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Le Macchine da Guerra
Le macchine da guerra si possono suddividere le macchine belliche in meccanismi usati per il lancio di proiettili, in strumenti atti ad urtare e perforare le difese fisse nemiche o destinati ad agevolare l'approccio, l'assalto o la difesa. Con il termine di tormenta, i Romani indicavano le macchine la cui forza propulsiva era data dalla torsione di un fascio di fibre, nervi, tendini o crini d'animali e che erano destinate a lanciare verso il nemico oggetti come dardi o pietre.
L'arma a torsione era formata da una parte superiore costituita da un telaio in legno e da un treppiede, per mezzo del quale poggiava a terra. All'estremità del riquadro superiore erano gli alloggiamenti, rivestiti in metallo, delle due matasse, posizionate verticalmente, alle cui estremità erano inserite due robuste braccia in legno o ferro. Fra le matasse trovava posto il carrello di propulsione, un piano di invito per i proiettili ed un argano, agendo sul quale si tendeva la corda che univa le due braccia, aumentando nel contempo la torsione delle matasse. Allorchè la corda aveva raggiunto la tensione desiderata, si fissava il proiettile e, agendo su di uno scatto, la si liberava. Il rilascio della corda non era dovuto alla sua elasticità ma al fatto che era collegata alle braccia (o randelli) in legno inseriti nelle matasse e che, liberati dalla tensione, tendevano a ritornare violentemente ed automaticamente al loro posto, imprimendo alla corda una forza tale da sospingere il carrello d'armamento e quindi anche il proiettile in avanti. Il telaio era orientabile in altezza e poteva ruotare su se stesso, consentendo una notevole libertà di manovra. Praticamente queste macchine si comportavano come grandi archi in cui la flessibilità era sostituita dalla forza di torsione. Le macchine idonee al lancio di pietre erano ovviamente più potenti e più pesanti di quelle destinate al tiro di dardi: il loro numero, nei parchi d'artiglieria degli eserciti romani, era rispettivamente di 1:6. I dardi potevano essere sia di piccole dimensioni (cm. 22) che veri e propri giavellotti di m. 1,774. La loro gittata massima era di poco superiore ai 350 metri, ma il tiro efficace doveva essere naturalmente inferiore: in ogni caso alle brevi e medie distanze il proiettile era in grado di rendere inutilizzabile uno scudo o di essere letale per l'avversario privo di protezioni passive. Il peso dei proiettili di pietra variava da un tipo più leggero, di poco superiore al mezzo chilo, a quello di 800 grammi che poteva giungere intorno ai 180 metri. Altri calibri ritrovati avevano un valore da kg. 6,4 a kg. 50 fino al gigante da kg. 75.
L'altro strumento bellico che si avvantaggiava della forza della torsione era l'onager.
Era questa una macchina ad un solo braccio, formata da un telaio in legno molto robusto che poteva essere montato anche su quattro ruote. Al centro dell'intelaiatura era disposto l'organo di propulsione, anche in questo caso costituito da robuste matasse di materiali resistenti ed elastici ad un tempo, in modo simile a catapulte e baliste. Il braccio era costituito da un forte palo avente un estremo racchiuso fra le matasse ritorte che, in posizione di riposo, era disposto verticalmente rispetto al terreno. A mezzo di un argano veniva compresso verso il basso: facendo agire il congegno di scatto, la trave si riportava velocemente nella posizione di riposo, andando ad urtare violentemente, a fine corsa, contro una robusta superficie inclinata rivestita in cuoio. All'estremità del braccio era fissata, a mezzo di due capi, uno mobile e l'altro fisso, la fionda con il proiettile: allorché il palo urtava contro il cuscino di cuoio, il proiettile iniziava la sua corsa, a parabola, simile a quella dei mortai moderni. Un tale genere di onagro poteva lanciare corpi contundenti ad un'altezza di m. 40 e ad una distanza di m. 30: cambiando l'attacco della fionda, si poteva variare sia la gittata che l'elevazione.
Oltre ad utilizzare la forza di torsione, i Romani usavano macchine basate sul principio della comprimibilità dei metalli. Un tal genere di strumento bellico è rappresentato varie volte sulla Colonna Traiana. Si trattava di un lanciatore di dardi in cui la forza di propulsione delle matasse era accresciuta, e forse sostituita, dall'elasticità di un arco in ferro l'arcoballista.Quando essa diveniva mobile ed era montata su di un carro, assumeva la denominazione di carroballista.
