggiarsi i senatori che sostengono gli assassini di Cesare, Bruto e Cassio, e Antonio, il quale attinge la sua forza nella plebe romana. Il primo agosto del 44 i tempi sono maturi. Ottaviano coglie l'occasione: al suo appello i seguaci del padre si radunano attorno a lui: un accordo col senato (con Cicerone in particolare) gli fa attribuire l'imperium e il diritto di sedere tra gli anziani consoli. Il 21 aprile 43, l'esercito consolare sconge Antonio davanti a Modena, ma i due consoli Irzio e Pansa cadono in battaglia. Il trionfo del senato è effimero, poiché Ottaviano reclama il consolato. La sua posizione è consolidata grazie anche alla fedeltà delle legioni consolari. Il senato non gli offre che la pretura; egli marcia su Roma e il 19 agosto si fa nominare console (sebbene non abbia ricoperto alcuna delle cariche di carriera) con il cugino Q. Pedius, quale collega. Egli è il padrone di Roma, revoca l'amnistia agli assassini di Cesare, e, soprattutto, obbliga i comizi a regolarizzare la sua adozione. Diviene allora C. Julius Caesar Octavianus, Ottaviano. Ma non gli piacerà mai essere chiamato così: d'altronde egli non è già per tutti Cesare? Bisogna allora che compia ciò che tanto gli sta a cuore, vendicare la morte di Cesare. Una sola soluzione gli sembra possibile in questo disegno: trovare momentaneamente un accordo con Antonio e Lepido (Aemilius Lepidus), che aveva raggruppato diciassette legioni in Occidente. L'intesa è suggellata a Bologna; risultato è la creazione di un triumvirato costituente per cinque anni (tresviri rei Pubbliche costituendae). Ma Ottaviano sa quanto le leggi possano accrescere la potenza degli uomini; così, con l'accordo dei suoi colleghi, fa confermare l'intesa con un voto popolare: la lex Titia del 27 novembre 43 conferisce loro potere quasi illimitato. I triumviri si dividono il governo delle province d'Occidente; Lepido ha la Gallia Narbonense e la Sna, Antonio la Gallia Cisalpina, Ottaviano l'Africa e la Sicilia. Su questa potenza discrezionale per «organizzare i poteri pubblici» Ottaviano pone le basi della sua futura potenza. Questa intesa oscura le ultime speranze dei repubblicani, contro i quali i triumviri si rivoltano. Trecento senatori e duemila cavalieri sono proscritti: il terrore e l'assassinio invadono Roma; Cicerone viene ucciso. Tutti i magistrati e i senatori devono giurare di rispettare gli atti di Cesare. Ottaviano prende militarmente il controllo dell'Africa, ma lascia la Sicilia occupata dai repubblicani di Sesto Pompeo, lio del grande Pompeo. Poi Antonio e Ottaviano radunano le loro truppe e con diciannove legioni sbarcano in Grecia, dove si trovano Bruto e Cassio con uguali forze. L'urto decisivo avviene in due tempi, presso Filippi; dapprima Ottaviano si vede togliere il campo da Bruto, ma, sull'altra ala, Antonio ristabilisce la situazione contro Cassio, che si suicida. Il 23 ottobre 42, Antonio ottiene a viva forza la vittoria: Bruto si uccide. Il ruolo di Ottaviano è stato mediocre nella battaglia: è più crudele da vincitore. La battaglia di Filippi segna il declino e l'eliminazione progressiva di Lepido; egli deve cedere la Gallia Narbonense ad Antonio e la Sna a Ottaviano. Riceve quale compenso l'Africa. Antonio si reca in Oriente, sorgente inesauribile d'oro e ricchezze; Ottaviano torna in Italia, dove distribuisce terre ai veterani cacciando senza pietà molti contadini.

