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Aspettando Fidel

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Aspettando Fidel


1° gennaio 1964


All'Habana Libre si è formato il club degli "Aspettando Fidel". È composto da un fotografo francese, Pic, venuto per fare un film per la televisione francese, dal suo cameraman belga Willy Kurant, da Edith Sorel, corrispondente di "Revolución" a Parigi, cubana di origine ungherese, che li accomna come interprete, dal giornalista brasiliano americanizzato Luis Wiznizer, soprannominato Lulu le voyo, da Valerio Riva, il padre spirituale del libro di Fidel, che è ancora in gestazione, e infine dal fondatore ed ex direttore di "Revolución", Carlos Franqui, il quale, senza che nessuno glielo abbia chiesto, si è autonominato censore della comnia e vuol sapere chi dorme con chi.



Abbiamo fatto un San Silvestro tra intellettuali, in casa della sorella di Haydee Santamaria. Haydee Santamaria ha partecipato all'attacco al Moncada e a tutte le fasi successive della rivoluzione, e ora dirige "La Casa de las Americas", uno dei centri culturali dell'Avana. È quindi quanto di più ufficiale ci sia, come personaggio e come posizione. La sorella, che lavora con lei, si dà pose da intellettuale mondana, ma, ahimè, lo spirito non sempre soccorre chi lo chiama. Dopo mezzanotte alla radio si alternano solo musica da ballo e l'annuncio della sfilata di domani. Si raccomanda a tutti di venire ad ascoltare «la parola orientatrice del Primo ministro, Comandante Fidel Castro».



Oggi abbiamo saputo che Fidel ci aveva fatto telefonare durante la festa, perché voleva che Pic andasse in giro con lui a vedere come gli avanesi stavano festeggiando il nuovo anno. Nessuno, però, ci aveva comunicato il messaggio. Dopo essere rimasto due ore all'angolo della Rampa davanti all'Habana Libre, Fidel ha reso visita al Presidente Dorticós, poi, alle due del mattino, ha deciso di andare in una fattoria fuori l'Avana, per assistere, all'alba, alla mungitura delle mucche. È tornato in città verso le otto.



Stasera si è presentato al ricevimento annuale al Palazzo presidenziale con la sua bella uniforme di gala, che, si dice, gli è stata fatta fare da Nikita durante il viaggio a Mosca; nessuno l'aveva mai visto vestito così. Era pettinato con cura sotto l'inseparabile berretto, che ha tolto dopo pochi minuti. Con la camicia bianca, la cravatta nera, la tela un po' più chiara del verde oliva, sembrava uno scolaro alla prima comunione - non fosse per quel mezzo sorriso in fondo agli occhi, che prende in giro tutti coloro che si vestono di gala, sé compreso

Il Che era l'unico a non aver ceduto su questo punto. È arrivato un po' più tardi, con l'uniforme verde oliva aperta sul petto, il solito berretto e i capelli spettinati; e si è fermato, appena varcata la soglia, a parlare con l'ambasciatore cinese, in procinto di lasciare l'incarico.

Uno degli uomini più eleganti era senza dubbio il Nunzio Apostolico, Monsignor Zacchi, un bell'uomo allegro, con due occhi blu a cui non sfugge niente. Raúl scherzava con Podgorni, mentre Vilma rimasa seduta con Aledia Marche, la moglie del Che.

Verso le dieci è corsa voce che Fidel se n'era andato. Ma fuori dal grande salotto, in un'angolo della loggia, un fitto cerchio di invitati, scosso dalle risate, smentiva la notizia. Fidel sedeva a un tavolino basso e rotondo, davanti alla Pasionaria, calata dentro una grande poltrona col suo solito tailleur nero. Accanto a lei Raúl e, sulle altre sedie intorno, i fortunati che per primi avevano subodorato il tête à tête. Avevano servito il caffè, Fidel beveva senza sosta da una tazzina e, a turno, prendeva in giro tutti quanti.



2 gennaio 1964


Alle sei del mattino irruzione di trombette militari in pieno sonno, seguita dal solito altoparlante, ossessivo, indiscreto, che ricorda l'appuntamento delle dieci in piazza Civica, per la parata militare e il discorso di Fidel.

