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Poche vie all'epoca dell'antica Roma
erano larghe dai 5 ai 6 metri; la maggior parte erano vicoli. Giovenale
deplorava che i carri facessero un gran frastuono sul selciato ineguale e alla
notte rendessero impossibile il dormire, mentre la folla che di giorno si
pigiava rendeva il camminare una vera lotta. Le strade principali erano
pavimentate con larghi blocchi pentagonali di lava, qualche volta fissati nel
suolo così fortemente che alcuni sono rimasti al loro posto ancora ai
giorni nostri. Non c'era illuminazione stradale; chi si avventurava nel buio
portava con sé una lanterna o si faceva seguire da uno schiavo che reggeva una
torcia; nell'un caso come nell'altro correva il rischio d'essere attaccato da
più di un ladro. Le porte erano chiuse con chiavi e chiavistelli e le
finestre fermate la notte col catenaccio e quelle a piano terreno erano munite,
come ora, del resto, da sbarre di ferro. A questi pericoli Giovenale aggiunge
gli oggetti solidi e liquidi che venivano gettati dalle finestre dei piani
superiori. Insomma, egli pensava, solo un pazzo andava fuori a pranzo senza
fare testamento. Poichè non c'erano veicoli pubblici per trasportare i
lavoratori dalle loro case sul luogo del lavoro, molti della plebe vivevano in
casamenti di mattoni nel cuore della città o in camere dietro o sopra i
loro negozi. Un casamento occupava di solito tutto un isolato: per questo era
chiamato insula. Molti di essi erano alti sei o sette piani e costruiti con
tanta leggerezza che spesso ne crollava qualcuno uccidendo centinaia di
inquilini. Augusto limitò l'altezza frontale degli edifici a 10 piedi
romani (1 piede = cm 29 circa; 1 oncia = 1/12 del piede), ma pare che la legge
permettesse elevazioni maggiori nella parte retrostante, perché Marziale dice
"di un povero diavolo alla cui soffitta si accede con duecento scalini (alzata
dello scalino = circa 18cm)". Molti casamenti avevano negozi a pianterreno,
alcuni i balconi al secondo piano: pochi erano congiunti in alto ai casamenti
di fronte con passaggi ad arco, che scavalcavano la strada e contenevano altre
camere o specie di tettoie poco sicure abitate da plebei poveri. Queste insulae
riempivano quasi la Nova via, il Clivus Victoriae sul Palatino e la Suburra, un
quartiere rumoroso e pieno di postriboli, fra il Viminale e l'Esquilino. Qui
abitavano i rivieraschi dell'Emporium, i macellai del Macellum, i pescivendoli
del Forum Piscatorium, i boari del Forum Boarium, i venditori di erbaggi del
Forum Holitorium, gli operai delle fabbriche romane, i commessi e i
piccolissimi impiegati. I quartieri poveri di Roma arrivavano fino a lambire il
Foro. Le strade che partivano dal Foro erano affiancate da negozi e risuonavano
dello strepito delle contrattazioni. Fruttivendoli, librai, profumieri, tintori,
fiorai, fabbri ferrai, farmacisti e altri, che provvedevano alle
necessità della vita e ai capricci della vanità, ingombravano la
strada con i loro banchi che sporgevano molto in fuori. I barbieri esercitavano
il loro mestiere all'aria aperta, alla presenza di tutti. Le osterie erano
così numerose che Roma sembrava a Marziale una sola enorme taverna. Ogni
commercio tendeva a porre il suo centro particolare in un quartiere, in una
strada e spesso dava il nome ad una località; cosi i sandalai erano tutti
riuniti nel Vicus Sandalarius, i fabbricanti di finimenti nel Vicus Lorarius i
vetrai nel Vicus Vitrarius, i gioiellieri nel Vicus Margaritarius. In questi
negozi gli artisti italici facevano il loro lavoro, eccetto i più grandi
di essi che guadagnavano molto e vivevano nel lusso. Lucullo diede ad Arcesilao
un milione di sesterzi perchè gli facesse la statua della dea
Feù~tas e Zenodoro ne ricevette quattrocentomila per il colosso di
Mercurio. Architetti e scultori erano classificati coi medici, gli insegnanti e
i chimici fra quelli che esercitavano le artes liberales, arti degne degli
uomini liberi: ma coloro che facevano in Roma lavori artistici erano o erano
stati per lo più schiavi. Alcuni signori facevano imparare ai loro