Ottaviano di fronte ad Antonio

I repubblicani sono stati eliminati, ma due uomini con ambizioni immense e simili restano di fronte. Il conflitto è ormai inevitabile. Tramite Lucio e Fulvia, fratello e moglie di Antonio, avvengono i primi scontri; essi approfittano del malcontento dovuto alla crisi finanziaria ed economica per sollevare le legioni della Gallia; ma i luogotenenti di Ottaviano li fermano a Perosa, e li costringono a modulare. Antonio corre in loro soccorso e fa blocco a Brindisi per terra e per mare. Tuttavia, i veterani delle due armate non vogliono una guerra fratricida; nell'ottobre 40, una conferenza si conclude con la «pace di Brindisi». Lepido possiede ormai solo l'Africa; in realtà Antonio diventa il padrone d'Oriente e Ottaviano quello d'Occidente. Quest'ultimo ha capito quali trionfi immensi (militari e soprattutto psicologici) egli mantiene restando in Occidente e relegando il suo rivale in Oriente. Il conflitto non è ancora giunto al culmine, poiché per suggellare questa «pace», Antonio sposa Ottavia, sorella di Ottaviano, allora vedova e incinta di Caio Claudio Marcello. Per ufficializzare il loro accordo, i due triumviri entrano insieme trionfalmente in Roma. A questo punto Ottaviano decide di applicare il piano che ha pazientemente elaborato. Bisogna che si assicuri il controllo totale dell'Occidente, e là forgiare uno strumento di combattimento terrestre capace di opporsi all'esercito di Antonio. Dopo la partenza di Antonio (settembre 39), egli intende eliminare Sesto Pompeo, al quale era stata lasciata la Sicilia con il patto di Miseno, e che continua, nonostante gli accordi, a controllare le vie marittime, potendo in qualsiasi momento portare Roma alla fame. Grazie all'aiuto intelligente e competente di Agrippa, può contare ben presto su una flotta che gli permette di controllare lo stretto di Messina ma, per prudenza, e dopo una sconfitta allo sbarco in Sicilia, chiede ad Antonio un aiuto navale. Costui si reca in Italia con tali forze che un conflitto sembra pronto a scoppiare fra i due uomini: l'intervento di Ottavia permette un'intesa a Taranto nel 37; Antonio fornisce navi a Ottaviano; quest'ultimo concede ventimila soldati per la guerra d'Oriente. Ne approfittano per rinnovare per cinque anni il triumvirato, che era legalmente scaduto il primo gennaio 37. Il 3 settembre 36, a Nauloco, in una battaglia navale, Sesto Pompeo è vinto; venuto dall'Africa, Lepido sbarca in Sicilia e ne prende possesso. Questo evento ostacola gli scopi che Ottaviano si è prefisso. Quando Lepido vuol conservare la Sicilia, riceve un rifiuto da Ottaviano che occupa l'isola con le sue truppe; Lepido, abbandonato dalle sue legioni, è costretto a cedere: perde il titolo di triumviro e ogni possesso. Ottaviano controlla ormai tutto l'Occidente. Il 13 novembre 36, entra trionfalmente a Roma. Con consumata abilità politica, realizza allora l'unità morale di questa metà del mondo romano. Egli si presenta quale conciliatore e uomo rispettoso della tradizione, fa bruciare gli atti riguardanti la guerra civile, abolisce il tributo, distribuisce terre ai suoi veterani, fa riprendere grandi lavori pubblici a Roma. Infine intraprende spedizioni destinate a stabilizzare la situazione in alcune province limitrofe, come l'Illiria e la Dalmazia, dove fonda colonie. Ben presto l'opinione pubblica gli fornisce l'appoggio di cui ha bisogno; inoltre le assemblee popolari e il senato sono sotto il suo controllo e approvano ogni sua decisione. E' così che riceve la potestà tribunizia a vita e il diritto, come Cesare, di portare la corona di lauro dei trionfatori. Ora può impegnarsi nella lotta. Dal 35, Ottaviano chiede ad Antonio di abbandonare Cleopatra. Antonio rifiuta e chiede il ristabilimento della vecchia costituzione; la manovra è abile, poiché potrebbe privare Ottaviano del sostegno dei repubblicani. Ma l'opinione pubblica, in Occidente, sostiene Ottaviano; è la rottura, segnata da uno scambio di messaggi violenti. Entrambi si preparano alla guerra. Nel 32, Ottaviano fa precipitare le cose: sotto la minaccia dei suoi soldati, obbliga i consoli e i senatori che parteggiano per Antonio a fuggire. Ordina al senato di intimare ad Antonio il rientro a Roma e la rinuncia al suo imperium alla scadenza del triumvirato (probabilmente il 31 dicembre 32). Allora Antonio ripudia Ottavia; il gesto è simbolico, poiché Ottavia è a Roma, ma non per questo meno significativo. Per guadagnarsi l'alleanza di tutto l'Occidente, Ottaviano fa aprire il testamento di Antonio, conservato presso le vestali; la sua lettura prova che Antonio fa di Cesarione, lio di Cleopatra, il vero erede di Cesare, conferma le concessioni territoriali fatte a Cleopatra e domanda di essere tumulato ad Alessandria. Roma è in collera: Ottaviano si presenta da quel momento come garante delle tradizioni e delle virtù del passato di fronte al rappresentante dell'Oriente, che sembra voler abbandonare Roma e trasferire il centro dell'impero in Egitto. Il senato annulla i poteri triumvirali di Antonio (cosa che egli non riconosce) e gli toglie il consolato di cui deve essere incaricato nel 31. Non c'è più che un triumviro: in effetti Ottaviano non ha abbandonato i suoi poteri discrezionali; la scadenza di cinque anni è trascorsa, ma i poteri non possono essere revocati prima di una rinuncia ufficiale e prima che il compito di organizzare i poteri pubblici sia stato assolto; durante tutto il periodo che va dal 31 al 28, Ottaviano agisce con i suoi poteri di triumviro (anche se non si serve più del titolo di triumviro ostentando un atteggiamento «repubblicano»). Antonio decide di non intervenire in Italia, e lascia trascorrere l'inverno, dando così la possibilità ad Ottaviano di rafforzare i suoi piani. Nella primavera del 31, quest'ultimo lancia l'offensiva da Brindisi; s'impadronisce di Corcyra (oggi Corfù) e di Leucade, poi di Patrasso e Corinto. Cleopatra spinge Antonio a dare battaglia in mare, ritenendo più debole la flotta di Ottaviano, comandata da Agrippa. La battaglia ha luogo il 2 settembre 31, sotto il promontorio di Azio. Durante il conflitto, numerose navi di Antonio disertano e raggiungono le linee di Ottaviano. Cleopatra e Antonio fuggono. Il resto della loro flotta rientra nel golfo ed è sconfitta. La vittoria è decisiva: una sola battaglia è stata sufficiente. Senza attendere, Ottaviano riorganizza l'Oriente; nell'estate del 30 si trova ad Alessandria, dove Antonio e Cleopatra preferiscono la morte all'umiliazione. L'Egitto diventa provincia romana. Ottaviano torna nell'estate del 29 a Roma, dove viene trionfalmente accolto. La sorte del mondo romano è nelle sue mani.