Un altro strumento da lancio era una specie di balestra, ossia un arco in ferro al quale la propulsione veniva assicurata dall'elasticità del metallo. Era un'arma individuale e somigliava in modo impressionante alle balestre medioevali. Il sistema era simile esteriormente alle macchine da lancio di piccole dimensioni, ma per caricare occorreva mettere a terra l'arma ed appoggiarsi col ventre contro un incavo semicircolare. Simile ma più grande in dimensioni è lo scorpio, spesso montato anche sulle navi da guerra.
Macchine per l'assedio
L'altra categoria di macchine da guerra erano quelle utilizzate durante gli assedi. Per aprire brecce nelle cinture difensive avversarie veniva utilizzato l'ariete, nelle sue varie forme e conurazioni.
Sostanzialmente era una trave adeguatamente lunga e robusta che veniva sospinta, in vari modi, fin sotto l'obiettivo che poi iniziava a battere. L'estremità che sosteneva lo sforzo era rivestita in metallo, in genere ferro o bronzo, sagomato a volte a forma di testa d'ariete. Il sistema più semplice e primitivo era quello di farlo portare a spalla da soldati che, con il medesimo sistema, provvedevano poi a percuotere il muro. Quando invece l'ariete era sospeso ad una incastellatura in legno - aries pensilis - si legava la parte posteriore della trave con funi, tirando e lasciando le quali si procurava la percussione contro l'obiettivo.
Se l'aries pensilis era munito di ruote per poterne agevolare il movimento, assumeva la denominazione di aries subrolatus. Il sistema più complesso ma anche più sicuro per i serventi era la testudo arietata. L'ariete era mosso su rulli o ruote e la percussione era provocata mediante l'uso di due fasce di funi, alle estremità della trave, che venivano tirate anche qui avanti indietro contro l'obiettivo. I soldati che operavano erano protetti da una tettoia mobile di legno, rivestita da materiali resistenti al fuoco. Il nome curioso della macchina derivava, dal fatto che la punta dell'ariete percuoteva e si ritirava al riparo della tettoia, appunto come la testa di una testuggine. Per esemplificare ed evidenziare le sue dimensioni, ricordiamo che Procopio narra di un ariete, usato nella guerra gotica, mosso da cinquanta serventi e Vitruvio di un altro a cui erano addetti cento soldati. L'opera demolitrice degli arieti trovava valida collaborazione nella terebra, specie di grosso trapano con il quale venivano praticati dei fori nel muro che doveva poi essere battuto dall'ariete e nella falx muraria, costituita da una lunga asta al cui estremo era posto un ferro piegato ad uncino con il quale si svellevano le pietre smosse dall'ariete.
Per difendersi dall'azione degli arieti, veniva, tra l'altro, usato uno strumento simile ad una grossa tenaglia o uncino - lupus - con cui si tentava di intrappolare la testa dell'ariete e di tenerla sollevata, impedendone in pratica l'uso.
L'azione di sfondamento operata dall'ariete non poteva avere successo né essere opportunamente sfruttata se non era adeguatamente protetta. Ecco quindi, fin dall'antichità, nascere le torri mobili o turres ambulatoriae. L'impiego di queste particolari macchine belliche deve essere visto sia come un tentativo di portare a combattere un gruppo di uomini sulle mura avversarie, tentando così di ovviare ai vantaggi dei difensori (altezza e protezione passiva delle mura), che come difesa attiva ai soldati impegnati ad operare con le altre macchine belliche. Esse erano costruite in legno, a più piani, di altezza superiore all'obiettivo che doveva essere investito ed erano ricoperte con materiale quanto più possibile refrattario al fuoco ed idoneo a smorzare l'effetto dell'urto dei proiettili.