Il traffico è deviato, vecchi camion trasportano gente da fuori, ogni tanto un autobus si ferma per scaricare gente in mezzo a un incrocio. Alcuni soldati s'improvvisano vigili ausiliari, ma appaiono un po' impacciati nel dirigere il traffico.

Nella tribuna dei giornalisti, posta direttamente sotto quella presidenziale, l'attenzione si divide tra la non più giovane fotografa inglese Ida Karr, che indossa pantaloni da sci neri, un berretto da sci e un pesantissimo golf rosso, e che al collo porta ben quattro Rolliflex, e una miliziana con una treccia che mette in risalto le tenere guance e due bellissimi occhi, ben visibili malgrado il berretto e l'uniforme. Tutti la fotografiamo, ma è proprio in mezzo a noi e ogni volta che sente una camera puntata su di lei si irridisce.

 


La parata comincia alle dieci in punto. Anche le donne sfilano in perfetto ordine. Seguono poi le armi, e vari tipi di aerei a reazione, che volano in formazione.


Quando l'ultimo missile è passato davanti alla tribuna, tutta la gente, che prima era sparsa fino all'estremità della piazza, si mette a correre, attraversa l'ampia strada della parata e arriva a confondersi con la folla che l'aveva seguita per la città. Tutti corrono verso le file di spettatori che si erano già sistemati davanti alla tribuna. E tutti gridano: «Fidel, Fidel, Fidel!»

Qualcuno fa passare una lettera di mano in mano fin sotto il muro che separa la piazza dalla tribuna presidenziale. Un volontario si fa alzare sulle spalle di qualcuno, e la lettera giunge nelle mani di Fidel. La folla scoppia di entusiasmo, e Fidel, a cui davvero non manca il senso teatrale, si appoggia alla ringhiera della tribuna, ridendo, e scambia con la folla frasi mozzate dal vento. Finalmente apre la lettera e si mette a leggere, sempre piegato sulla ringhiera, con espressione di soddisfazione; poi, mentre la folla applaude, ripiega il foglio e se lo mette in tasca. Infine, quando tutti sono riuniti e il più possibile compatti davanti alla tribuna, comincia a parlare.


A un certo punto tira fuori da una tasca alcune sectiune, e si mette a leggere dei cablogrammi americani, che citano un editoriale su Cuba del "New York Times". L'articolo dice che bisogna riconoscere che se Castro si è mantenuto al potere per cinque anni, dev'essere perché le cose non vanno così male come si crede, e inoltre dà alcune informazioni generali abbastanza esatte sulla situazione a Cuba.

Ai fotografi è permesso salire sulla tribuna presidenziale, a turno, e mentre fotografo Fidel, girando da un lato all'altro del palco poiché non c'è modo di passare davanti, capisco come mai durante i suoi discorsi ci sia un via vai ininterrotto di persone. Non è che se ne vadano, e neppure hanno l'aria di annoiarsi. Bevono un rinfresco e poi tornano. Mi rendo conto che tutto questo andirivieni non impedisce di seguire il discorso, e che le ripetizioni e le riprese caratteristiche dei discorsi di Fidel, oltre ad avere una funzione pedagogica permettono di seguire anche con un orecchio solo, muovendosi o facendo qualcos'altro.

Verso la fine del suo discorso Fidel si concede una battuta. Ai nemici potrà sembrare una semplice bravata proandistica, e invece corrisponde perfettamente, io credo, a quell'aspetto fondamentale del suo carattere che è la grandissima salute morale e fisica che promana da lui, e che lo porta a prendere sotto gamba i pericoli, perché, se proprio bisogna affrontarli, è meglio ridere che piangere. Ecco quel che ha detto:


Guardate, ve lo dico sinceramente, come dicevo a un giornalista francese [probabilmente si riferisce a Jean Daniel]: Noi siamo rivoluzionari. A noi il rischio e il pericolo non ci preoccupano. I rivoluzionari, per temperamento, preferiscono, se è possibile, una vita fatta di rischi a una vita tranquilla e senza problemi. Difendiamo la politica di pace per una questione di principio e perché interessa l'intera umanità. Ma il nostro temperamento di rivoluzionari si sente meravigliosamente bene nelle acque agitate delle situazioni turbolente. Se gli imperialisti vogliono mantenere all'infinito questa situazione di tensione, sappiano che noi in queste acque nuotiamo meravigliosamente bene, perchè sono le acque proprie dei rivoluzionari. E non è che, poiché siamo rimasti al potere cinque anni, abbiamo perso il temperamento e la vocazione di rivoluzionari. Al contrario!