I poteri di Augusto

L'abilità di Ottaviano sarà di conservare la sua posizione preminente assicurandosi un ritorno alla normalità. Nel 28, egli decide che i suoi poteri eccezionali scadranno alla fine dell'anno. Il 13 gennaio 27, durante una solenne seduta del senato, Ottaviano deve rendere conto del suo operato e rinuncia a tutti i poteri giudiziari che detiene. Dichiara di restituire «alla decisione del senato e del popolo romano lo Stato in suo potere». All'apparenza Ottaviano sembra detentore di poteri legalmente conferitigli: è il ritorno alla normalità. Ma i suoi poteri sono molto diversi da quelli degli anziani magistrati della Repubblica. In effetti, dal 28 Ottaviano era stato proclamato princeps senatus, cioè il primo dei senatori; nel 27 è soltanto princeps. Non si tratta propriamente di un titolo, ma di una qualifica abbastanza diffusa per definire personaggi politici importanti; in più la parola è entrata in uso in onore di Cicerone. Questa definizione gode di un gran prestigio popolare (il popolo ha chiamato Ottaviano princeps al suo ritorno da Azio). Per la magia di questa definizione Ottaviano è, moralmente al di sopra di tutti i romani, ed è il garante dei diritti di ogni cittadino. Ma ciò non può essere sufficiente; il senato gli dà il soprannome di Augustus, che circonda chi lo porta di fervore religioso; significa riconoscergli la priorità nell'interpretazione degli auspici e ricordare che egli è il nuovo fondatore di Roma, come lo fu Romolo, primo augure della città. Augusto gode così di un prestigio sacro. Egli riceve il diritto di ornare la sua casa di allori e di portare, permanentemente, la corona civica, che sottolinea il fatto che Roma deve a lui la sua libertà. È questo l'aspetto che gli conferisce la sua auctoritas (Augusto stesso usa questa parola nelle Res gestae, riassunto del suo operato) presentandosi quale autorità morale superiore a quella di tutti gli altri Romani. Ma questa «autorità» non è solo morale; ha effetti giuridici e permette di controllare tutti gli affari pubblici, ed è così ampia che è impossibile tracciarne i limiti con precisione. Parallelamente a ciò, Augusto può proclamare di non avere competenze legali (potestas) superiori a quelle dei suoi colleghi magistrati. Infatti Augusto resta console (con un collega ogni anno) dal 31 al 23. Riceve così dal senato un lmperium proconsolare sulle province limitrofe, o quelle che non sono ancora in pace; egli ha potere anche sugli eserciti che si trovano in queste province chiamate ora «imperiali», e che sono governate da senatori direttamente dipendenti da lui, i legati. Le altre province (le più antiche) sono chiamate «senatoriali» e i loro governi non dipendono, teoricamente, che dal senato. Il regime tuttavia non mantiene a lungo questo stato di equilibrio. Nel 23, è scoperto un complotto, che coinvolge importanti personaggi vicini ad Augusto. Questi è costretto ad allontanare i suoi amici più cari (tra i quali Mecenate). Inoltre si ammala e pensa di dover morire. Al tempo stesso una crisi economica scuote l'Italia. Numerosi cittadini reclamano un maggior potere del principe, fino alla dittatura se necessario. Le decisioni di Augusto indirizzano il principato verso l'assolutismo monarchico. Per prima cosa egli depone il consolato, sottolineando l'abbandono delle tradizionali magistrature. Ma riveste immediatamente altri poteri: il senato gli accorda un imperium proconsolare superiore a quello di tutti gli altri magistrati, a vita e al di fuori di ogni magistratura; egli ha ormai il diritto di mobilitare le truppe e d'intervenire ovunque nell'impero. Così si rafforza la mistica imperiale; d'ora in poi Augusto, attraverso i suoi generali, sarà sempre vittorioso e attirerà su di sé la vittoria, anche se non sarà presente al combattimento. La decisione più importante è presa il primo luglio dello stesso anno. Augusto si fa nuovamente attribuire la potestà tribunizia, che gli sarà rinnovata ogni anno e gli permetterà nelle titolature di far ire l'anno del suo regno. Gli sono dati i poteri dei vecchi tribuni della plebe; sono concentrati in una sola persona i poteri esecutivi e il diritto di controllo che possiedono i tribuni. Augusto, da questo momento, ha in mano tutto l'ordinamento dello Stato; il princeps può legalmente convocare e presiedere il senato e i comizi, e presentare loro progetti di legge. In questo modo, Augusto può compiere opera di legislatore e riformatore. Dopo questa data, Augusto rifiuta ogni incarico repubblicano che il senato o il popolo vorrebbero conferirgli; egli non ne ha più bisogno, e anzi alcuni potrebbero essere d'ostacolo al suo potere (in particolare la censura a vita e la dittatura). Tuttavia nel 19 accetta il potere consolare a vita. Riceve anche la carica di curatore delle