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Nel biennio 1846-l847 l'Italia, insieme a tutta l'Europa, aveva attraversato un periodo di crisi, che aveva investito prima il settore agricolo, poi quello industriale e commerciale, diffondendo carestie, miseria e disoccupazione.
Dopo poco più di un decennio, l'economia italiana ebbe una svolta: grazie all'unificazione, necessaria anche in campo economico, e allo sviluppo delle vie di comunicazione, iniziò un processo di crescita dell'agricoltura.
Nel 1861 l'agricoltura in Italia era un'agricoltura povera, caratterizzata da una grande varietà di colture e di assetti produttivi.
Nella zona irrigua della Pianura Padana si erano sviluppate, tra la fine del '700 e l'inizio dell'800, numerose aziende agricole moderne che univano l'agricoltura all'allevamento dei bovini, erano gestite con criteri capitalistici e impiegavano manodopera salariata.
Nelle regioni del Nord esistevano inoltre grandi proprietà coltivate a cereali e le piccole aziende a conduzione familiare.
Nell'Italia centrale era diffuso il sistema della mezzadria: la terra era divisa in poderi di piccole e medie dimensioni, dove venivano coltivati cereali e colture arboree. Il contadino e la sua famiglia lavoravano la terra e il ne dividevano il ricavato con il padrone; questo e i lavori di manutenzione del fondo, le spese per il bestiame e gli attrezzi agricoli erano quello che il contadino sottoscriveva con li contratto mezzadrile.
Scendendo più a Sud, troviamo che nel Mezzogiorno convivevano due realtà: la prima è la realtà delle colture specializzate (ortaggi e frutta); l'altra è quella del latifondo, grandi distese di campi coltivati a grano amministrate ancora con i canoni feudali, dove i contratti agrari erano ancora arcaici e il rapporto fra i signori e i contadini erano caratterizzati da forme di dipendenza personale.
L'unificazione economica del paese se da un lato portò allo sviluppo dell'agricoltura, dall'altro fu penalizzato il settore industriale: continuò a svilupparsi l'industria della seta, mentre declinarono le altre produzioni tessili e anche i settori siderurgico e meccanico non riuscirono a cogliere l'occasione offerta dallo sviluppo delle ferrovie come era accaduto in altri paesi europei. Inoltre i politici italiani erano convinti che il paese dovesse puntare sull'agricoltura come base della crescita economica e che lo sviluppo industriale sarebbe venuto in un eventuale futuro.
L'espansione agricola degli anni '60-'70 consentì un'accumulazione di capitali che rese a sua volta possibile un ulteriore potenziamento delle infrastrutture indispensabili per il successivo sviluppo industriale.
La costruzione delle vie di comunicazione aveva però portato a delle spese notevoli che unite alle spese sostenute per la guerra contro l'Austria del '66, portò ad un pesante deficit nel bilancio dello Stato. Per sanare questo deficit, i governi succedutisi fra il '66 e il '69 furono costretti ad attuare una durissima politica fiscale, che consisteva nell'aggravio delle imposte già esistenti e, nel 1868, nell'introduzione della tassa sul macinato (ovvero sulla macinazione dei cereali) che colpiva duramente le classi più povere.
Questa politica di duro fiscalismo portò nel 1875 al pareggio delle finanze pubbliche, per cui nel 1880 il governo alleggerì la tassa sul macinato, per poi abolirla nel 1884, però questo contribuì ad un nuovo deficit delle casse pubbliche.
Gli sviluppi registrati dall'agricoltura italiana nel ventennio '60-'80 non avevano registrato nella sostanza i rapporti di produzione né avevano comportato grandi progressi tecnici.
Nel 1881 l'Italia sentì l'avvicinarsi di una nuova crisi agraria. La crisi si manifestò con un brusco abbassamento dei prezzi; al calo dei prezzi seguì un calo della produzione, con conseguenti disagi per le categorie agricole.
Questa nuova crisi ritardò il decollo industriale, ma ne rese più chiara la necessità.
Nel 1887 fu varata una nuova tariffa generale che metteva al riparo dalla concorrenza estera i prodotti nazionali attraversi gravi dazi doganali.
La tariffa poneva le basi di un nuovo blocco di potere economico fondato sull'alleanza fra l'industria protetta e i grandi proprietari terrieri.
La politica protezionistica attuata fu considerata un passaggio obbligatorio per il boom industriale che si verificò tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo; l'industria siderurgica si sviluppò, fu riordinato il sistema bancario e fu creata una struttura finanziaria abbastanza efficiente.
Tra i settori industriali che conobbero un nuovo sviluppo troviamo: il siderurgico, il tessile (in particolare quello cotoniero), lo zuccherario; tra le nuove industrie ci sono quelle chimiche, meccaniche, automobilistiche e elettriche.
Fra il 18969 e il 1914 il volume della produzione industriale quasi raddoppiò; nel primo quindicennio del secolo il reddito pro-capite degli italiani aumentò del 30%: tutto ciò ci sta ad indicare che finalmente la qualità della vita cominciava a mutare con lo sviluppo economico.
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