Poi, come sempre, sparisce rapidamente dalle tribune, mentre l'orchestra militare attacca l'Internazionale. Davanti a noi la folla inizia a ondeggiare, e anche sulla tribuna tutti cantano, il Che in prima fila, il petto in fuori, la bocca spalancata.


Fidel, intanto, si accinge a fare un giro per la città, dopo aver preso lui stesso il volante, con grande sorpresa dell'autista. Evidentemente, è contento della sua festa.



3 gennaio 1964


Sono arrivati i Guaranì, un quintetto folk latinoamericano formatosi una decina d'anni fa a Parigi, da un gruppo di esuli paraguayani. Segnalo la loro presenza a Vallejo, ricordando che l'estate scorsa Fidel mi aveva detto che gli piaceva la musica folklorica. I Guaranì accettano di suonare in camera mia, e Fidel ci ha fatto dire che cercherà di venire. Alle dieci Pic ha installato tutte le sue luci, la macchina da presa è puntata sul divano dove sicuramente siederà Fidel, ma ecco arrivare Vallejo, solo: «Era così contento di venire! Ma quando è arrivato nella hall dell'hotel è stato subito bloccato da cinquanta persone, per mezz'ora. E poi l'hanno chiamato per telefono dalla macchina, sicché è dovuto scappare di corsa. Forse verrà più tardi».

All'una, avverte che non può venire: un controrivoluzionario ha sparato a una guardia davanti all'Ambasciata del Messico, ed è riuscito a rifugiarsi dentro l'edificio. L'ambasciatore vorrebbe consegnarlo, e Fidel è andato di persona a convincerlo che non si può fare




4 gennaio 1964


Andiamo al concerto dei Guaranì insieme ad alcuni amici cubani, che prima ci avevano invitato a bere un bicchiere a casa loro. Sono due sorelle e due fratelli, uno militare e l'altro diplomatico, e poi un altro ragazzo in verde oliva, che non si sapeva chi fosse. Come sempre in questi giorni, quando non si sa di che cosa parlare si può essere sicuri di provocare una conversazione animata accennando alla "polemica". In un attimo la comnia si divide: gli stranieri sono per Guevara, i cubani per Roca. Dopo alcuni minuti di discussioni accanite scopriamo che il giovane vestito di verde oliva è nientemeno che uno dei capi della polizia dell'Avana. Valerio Riva, che col tono dell'intellettuale europeo gli aveva dichiarato che all'Avana si proiettano più film di alto livello che a New York o a Parigi, cosa di cui dovrebbe andar fiero, diventa verde e tace.

«Capite?!», dice convinto il giovane capo della polizia, con tutto il suo cuore e in buona fede: «Quella gente non sa distinguere, non può sapere, perché deve ancora essere educata, e allora escono dal cinema confusi, non sanno più che pensare. Da una parte gli diciamo che queste cose sono male, dall'altra gli facciamo vedere un film dove uno che vive di prostituzione risulta simpatico! Che bisogno c'è di dare alla gente dei cattivi esempi?»

Dopo il concerto andiamo al Capri, dove ancora una volta il vero spettacolo è il pubblico. L'ultimo ballo dura mezz'ora. Inizia con una canzone infantile messicana, con un'interminabile quantità di versi, poi a poco a poco degenera in un assolo di tamburo africano, sempre più frenetico, mentre i danzatori improvvisano cerchi, si contorcono, si agitano, come se non esistesse limite alla fatica. Avevo già visto questi stessi balli al Teatro Nazionale, in una messa in scena spettacolare, con costumi e scenografie eccellenti, eppure non mi avevano fatto né caldo né freddo. Ora invece, in questo cabaret dove non c'entra niente, queste ragazze con vestiti di organza, magari comprati in qualche asta di roba di gusanos, questi giovanotti col doppio petto, sembrano in mezzo alla giungla, trascinati da una forza a noi sconosciuta. Comincio a capire.