schiavi l'incisione o la pittura o altre arti e poi ne vendevano i lavori in
Italia e all'estero. In queste botteghe il lavoro era rigidamente suddiviso:
alcuni erano specializzati in statuette votive, altri in cornici dorate, altri
tagliavano gli occhi di vetro per le statue; i pittori erano specializzati, gli
uni in arabeschi, gli altri in fiori o in paesaggi o in animali, o nella ura
umana e lavoravano a turno sullo stesso quadro. Parecchi artisti erano esperti
falsificatori in grado di fare opere 'antiche' di qualsiasi
età si volesse. I Romani dell'ultimo secolo a. C. erano facili da
ingannare, perchè come la maggior parte dei nuovi ricchi avevano la
tendenza a valutare gli oggetti dal prezzo e dalla rarità anzichè
dalla loro bellezza e utilità. Durante l'Impero, quando non era
più una distinzione l'essere ricco, il gusto migliorò e un
sincero amore per la perfezione procurò a molte migliaia di famiglie
romane oggetti e ornamenti di una bellezza quale pochissimi avevano conosciuto
in Egitto, in Mesopotamia e in Grecia. L'arte era per l'antichità quello
che l'industria è per l'età moderna. Gli uomini allora non
potevano godere di quella abbondanza di prodotti utili che ora ci viene dalle
macchine, ma potevano però, se ne avevano il gusto, circondarsi a poco a
poco di oggetti, la cui forma diligentemente rifinita dava a quanti vivevano in
mezzo ad essi la delicata e serena gioia delle cose belle.
Un visitatore che avesse cercato di studiare le abitazioni del medio ceto le
avrebbe trovate lontane dal centro, sulle vie principali che se ne staccavano.
Gli esterni in mattone e stucco erano ancora fatti come in passato nello stile
piatto e solido suggerito dalla mancanza di sicurezza e dal gran caldo: i
borghesi romani non badavano troppo alle esigenze del gusto dei passanti. Poche
case avevano più di due piani. Le cantine erano rare: i tetti erano
ricoperti di scintillanti tegole rosse: le finestre munite di imposte o
talvolta di lastre di vetro. L'entrata era di solito costituita da una doppia
porta, con ciascuna delle metà girevole su cardini di metallo. I
pavimenti erano di creta o di mattonelle, spesso a tessere quadrate di mosaico:
non vi erano tappeti. Attorno all'atrio centrale si raggruppavano le stanze
principali della casa: da questa pianta architetturale derivarono il chiostro e
il cortile quadrangolare dei collegi. Nelle case più ricche, una o
più stanze venivano usate come stanze da bagno, di solito con vasche
molto simili alle nostre. L'idraulica giunse con i Romani a una perfezione mai
raggiunta prima del secolo XX. Tubi di piombo portavano l'acqua dagli
acquedotti e dai canali nella maggior parte dei casamenti e delle case: gli
infissi e i rubinetti erano di bronzo e alcuni artisticamente lavorati.
Doccioni e grondaie di piombo facevano defluire l'acqua dal tetto. La maggior
parte delle camere erano riscaldate, almeno con bracieri portatili a carbone;
poche case, tutte le ville e i palazzi e i bagni pubblici avevano il
riscaldamento centrale ottenuto con caldaie a legna o a carbone che fornivano
aria calda alle varie stanze attraverso tubi e bocchette aperte nel pavimento e
nelle pareti. Nel primo Impero fu fatta alla casa del ricco romano un'aggiunta
di origine ellenistica. Per fornire un intimità, non sempre possibile
nell'atrio, si costruì, dietro l'atrio, un peristylium, un cortile a
cielo scoperto, adorno di fiori, cespugli e statue, circondato da un porticato
con al centro una fontana o una piscina. Attorno a questo cortile si
costruì una nuova serie di stanze; un triclinium o sala da pranzo, un
oecus "casa" per le donne, una pinacotheca per le collezioni d'arte, una
bibliotheca per i libri, una Lararium per gli dèi della casa: potevano
anche esserci delle camere da letto in più e piccole alcove chiamate
exedrae o salottini d'angolo. Le case meno ricche avevano un semplice giardino
anzichè il peristylium e se si doveva rinunciare anche al giardino i
Romani ponevano vasi sulle finestre o coltivavano fiori e piante sul tetto.