leggi e dei costumi, ma non se ne serve direttamente nonostante questa funzione comporti importanti prerogative (tra cui il diritto di procedere al censimento). Augusto ha così creato un nuovo regime, che si consolida nel tempo. Il princeps non ha voluto rendere immediatamente esecutive le riforme, ma ha mutato lo Stato servendosi delle più vecchie funzioni della rex publica, dando loro un aspetto nuovo, non traumatizzante per i suoi contemporanei. Non esiste, in effetti, un concetto unitario di potere imperiale; Augusto possiede un potere che non è un'entità costituzionale, bensì l'insieme di varie prerogative, alcune giuridiche e altre religiose. Egli è al tempo stesso magistrato e capo religioso col titolo di massimo pontefice che gli viene conferito nel 12 a.C. alla morte di Lepido.

Augusto riorganizza la città

Dopo il periodo delle guerre civili, bisogna ricreare una società ordinata, che permetta una precisa distribuzione delle funzioni e la valorizzazione delle capacità individuali. Ormai, ogni classe sociale è nettamente definita. Nel senato che Ottaviano aveva trovato al suo ritorno a Roma, dopo Azio, numerosi magistrati ricoprivano cariche solo grazie a complicità, e non per le loro qualità. Dal 28, Ottaviano, appoggiato nella sua azione dai consigli illuminati di Agrippa, rivede la lista dei senatori escludendone i peggiori. Ma soprattutto organizza i senatori in un ordine ufficiale, stabilendone un numero massimo di seicento; decide inoltre che potranno accedere all'assemblea solo le persone dotate di un patrimonio non inferiore a un milione di sesterzi, somma modesta che assicura però una selezione. Tuttavia da quel momento, ogni volta che lo giudicherà opportuno, Augusto darà il denaro a coloro che vorrà vedere in senato (in particolare vecchie famiglie patrizie finanziariamente decadute). L'entrata al senato è sempre riservata ai magistrati che hanno ricoperto le prime cariche del cursus honorum, ma anche in questo caso Augusto esercita il suo controllo, avendo il diritto di proporre alle cariche ufficiali candidati che, grazie al suo appoggio, hanno la garanzia di essere eletti. Augusto non si accontenta di costituire una classe elitaria nella società romana; egli riorganizza minuziosamente un secondo ordine nello Stato, l'ordine equestre. I cavalieri esistevano da moltissimo tempo e avevano ricoperto un ruolo politico importante a partire dal II secolo a. C. La loro funzione era tuttavia indefinita all'interno dell'organizzazione sociale e si confondeva per alcuni aspetti con quella dei senatori. Augusto riserva l'appartenenza all'ordine equestre solo a coloro che godono di un patrimonio valutato almeno in 400 mila sesterzi, e se ne riserva la scelta. L'ordine diventa un vivaio di alti funzionari, che si distinguono dall'ordine senatorio solo per la relativa inferiorità delle funzioni e delle responsabilità. Questa società è dunque disposta gerarchicamente, ma è così flessibile che qualunque cittadino può, se ha una rendita e il consenso del principe, entrare nell'ordine equestre, qui fare una parte della sua carriera, poi accedere a funzioni di rango senatorio. Questi due ordini erano aperti solo ai cittadini romani. Augusto restringe le condizioni di accesso alla cittadinanza. Alla fine del suo regno, l'aumento del numero dei cittadini non è stato che di 900 000 unità (4 947 000 cittadini nel 14 d.C.). Questo debole aumento è dovuto alla convinzione di Augusto che il diritto di cittadinanza è una dignità accordabile solo come ricompensa. Un'altra fonte d'accesso al diritto di cittadinanza era l'affrancamento degli schiavi. In età repubblicana, ogni schiavo liberato da un cittadino diventava cittadino. Augusto limitò l'esercizio di questo antichissimo diritto. Numerose leggi, promulgate per volontà del princeps, limitarono dapprima gli affrancamenti per testamento (i più numerosi), poi obbligarono i cittadini che volevano affrancare i loro schiavi a farlo in forma legale e solenne affinché agli affrancati si potesse conferire il diritto di cittadinanza. In più esse impedirono a una categoria di affrancati (quelli che erano stati oggetto di condanna prima dell'affrancamento), di passare nella categoria di cittadini con pieni diritti. Augusto ha così creato una piramide sociale definendo meglio il diritto di cittadinanza. Ma questo non era per fossilizzare la società; al contrario le promozioni presero carattere di legittime ricompense. L'imperatore ha determinato un regolare ritmo di evoluzione in una società organizzata in modo gerarchico. Questo equilibrio ritrovato non poteva essere fondato che su una restaurazione dei costumi, che durante il periodo delle lotte interne si erano indeboliti. Augusto esige innanzitutto un corretto comportamento durante le manifestazioni pubbliche, in