5 gennaio 1964


Il Comandante Fajardo è uscito dall'isola di Turiguanò per la sua visita annuale alla capitale. Sbrigati i propri affari m'invita a cenare con lui prima di riprendere la strada. Mi aspetta sul sedile posteriore di una grande macchina nera davanti all'albergo, vestito col classico verde oliva, le piccole stelle di Comandante sui risvolti del colletto. I colleghi dell'INRA, che mi avevano chiamato dalla hall, seguono in un'altra macchina. Ho l'impressione di trovarmi accanto a un uomo cresciuto troppo in fretta, che si protegge da un mondo sconosciuto con questa grande macchina nera, e su questo sedile che è un po' come un trono, mentre sta aspettando una donna, una giornalista, una straniera, con l'intenzione di portarla a cena nel ristorante più chic della capitale, e la fa aspettare un po'.

Il bar del ristorante "1830" è l'unico posto dell'Avana dove ci si sente immersi nel mondo di prima della rivoluzione; è un'imitazione discreta degli ambienti delle capitali più colte, con più storia e più grattacieli. In questo quadro insolito il mio comno torna ad essere se stesso, e cioè un ibrido tra il tecnico e il contadino guajiro, un uomo che non è mai andato a scuola e per il quale niente è importante quanto la rivoluzione. Forse è proprio questo sentimento così radicato a impedirgli di stare a lungo fuori dalla sua pelle.


Sono curiosa di sapere come aveva reagito alla polemica Guevara-Roca, sebbene a Turiguanò avesse proclamato che non va al cinema da otto anni. La sua risposta va al di là delle mie attese. Non prende una posizione vaga, come farebbe un uomo eminentemente "pratico" posto di fronte a un problema strettamente intellettuale. Al contrario: rifiuta la posizione di Blas Roca con la stessa lucidità di un Carlos Franqui:

- È assurdo il ragionamento di quel capo di polizia. Se il popolo è stato nutrito per anni con le peggiori pellicole americane e questo non gli ha impedito di fare la rivoluzione, come si può pensare che questi film potranno influire in modo negativo su di lui? Perché non si può mica fare la rivoluzione senza il popolo, sai, con tutti i sacrifici che comporta. E loro hanno paura che per avere visto questo o quell'altro film il popolo abbandoni la rivoluzione?

- Dicono che è pericoloso per quelli che non hanno educazione.

- Ma il popolo, anche se non ha letto Marx, ha un istinto formidabile. Bisogna avere letto Marx per credere nella rivoluzione? Io non l'ho letto, e quando ho tempo per leggere leggo i manuali di allevamento.

Gli chiedo com'è arrivato alla rivoluzione.

- Vedi, tra i poveri, io ero di quelli che non morivano di fame, anzi mangiavamo bene, avevamo sempre le scarpe e perfino qualche soldo in più. Non ero un morto di fame; ero un'eccezione. I miei genitori divorziarono quando avevo due anni; e mia madre ha dovuto lavare molti bucati per darci da mangiare. Quelli sì erano tempi duri, ma non durarono molto. Quando ebbi otto anni lei si risposò con uno che macellava i buoi, e io cominciai a lavorare con lui. Mi ha insegnato a lavorare, mi ha fatto uomo. Appresi a leggere da solo, non sono mai andato a scuola.

- E il tuo padrino era rivoluzionario?

- No, certamente, allora non lo era. Ma adesso sì, e come; mio padre anche, del resto, che non ho conosciuto fino all'età di ventitré anni.

- E tu, perché lo sei diventato, se vivevi abbastanza bene? (A diciassette anni era diventato socio al 50 % con due amici; loro ci avevano messo il loro piccolo capitale, lui le conoscenze pratiche).

- Perché?! Ma perché quando mi mettevo a tavola il brodo non mi andava giù, con tutta quella gente intorno che non aveva niente, neanche per comprare il latte per i bambini. Come si fa a starsene lì a riempirsi lo stomaco, mentre gli altri muoiono di fame? Non mi pareva giusto. Non sapevo niente di comunismo, né di Marx, ma sapevo che c'era qualcosa che non andava, che le cose non dovevano essere così.

- Quando Fidel era nella Sierra, forse anche per lui era così. Sapeva ciò che voleva fare senza sapere di essere marxista, non credi?

- Fidel non ha mai parlato di politica quando eravamo nella Sierra. Mai. Però aveva già letto Marx.

- E tu ancora non l'hai letto.