"Certi larghi tetti", dice Seneca," avevano persino arboscelli e alberi da
frutto e viti e piante fronzute piantate in casse di terra": molte di queste
terrazze possedevano anche dei solaria per fare i bagni di sole. Molti Romani
si stancavano del frastuono e del movimento della città e fuggivano
verso la pace e l'ozio che la camna offre. Ricchi e poveri insieme avevano
un sentimento della natura superiore a quello che ci è possibile
riscontrare nell'antica Grecia. Giovenale pensava che fosse pazzo quell'uomo
che viveva nella capitale, quando con l'affitto annuo di un oscuro stambugio a
Roma poteva comprarsi una graziosa casetta in qualche piccola tranquilla
città dell'Italia e circondarla di "un giardino ben curato da fare la
gioia di un centinaio di Pitagorici". La gente abbiente se ne andava da Roma
all'inizio della primavera nelle ville ai piedi dell'Appennino o sulle spiagge
dei laghi o del mare. Plinio il Giovane ci ha lasciato una splendida
descrizione della sua villa di Laurento sulla costa del Lazio. Egli la
definisce "abbastanza vasta per i miei bisogni, senza che ne sia troppo
dispendiosa la manutenzione", ma a mano a mano che procede nella descrizione ci
assalgono seri sospetti sulla sincerità della sua modestia. Descrive
"una piccola veranda, riparata da vetrate e da grondaie sporgenti una bella
sala da pranzo quasi lambita dalle ultime creste delle onde" e con tanta luce
che entrava dalle finestre spaziose, dalle quali si contemplavano tre vasti
panorami sul mare, quasi tre diversi mari: "un atrio da cui si scorgevano in
lontananza boschi e montagne"; due salotti, una biblioteca semicircolare, le
cui finestre ricevevano il sole tutto il giorno: una stanza da letto e parecchi
altri locali per i domestici. Nell'ala di fronte vi erano "un elegante
salotto", un'altra sala da pranzo, e quattro piccole stanze: un quartierino per
il bagno, costituito da "un grazioso spogliatoio", un frigidarium, un
tepidarium con tre vasche riscaldate a temperature diverse e un calidarium con
l'acqua calda: tutte riscaldate da tubi ad aria calda. Fuori dalla villa
c'erano una vasta piscina, uno spiazzo per il gioco della palla, un magazzino,
un giardino, uno studio privato, una sala per i banchetti e una
torre-osservatorio con due appartamenti e una sala da pranzo. "Dimmi ora"
Plinio conclude "non ho io ragione di dedicare tempo e affetto a questo mio
delizioso rifugio ?". Se un senatore poteva possedere una villa simile sul mare
e un'altra a Como, possiamo facilmente immaginare il lusso splendente della
villa di Tiberio a Capri o di quella di Domiziano ad Alba Longa, per non
parlare di quella che Adriano si fece costruire pochi anni dopo a Tivoli. Per
trovare qualche cosa che vi stesse a pari per sfarzo, il forestiero doveva
entrare nei palazzi dei milionari e degli imperatori sul Palatino.
Nell'architettura domestica i Romani non si curavano di imitare la Grecia classica,
dove le case erano state modeste e solo i templi grandiosi; i Romani anzi
modellarono i loro palazzi sulle residenze dei re ellenistici quasi
orientalizzati: lo stile dei Tolomei venne a Roma con l'oro di Cleopatra e
l'architettura regale affiancò la politica monarchica.
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