particolare quelle religiose. La società romana deve essere d'esempio a tutti; ciascuno ha un suo posto secondo il rango (i senatori occupano i primi banchi) e ogni disordine è escluso. Le donne sono relegate nelle file superiori, che vengono loro strettamente riservate. Questo era ancora poca cosa. La riforma dei costumi si basava infatti su due punti: il ritorno alle antiche tradizioni e la restaurazione della famiglia. Il ritorno alle antiche tradizioni rifletteva l'opinione pubblica dell'epoca, stanca della violenza e della nequizia di una società alla perpetua ricerca del piacere e della ricchezza. I ritorno al passato è contraddistinti dalla condanna del lusso, che si avverte anche nelle opere di Orazio Augusto è l'esempio primo di morigeratezza e di frugalità, in privato come in pubblico. Allo stesso modo Augusto volle ridare lustro alle antiche virtù militari l'imperatore, seppure mediocre sol dato, rese il servizio militare indispensabile per accedere alla magistratura. La restaurazione auspicata da Augusto comportava il ripristino dell'attaccamento alla terra, che era stato alla base della potenza di Roma; nel lavoro della terra risiedevano infatti le antiche virtù di Roma. Anche Virgilio soleva usare e diffondere questo concetto: la ricostruzione morale della città dipendeva da questa ideologia della terra. Inoltre, grazie a ciò, Augusto poté conferire assegnazioni di terra ai suoi veterani senza provocarne lo scontento. Augusto attribuiva un'importanza capitale alla restaurazione del nucleo familiare. Numerose leggi, promulgate su proposta dell'imperatore, limitarono l'assegnazione di eredità ai celibi (le donne furono anche sottomesse a un'imposta speciale); i cittadini avevano il dovere non solo di sposarsi, ma anche di avere li; ai padri di famiglia erano accordati dei vantaggi. Inoltre Augusto affondò il coltello in una delle piaghe peggiori della società di quell'epoca, l'adulterio, che si praticava normalmente nell'aristocrazia (il principe stesso era stato adultero al tempo della sua giovinezza); gli adulteri erano puniti con l'esilio e la confisca dei beni.

Augusto e la religione

La divinizzazione post mortem del padre per acclamazione popolare aveva dato a Ottaviano la misura di quanto i sentimenti religiosi potevano servire alla sua politica. Del resto, anche la sua carriera era cominciata con l'accesso ai sacerdozi più importanti; dal 48, Cesare l'aveva fatto entrare nel collegio dei pontefici; dal 42 al 40, egli è augure, poi, prima del 35, fa parte del collegio dei Quindecemviri sacris faciundis. Dal 24 al 16, fa parte di tutti gli altri grandi collegi: epuloni, feziali, fratelli arvali in particolare. Infine, nel 12 a.C., diviene massimo pontefice. Egli è così capo della religione tradizionale e garante dei più antichi culti della città. È il coronamento dell'aspetto sacro della sua persona, anche se l'imperatore non ne ha avuto bisogno per realizzare le principali riforme religiose; l'aura sacra conferitagli dal titolo di Augusto gli aveva infatti permesso qualsiasi iniziativa; inoltre, dal 29, godeva del diritto di nominare sacerdoti, senza alcuna limitazione. La sua opera religiosa è contrassegnata dall'affermazione del suo tradizionalismo, che traspariva dall'attaccamento al ripristino dei collegi più sacri: Augusto ridona vita ai feziali e ai salii; sostiene con sovvenzioni i fratelli arvali. Restaura inoltre la celebrazione di antichi riti interrotti da molti anni, come la corsa delle Lupercali intorno al Palatino; fa chiudere il tempio di Giano, aperto solo in tempo di guerra, riorganizza feste latine in onore di Giove dei monti Albani. Questo suo intento si concretizza anche attraverso la costruzione di templi in Roma; Augusto può vantarsi d'aver restaurato 80 templi nella città, tangibile testimonianza della sua devozione agli dei. A questo lato «tradizionalista» si contrappone una tendenza antiorientale, alimentata soprattutto dalle discordie con Antonio, che, nuovo Dioniso, simbolizzava il trionfo dell'Oriente. Dal 28, le cappelle private delle divinità Iside e Serapide sono soppresse; il culto di Cibele è in seguito trasformato in culto romano con la soppressione dei riti orientali. Infine Augusto mostra sempre una certa diffidenza nei confronti del dio dei giudei. Da questa linea politica potrebbe sembrare che Augusto voglia restringere Roma nel cerchio delle sue antiche divinità. Ma egli opera fra gli dei una scelta personale, spesso dettata da necessità politiche. Per questa ragione si può parlare di divinità propriamente «augustee». L'imperatore valorizza, per ragioni innanzitutto dinastiche, il culto di Marte e di Venere. Ma a quest'epoca, un dio assume importanza primaria; è il protettore personale di Augusto, Apollo. Questa scelta resta poco