- Non ho tempo. Quello che conta, adesso, non è la teoria, è la produzione. È questo, il socialismo: produrre. Produrre per tutti. Questa generazione, la mia, quella che ha fatto la rivoluzione, ora deve dare tutte le sue forze alla produzione, in modo che i giovani, i becados[1], possano studiare.

- Non hai paura che quelli, quando avranno studiato, avranno delle idee contrarie alle tue? Tu le cose le hai fatte, invece di studiare, ma loro, dopo avere studiato, potrebbero vedere le cose in modo diverso da come lo vedi tu.

- Sicuro, ma non m'importa. Quel che conta è che avremo il socialismo. Io posso solo farlo come lo intendo io, con spirito pratico, coi fatti, con le mani e con il sudore. Loro chissà, magari faranno cose che non mi piaceranno. Ma questo è il destino. Ogni generazione deve vivere il suo. Io non appartenevo al Partito Comunista prima della rivoluzione - era pur sempre «fare della politica» e questo non m'interessava - e tu sai che dopo la rivoluzione c'è stato un periodo in cui non era mica facile per uno ch'era stato nella Sierra invece che nel Partito Se non fosse stato Fidel ad impormi, c'è stato un periodo Perché credi che la gente segue Fidel? Perché parla bene? Perché sa parlare alle folle? No. Perché fa.

Fajardo ordina un altro daichiri e di nuovo si china verso di me piegando la testa da un lato, e mentre parla scompaiono il tavolo, i daichiri, il lungo bar di legno lucido, la sala discreta con le luci basse:

- Fidel non è uno che dice al popolo «faremo questo e quell'altro». Lo dice, certo, ma dopo lo fa, e il popolo lo sa. E questa è l'unica maniera perché possa funzionare. È inutile fare dei discorsi per dire alla gente: «Bisogna andare a tagliare la canna». È inutile spiegare il perchè, spiegare che con la canna potremo comprare dei frigoriferi. È inutile svegliare la gente alle sei del mattino con l'altoparlante, dicendo «tutti a tagliare la canna»: alle otto, quando è l'ora della radunata, non c'è un gatto. Se non ti vede farlo, il popolo, non lo farà neanche lui. Perché credi che gli uomini abbiano seguito Fidel? Perché nelle battaglie è sempre lui il primo.

Non dico niente, ma forse ho assunto un'aria un po' scettica, perché sto pensando che, per il bene della causa, un buon capo dovrebbe cercare di non farsi uccidere. Fajardo mi inchioda al mio posto, gli occhi che brillano in mezzo ai capelli neri e alla barba nera, come per sfidarmi a pensarla diversamente:

- Chi ha rischiato la vita durante il ciclone? Chi si è gettato nel fiume rischiando la vita, cioè ciò che c'è di più prezioso a Cuba oggi? Queste cose il popolo le vede, sa che cosa vuol dire. Chi va a fare il lavoro volontario nei campi se i capi non ci vanno per primi? Credi che io dica ai miei contadini di Turiguanò che bisogna andare a tagliare la canna? No! Gli dico: «Domani si va a tagliare la canna». Basta. E sono il primo nel campo. Non c'è bisogno di dire altro, solamente «domani si va a tagliare la canna», e che la gente ti veda farlo meglio di tutti. Sai che molta gente dice che anche se non ci fosse stato Fidel, ci sarebbe stato la rivoluzione. Ebbene, quando stavamo nella Sierra, io dicevo, e non ero l'unico, che se veniva a mancare Fidel non avrei più combattuto.

- E oggi?

- Oggi? - mi guarda intensamente - Oggi? Non lo so. Non sarebbe lo stesso. Ma non parliamo di questo, ti prego.


Abbiamo mangiato cose squisite, e Fajardo ad ogni boccone sembrava pensare alle sue bistecche della San Gertrude, nella mensa di Turiguanò, dove può attaccare il sombrero a un chiodo del muro, o mangiare col sombrero in testa e parlare di tori e di silos: argomenti di conversazione che nell'atmosfera del "1830" sarebbero apparsi piuttosto fuori luogo. Quando mi saluta, davanti all'albergo, promette di venire domani per lasciarsi fotografare.



6 gennaio 1964


Dalle otto di stamattina siamo chiusi nell'Habana Libre e teniamo comnia Valerio, Edith, Pic e Willy, che Vallejo ha messo in preallarme per l'intervista a Fidel. Si va da una stanza all'altra, si lasciano messaggi disperati alle telefoniste, si fa colazione sulla terrazza della piscina. Nel tardo pomeriggio faccio trattenere Fajardo da Edith, mentre gli scatto alcune fotografie.