Al loro interno si passava da un piano all'altro mediante l'uso di scale mentre numerose feritoie erano posizionate in modo da controbattere i tiri dei difensori. Le torri erano naturalmente montate su ruote ed erano spinte o a braccia o con l'ausilio della trazione animale o con argani e manovelle. Si hanno anche notizie di torri mobili rivestite in ferro sia per aumentarne la protezione che per migliorarne la stabilità. Le torri di dimensioni maggiormente ragguardevoli avevano incorporato un ariete, così da poter impegnare i difensori con una duplice azione: dal basso con l'ariete ed in alto con l'intervento di gruppi armati a ridosso delle mura. E' comprensibile come costruzioni così pesanti potessero muovere solo su terreno già riconosciuto e, all'occorrenza, spianato e reso regolare. Un attacco condotto con l'uso di torri mobili non poteva giovarsi, quindi, del fattore sorpresa: il difensore poneva riparo all'insidia cercando di scavare fosse o buche mascherate sul percorso della macchina, in modo che vi sprofondasse con il suo peso e rimanesse immobilizzata.
L'assalto all'opera difensiva avveniva anche con l'uso di scale in legno, corda o cuoio, di altezza variabile all'obiettivo da raggiungere. Vegezio cita anche le scalae speculatoriae, specie di carrello con un tavolato fissato alla sommità, sul quale era posto un soldato con compiti di osservazione. Un altro strumento particolare usato per raggiungere le mura era il tolleno, formato da una trave verticale al terreno alla cui estremità superiore era inserita un'altra trave, orizzontale. Ad un capo di quest'ultima era posto un grosso cesto idoneo a sostenere gli armati. Facendo forza sull'altro estremo dell'asta orizzontale a mezzo di funi, si provocava la salita del cesto all'altezza desiderata (una specie di ascensore).
Per avvicinarsi alle linee fortificate avversarie con minor pericolo possibile, si costruiva tutta una serie di ripari. La vinea e la porticus, idonei a fornire riparo a circa 20 armati, erano costruzioni formate da una tettoia in legno e una graticciata sui fianchi, coperte con pelli fresche e stracci umidi.
Se il riparo era fisso veniva indicato come vinea, se mobile assumeva la denominazione di porticus. Con lo stesso termine era chiamato un insieme di ripari disposti parallelamente oppure ortogonalmente alle mura, con gli stessi scopi dei camminamenti o delle trincee delle guerre moderne. Un tipo di riparo più piccolo era il musculus. Servito da un esiguo numero di soldati, ma probabilmente di fattura più accurata e robusta, era destinato a proteggere coloro che dovevano colmare i fossati davanti alle mura o gli argini con pietrame, fascine e legname. Il musculus era anche usato per sondare e spianare il terreno innanzi alle torri mobili. Il pluteus invece si identificava in un piccolo riparo in vimini e cuoio, di forma absidale, con la parte ricurva volta verso il nemico, idoneo alla protezione di due o tre armati. Poteva essere orientato e mosso in tutti i sensi in breve tempo ed era montato in postazioni particolarmente pericolose ed esposte alle insidie immediate del nemico. Al suo riparo i serventi molestavano l'avversario con lancio di proiettili o fungevano da avamposto. Il riparo più semplice era dato invece dal movimento naturale che faceva il fante per salvaguardarsi dal lancio di dardi o altri corpi contundenti: alzava cioè lo scudo a protezione del capo e del tronco.
Questa sistemazione (fino a 25 soldati) difensiva venne trasformata in formazione d'attacco il gruppo di soldati si avvicinava alle mura coprendosi il capo con 15 dei 25 scudi, disposti su tre file di cinque ciascuna. Gli scudi restanti erano posti a protezione dei fianchi della formazione.
Vediamo infine un'arma che, pur con le dovute variazioni strutturali, è in uso ancora ai giorni nostri: il tribulus.
Esso era costituito da quattro braccia in legno o in ferro, con le punte aguzze, legate insieme in modo che, quando veniva gettato a terra ed in qualsiasi posizione potesse ricadere, poggiava sempre su tre punte mentre la quarta rimaneva rivolta verso l'alto, pronta ad offendere. I triboli sparliati a terra erano usati sia per difendere passaggi obbligati che per contrastare cariche di cavalleria. Se i triboli venivano sparliati sulla superficie del terreno, gli stimuli erano invece nascosti in trabocchetti o fosse. Costituiti da pioli acuminati infissi all'interno delle fosse con la punta rivolta verso l'alto servivano anch'essi come difesa passiva contro azioni di cavalleria o erano posti sul davanti di fortificazioni.
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