chiara; si spiega forse perché Apollo era il dio protettore della sua famiglia e, senza dubbio, perché, dall'alto del promontorio di Azio, Apollo aveva presieduto alla vittoria decisiva di Augusto su Antonio. Il princeps gli fece costruire il più grande tempio di Roma, sul Palatino, vicino alla sua dimora. Le cerimonie in onore di Apollo furono il punto culminante dei giochi secolari nel 17 a.C.; egli ha rappresentato per un periodo di 110 anni ogni forza della giovinezza di Roma; è diventato garante dell'armonia dell'universo, della pace e del tempo felice che attendevano i Romani. Questo «apollinismo» s accomna a una perdita di prestigio della triade modulina; il tempio di Giove, Giunone e Minerva perde il privilegio di conservare i Libri Sibillini, che vengono trasportati nel tempio di Apollo. Tuttavia l'azione di Augusto non si limita a questo. Tutto il suo regno fu segnato dallo sforzo di dare un valore sacro alla sua persona. Alcuni aspetti della sua attività religiosa accentuavano l'aura che il titolo di Augustus gli aveva già conferito. Diventato massimo pontefice, egli non va, come consuetudine, ad abitare la Regia, sul Foro, ma rende pubblica una parte della sua dimora, che si trova sul Palatino, vicino al tempio di Apollo; fa costruire qui un altare di Vesta: il centro della religione ufficiale romana si trova ormai qui. Come ogni uomo, Augusto possiede un genius, questa potenza incomprensibile che assicura a ogni essere la sua ragione vitale. Molto presto i Romani si abituano a invocarlo e a prestare giuramento su di lui. Questo genius fu così associato al culto dei lari del quadrivio che erano venerati dalla plebe. Si trattava, misticamente, di dare più forza al genio dell'imperatore, e di aumentare la sua potenza già sovrumana. Questa sacralità era evidentemente accentuata dal fatto di essere lio di un padre divinizzato, il Divino Giulio, per il quale fu costruito un tempio sul Foro dal 29. Tuttavia, non bisogna credere che Augusto fosse, con ciò, considerato un dio; egli non era oggetto di un culto veramente personale; d'altronde il principe non permetteva templi a suo nome se non dedicandoli a «Roma e Augusto», cioè alla dea Roma e al suo rappresentante in terra, Augusto, che non era che un uomo. Egli si presentò sempre rispettoso della tradizione, e la sua natura fu perfettamente accettata in Italia e in Occidente. Al contrario, in Oriente, dove per abitudine si divinizzavano uomini viventi, furono in breve tempo costruiti templi in onore del dio Augusto. Là sorsero le prime forme di culto imperiale. Augusto seppe mantenerle durante la sua vita entro limiti puramente romani. Esse sono, in ogni caso, l'espressione delle credenze personali del princeps, della sua politica religiosa e della sua risposta al rinnovamento generale del sentimento religioso.

Augusto organizza l'Impero nella Pace

Il desiderio di ordine che contraddistingue la politica di Augusto si traduce in un'amministrazione equilibrata. L'imperatore prende da solo le decisioni, ma sa attorniarsi di validi consiglieri; così si forma a poco a poco un vero consiglio imperiale, ma senza legalità, né composizione fissa. Dal 27 a.C. le regole essenziali dell'amministrazione delle province sono state fissate; le antiche province, pacificate, sono affidate al governo del senato (come l'Asia e l'Africa); i governanti portano il titolo di proconsole e non possono comandare truppe. Le altre province, dette «imperiali», necessitano della presenza di truppe (Siria, Gallia, Sna). I governanti sono legati vicepretori, scelti dall'imperatore stesso nell'ordine senatorio, salvo il prefetto d'Egitto, scelto nell'ordine equestre, poiché Augusto proibisce ai senatori di entrare in questa provincia senza autorizzazione. Le province minori, poco conosciute e poco sviluppate, sono così governate da magistrati di rango equestre, i procuratori. Questa riforma accentra nelle mani dell'imperatore la direzione dell'impero. Anche i proconsoli, pur designati dal senato, non sfuggono in realtà al controllo imperiale. Quanto ai legati e ai procuratori, sono funzionari che dipendono dal principe. Questa organizzazione costituisce una garanzia per il potere centrale, ma anche per i governati, che, in caso di conflitto, possono sempre appellarsi al princeps. L'amministrazione finanziaria è un esempio ancor più evidente del carattere assoluto del potere di Augusto. Egli fa ristabilire il catasto generale dell'impero, cosa che permette di redigere una nuova grande carta del mondo e di riaggiornare le imposte, la cui riscossione continua a essere appaltata sotto il severo controllo dei funzionari imperiali. D'ora in poi viene stabilita una distinzione nel tesoro del senato, l'Aerarium, costituito dalle rendite di Roma, dell'Italia e delle province senatorie, e