Vien sera. Non c'è altra alternativa che andare a cenare al Polinesio, che una volta si chiamava Trader Vics e che ora fa parte del nostro albergo, per cui ha lo stesso centralino telefonico. È il posto dove si mangia meglio, dopo, nell'ordine, il servizio in camera, la piscina e la caffetteria.

Alcuni residenti fissi all'Avana sono membri onorifici del club "Aspettando Fidel". Tra loro ci sono dei cubani, come lo scrittore Juan Arcocha, e degli stranieri, come il poeta argentino Mario Trejo. Questi ultimi vengono a vivere all'Habana Libre quando non hanno l'acqua calda per farsi la doccia o la barba, oppure per farsi prestare il rasoio quando non hanno lame, o per farsi invitare a cena alla fine del mese.

Ma non è soltanto la natura dei suoi ospiti a fare dell'Habana Libre un hotel diverso dagli altri. C'è per esempio la lotta quotidiana con le telefoniste, dalle voci simpatiche, cui è vietato dare il proprio nome e che quindi per noi sono solo un numero. Spesso per rispondere fanno aspettare anche dieci minuti d'orologio, e quasi sempre dimenticano le commissioni di cui sono state incaricate. Sanno tutto della vita degli ospiti pur senza averli mai visti.

Bisogna poi sapere che gli ascensori non arrivano mai. Ti fanno aspettare per ore in sinistri pianerottoli privi di finestre, dipinti di colori diversi ad ogni piano. Scivolano dietro le pareti senza fermarsi, e segnalano la loro presenza al malcapitato, ormai in preda a una crisi di claustrofobia, con un filo di musica. Quella stessa musica che esce giorno e notte da tutti gli altoparlanti dell'hotel, nella caffetteria, in piscina, nella hall, negli ascensori: incessante, ossessiva

Per star bene all'Habana Libre bisogna sapere inoltre:

  1. che la cameriera, che è responsabile della sua ala, è tenuta a sapere ogni cosa, e può molto;
  2. che i bell boys, che pure sanno molte cose, non debbono fare gran che, ma possono essere di grande aiuto, se solo si ha presente che cosa significa non poter comprare una lametta da barba o una biro;
  3. che le cameriere del servizio in camera danno del "tu" a tutti, e se uno è malato si siedono sul letto per chiacchierare con lui, e gli consigliano le medicine da prendere.

Ma per capire davvero il nostro stato d'animo occorre situare questo mondo sui generis rispetto al resto del mondo, cioè bisogna sforzarsi d'immaginare che cosa significa essere letteralmente isolati dal resto del mondo all'interno di un posto come questo.

La posta arriva dall'Europa di solito in dieci o quindici giorni, ma può anche impiegare un mese, o due, o sei: non si può sapere. I telegrammi per l'Europa arrivano a destinazione, salvo qualche eccezione, ma se si vuole telegrafare a qualcuno che sta per venire a Cuba dal Messico, per chiedere delle calze o del dentifricio, bisogna farlo una settimana prima, perché quasi tutti i giorni il contatto radio con il Messico si interrompe, sicché i telegrammi possono impiegare tre o quattro giorni per arrivare. E dalla radio dipende anche il contatto telefonico con il Messico, il che significa che per parlare bisogna preventivare un paio di giorni, e c'è da considerarsi fortunati se la comunicazione non s'interrompe nel momento cruciale, e ancor di più se si riesce a sentire qualcosa - di solito non si capisce assolutamente niente.

Telefonare in Europa è una vera impresa, per la quale è consigliabile prepararsi psicologicamente - anche se non so bene come - con parecchi giorni d'anticipo. Molti giorni li si trascorre guardando l'orologio, e quando infine, dopo lunga attesa, la comunicazione arriva, la persona che si sa chiamando non c'è più, per cui bisogna aspettare il giorno dopo e ricominciare da capo. Del resto, salvo rare eccezioni, si sente pochissimo.

Ma anche all'interno dell'Habana Libre il telefono funziona male: le linee si sovrappongono, per cui, dopo che si è aspettato un operatore per dieci minuti buoni, ci si trova collegati con il numero sbagliato e si deve ricominciare ad aspettare l'operatore per altri dieci minuti. Questo gioco può durare ore intere.

Certe storie sul telefono ormai sono diventate dei classici. Eccone una. Un giorno il vignettista francese Sinè, di passaggio a Cuba, viene salutato da un giovane nero, nella hall dell'hotel Riviera. L'indomani il giovane lo saluta ancora, al che Sinè, che pur non sa chi sia, ricambia il saluto. Il terzo giorno il giovane gli si avvicina e gli stringe la mano:

- Come sta?

- Io bene, grazie, e Lei?

- Ora bene, grazie.

E il giovane gli racconta la sua storia: un giorno nel suo paese gli avevano detto che era stato invitato a Cuba - era lio di un alto funzionario o di un ministro di uno Stato africano. Arrivato a Cuba, però non aveva trovato nessuno ad aspettarlo all'aeroporto. Allora era andato in un albergo, dove gli avevano dato una camera. Poi erano passati tre o quattro giorni, e il giovane non sapeva che fare: non parlava una parola di snolo e non riusciva a scoprire chi l'avesse invitato a Cuba, né perché. Passava le sue giornate aspettando che qualcuno si accorgesse della sua presenza. Finalmente, quel giorno qualcosa era successo: era squillato il telefono! Qualcuno evidentemente sapeva che era lì. Era felice! Soltanto, non era ancora riuscito a sapere chi fosse al telefono, in quanto non appena aveva sollevato il ricevitore la comunicazione era caduta, e non era più ritornata.

Il senso di questo racconto è che quando si viene a Cuba per una settimana, si finisce per starci un mese, mentre quando si viene per un mese si resta un anno. È una specie di malattia: non si riesce ad andar via. Una delle ragioni più comuni è la mancanza di posti sugli aerei, ma anche le persone che godono di certe priorità, stranamente, non riescono a partire, per la semplice ragione che non riescono a portare a termine quello che erano venuti a fare. E questo è soprattutto il caso di chi ha a che fare con Fidel.



7 gennaio 1964


Stamattina visita ad una scuola di lingue per becados. Fa quello che a Cuba si può chiamare un freddo cane - cioè, ci vorrebbe un cappotto leggero - e le ragazze, all'ingresso, rabbrividiscono in maniche di camicia. Pic deve chiedere il permesso della direttrice per intervistare un paio di ragazze, per il suo film. Mentre aspettiamo, alcune allieve si fermano a parlare.

La prima è una di quelle ragazze di cui non si sa se a colpire di più sia l'aria di salute morale e fisica o la bellezza, e se la seconda sia dovuta alla prima. Ha diciassette anni, non è truccata, i capelli sono corti. Porta l'uniforme delle becadas: gonna grigia a pieghe, camicia grigia con bordo arancione sulla manica corta, calze bianche fino a metà polpaccio, scarpe nere. Non so come facciano queste ragazze a non avere un'aria terribilmente scialba, con queste uniformi, che certo sono comode e non sono neanche sempre le stesse, ma che non appaiono granché femminili. Eppure

La ragazza mentre parla guarda Pic dritto negli occhi, e sorride. È segretaria dell'Unione dei giovani comunisti. Si congeda senza moine. Davanti a noi si ferma poi una ragazza alta, meno bella della prima ma straordinariamente vivace. Studia il russo da un anno. Immediatamente Willy, che ha passato parecchi mesi in Russia e che ha il dono delle lingue, la mette alla prova. Senza battere ciglio la ragazza sostiene la conversazione, esitando appena tra una parola e l'altra, come una persona che viva da sei mesi o da un anno in un paese straniero.



Queste ragazze studiano 25 ore la settimana, di cui 9 ore lingue. Entrano nella scuola a 14 anni, quasi tutte per prepararsi al mestiere di traduttrice. I professori sono tutti stranieri. I paesi socialisti mandano insegnanti specializzati, perciò il livello degli allievi è altissimo. Per le lingue dei paesi capitalisti, invece, si è costretti a improvvisare con stranieri che desiderano lavorare a Cuba e che si offrono di insegnare la loro lingua pur senza essere professori. Il livello dell'insegnamento dell'inglese e del francese, pertanto, è nettamente inferiore a quello ad esempio del russo.