il fisco, tesoro dell'imperatore, alimentato dalle rendite delle province imperiali. In realtà, i senatori al comando dell'Aerarium, sono uomini di fiducia dell'imperatore e il passaggio da un fondo di cassa all'altro non è cosa rara. Inoltre in tutte le province senatorie, l'imperatore è rappresentato nel campo finanziario da un procuratore. La subordinazione del senato è quasi totale; infatti, nel 15 a.C., Augusto si riserva dl coniare oro e argento, e lascia al senato il compito di coniare il bronzo. Questa potenza dell'imperatore è accentuata dal fatto che egli è maestro d'armi. A partire da Augusto, l'esercito è permanente e il servizio è di lunga durata (20 anni), cosicché i cittadini che formano le legioni sono per lo più volontari. I cavalieri sono ufficiali superiori, ma il comando è assegnato a un legato di legione, delegato dall'imperatore, che può nominarlo o destituirlo secondo la sua volontà. Questo esercito, con le due flotte, l'una a Miseno, l'altra a Ravenna, è potente ma poco numerosa rispetto alla vastità dell'impero350 000 uomini con i corpi ausiliari, le corti pretoriane di Roma e i contingenti alleati. L'esercito non è usato da Augusto come strumento di conquista. La sua politica estera è fondamentalmente pacifica. Tre volte durante il suo regno egli chiude il tempio di Giano in segno della pace ritrovata. Ma i territori dell'impero non sono del tutto assoggettati; numerose regioni sono ancora mal controllate dai Romani, lungo i confini esistono diversi regni, o principati «protetti»: in Oriente, i regni di Giudea e Commagene, i principati di Palmira, di Emesa; in Asia Minore, i regni di Galatia, di Cappadocia e di Paflagonia; in Africa, il regno di Mauretania. Augusto agisce con molta prudenza; egli le lascia sopravvivere, senza trasformarle in province romane che in caso di morte del re, o per altre cause di forza maggiore, come avviene per il regno di Galatia, assoggettato nel 25 a.C. dopo la morte del re Aminta e della Giudea, che subisce la stessa sorte nel 6 d.C. L'imperatore deve quindi talvolta intervenire per ristabilire la pace all'interno di certi territori che, per la loro instabilità, minacciano l'equilibrio di tutto l'impero. Ciò accade dal 27 al 25 a.C., periodo in cui egli stesso dirige le operazioni in Sna; i combattimenti contro gli Asturiani e i Cantabrici durano fino al 19, data alla quale il territorio viene riorganizzato. Lo stesso accade per la conquista delle valli alpine nel 26, e per la formazione della provincia delle Alpi Marittime, nel 14. Tuttavia i pericoli più gravi vengono dalle frontiere insicure minacciate dai Barbari. In Oriente, approfittando delle difficoltà degli Arsacidi, Augusto riesce a trovare un accordo col re dei Parti, Fraate IV, che nel 20 a.C. deve rendere le insegne vinte ai Romani nel 53 a.C. Le difficoltà in Occidente sono maggiori; molte camne, guidate da Tiberio, Agrippa e Germanico permettono di sottomettere lungo il Danubio i Bastarni e i Mesi, poi gli abitanti della Pannonia. Nuove province vengono aggiunte all'impero: la Mesia nel 6 d.C., la Pannonia nel 10 e, infine, nelle Alpi del nord, sono create le province del Norico e della Rezia. Questa politica non ha mai carattere offensivo e aggressivo; grazie a essa Augusto può dare all'impero frontiere solide. Tuttavia il caso della Germania è più complesso. A causa del pericolo derivante dalla popolazione battagliera, e a causa del desiderio di clamorosi successi militari di Druso e di Tiberio, poiché si crede la Germania ricco paese agricolo e poiché Augusto considera l'Albis (Elba) una frontiera migliore del Reno, si decide di preparare una spedizione offensiva. Dopo le camne condotte da Druso (15 a.C.) Tiberio arriva all'Elba nel 5 d.C., nonostante la resistenza dei Sicambri e dei Chatti. Ma l'inetta e presuntuosa amministrazione di P. Quintilio Varo esaspera i Germani, che trovano un capo in un ufficiale dell'esercito romano, Cherusco Arminio. Nel settembre del 9 d.C., nella selva di Teutoburgo, tre legioni sono annientate, Varo muore. Augusto decide di abbandonare la Germania; la frontiera è fissata nuovamente sul Reno, ben fortificato.. È il solo vero insuccesso dell'imperatore, ma è strategicamente grave. La diplomazia e la prudenza, che permettono all'impero di assicurarsi solide frontiere, consentono la pace nel mondo, sia in Occidente che in Oriente, dove la guerra durava da decenni. Questa pace permette la ristabilizzazione delle attività commerciali, soprattutto verso Roma, principale cliente. D'ora in poi, l'unità del mondo romano è profondamente sentita da tutti gli abitanti dell'impero; essa assicura lo sviluppo di una civilizzazione comune imposta a tutti; la romanizzazione è rapida. È l'inizio di un'epoca nuova, dovuta all'intelligenza politica di Augusto.

Augusto trasforma Roma

Il princeps aveva capito che un impero potente come il suo doveva avere per capitale la più bella città del mondo. Non era così: la popolazione era troppo numerosa e mal distribuita, concentrandosi disordinatamente nel cuore della città; c'era poco spazio per costruire, poiché molti terreni erano occupati da giardini, dalle abitazioni delle grandi famiglie, da costruzioni pubbliche. La plebe era ammassata in abitazioni di parecchi piani, nella più totale anarchia. Roma non assomigliava a quelle ordinate città che l'Oriente offriva agli sguardi abbagliati dei Romani, Alessandria e Pergamo. Cesare aveva già pensato di deviare il corso del Tevere a nord del Gianicolo e di dividere il campo di Marte. Augusto fu più modesto e prudente, come sua abitudine. Furono annessi a Roma i sobborghi, e la città fu divisa in 14 regioni amministrative, a loro volta ripartite in quartieri. Egli fece aprire anche il collegamento che esisteva tra campo e Foro di Marte; ma la situazione della plebe non migliorò, poiché il campo di Marte fu riservato a costruzioni pubbliche. Con la repubblica, l'amministrazione della città dipendeva da magistrati tradizionali (edili, tribuni della plebe, consoli), che avevano funzioni provvisorie. Augusto si guardò bene dal toccare le loro prerogative; ma, nel contempo, creò funzionari e collegi, sempre progressivamente e prudentemente. L'approvvigionamento d'acqua creava gravi problemi: non c'erano che quattro acquedotti mediocri; Augusto incaricò Agrippa di occuparsi della questione in veste di «curatore delle acque», fece costruire 2 nuovi acquedotti e numerose fontane e cisterne. Alla morte di Agrippa, Augusto fece di questa amministrazione un organismo di Stato composto da personale numeroso e permanente. Gli incendi erano una minaccia costante: dopo quello disastroso del 7 a.C., Augusto creò un corpo di vigili, un vero e proprio corpo di polizia, con a capo un prefetto dei vigili, di ordine equestre. Il rifornimento di Roma fu affidato a curatori e successivamente a un prefetto dell'annona di ordine equestre, che concentrava nelle sue mani ogni operazione. Infine l'imperatore diede poteri di polizia più vasti, anche se provvisori, a un prefetto della città. Queste riforme trasformarono totalmente l'amministrazione. Da allora l'imperatore stesso assicurava le nomine e ritirava le cariche ai suoi prefetti e curatori. Augusto ha creato un corpo di funzionari senza un piano d'insieme, ma per successive tappe; ciononostante la sua opera ha costituito un'organizzazione amministrativa funzionale. Questo rafforzamento dell'amministrazione urbana va di pari passo con la trasformazione monumentale della città, secondo gli ordini dell'imperatore stesso. Alcune costruzioni, come i 2 archi di trionfo costruiti sul Foro, avevano l'unico scopo di esaltare le sue vittorie. Altre testimoniano l'idea dinastica; dal 28 a.C. Augusto fece cominciare la costruzione, sul campo di Marte, del mausoleo che avrebbe dovuto accogliere le sue spoglie e quelle dei membri della sua famiglia ma, soprattutto, decide di costruire un suo foro, che fu il più vasto insieme monumentale dell'epoca; il foro di Augusto si presentava come un grande recinto chiuso da mura che lo isolavano dall'esterno e dominato dal tempio di Marte Ultore; all'interno, su di un corridoio circolare, erano collocate le statue dei più importanti generali vittoriosi nella storia di Roma. Se Augusto pensa alla propria gloria, non per questo egli dimentica le costruzioni necessarie a una plebe numerosa, indisciplinata e a volte pericolosa. Egli fa edificare il teatro Marcello e permette a Cornelio Balbo di costruire il suo nel campo di Marte. Per la corsa dei carri, tanto in voga da costituire motivo di scommessa, fa restaurare il Circo Massimo; per i combattimenti dei gladiatori, spinge Statilio Tauro a costruire in Roma il primo anfiteatro in pietra. Ordina la costruzione, sul Gianicolo, di una naumachia, nella quale si svolgono i combattimenti navali. Permette ad Agrippa di edificare, ancora sul campo di Marte, le prime terme monumentali della città; nei più importanti quartieri del centro si costruiscono inoltre luoghi circondati da colonnati e disseminati di giardini, i portici, adatti alla conversazione e alle passeggiate. Augusto realizzò quest'opera secondo il suo gusto personale (amava l'ambiente del circo), ma in modo tanto abile da evitare qualsiasi tumulto da parte della plebe. Il volto di Roma si trasformò.





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