8 gennaio 1964


Gli americani sono furiosi perché gli inglesi hanno venduto 400 autobus a Cuba. «Se gli autobus possono essere considerati come materiale strategico, si può dire, allo stesso modo, che anche i soldati debbono mangiare», replicano gli inglesi, alludendo alla vendita di grano all'Unione Sovietica da parte degli Stati Uniti. Una vignetta pubblicata da "Revolución" mostra un autobus con sul tetto la torretta di un carro armato con un soldato dentro; una fotografia mostra invece un autobus nella fabbrica inglese Leyland, con un sectiunello sul parabrezza: «Cuba No. 1».



9 gennaio 1964


Nella zona del Canale di Panama, alcuni soldati americani hanno rifiutato di alzare la bandiera panamense, come prescritto da un recente accordo tra i due paesi. Per protesta varie centinaia di studenti e cittadini panamensi hanno inscenato una dimostrazione. I soldati americani hanno sparato sulla folla, causando ventun morti e circa trecento feriti[2].



10 gennaio 1964


Siamo stati chiusi in albergo praticamente tutta la settimana, finché stasera è accaduto l'inaspettato: hanno fatto sapere a Pic di rimanere in stanza a partire da mezzanotte. All'una e mezzo è arrivato Fidel, in comnia di Vallejo, e ha annunciato che si dovrebbe rimandare il film fino al quindici febbraio. «Dobbiamo assentarci dall'Avana per qualche giorno», stava dicendo Fidel quando sono entrata nella stanza.

Era seduto come al solito nell'angolo del divano, e parlava di un progetto per creare una Casa della cultura cubana a Parigi. Pare che si intenda riorganizzare anche l'ambasciata: «Prima come diplomatici mandavamo degli intellettuali - non avevamo nient'altro. Ma non è questo che ci vuole. Sugli intellettuali non ho niente in contrario, ma quelli coi piedi in terra. Gente che sa sedersi alla terrazza del Cafè Flore la mattina e ordinare una colazione squisita, ma non sa quanti litri di latte deve dare una vacca, non ci serve. Al Governo costerebbe meno metterlo in una bella casa di camna perché possa creare. Ma nelle ambasciate abbiamo bisogno di gente che capisca i problemi della produzione, che sia capace di trovare le cose di cui abbiamo bisogno, che sappia negoziare, che abbia gli occhi aperti su tutto ciò che può servire alla produzione. Non conosci per caso un esperto di formaggi che possa venire qui? Tra poco produrremo più formaggio della Francia. Lo sai che abbiamo pascoli tutto l'anno? Ti rendi conto della ricchezza?! Sai che tra qualche anno sarà più facile comprare un'automobile che comprare della carne, e che Cuba sarà uno dei più grandi produttori di carne del mondo? Dì, non conosci un esperto in formaggi?»


Poi ha chiesto se c'erano notizie particolari da Panama. E ha commentato, con enfasi:

- Che stupidi! Com'è possibile essere così stupidi?

- Dicono che dietro ci sono i cubani

- urati se hanno bisogno di noi. Noi non dobbiamo fare altro che starcene seduti qui a guardare. Tranquilli, tranquilli.



11 gennaio 1964


Abbiamo le mascelle indolenzite a furia di ridere. Siamo andati a vedere lo spettacolo di varietà di Alfonso Arrau, che ha abbandonato la sua giovane fama in Messico per venire a creare il primo teatro musicale permanente di Cuba. Il Governo gli ha dato un vecchio teatro nel centro dell'Avana, e Arrau lo ha rifatto dal tetto alle fondamenta, tutto di legno scuro e intonaco bianco, in quello stile che s'incontra spesso a Cuba.

Lo spettacolo, al quale partecipano nove ballerini cantanti e un'orchestra di undici elementi, si compone di brevi pezzi di balletto mimo e canto, quasi sempre umoristici, e a farne le spese sono quasi sempre gli americani, i russi o i cinesi. Uno dei pezzi più belli è quello delle ballerine che, sfruttate dagli imperialisti, debbono rinunciare alla loro dignità per rappresentare un balletto in cui seno, sesso e sedere sono coperti solo da pezzi di cartone - che il pubblico dovrebbe prendere per delle piume. Ma c'è sempre una povera ballerina che sbaglia, e nell'affanno di rimediare un cartone cade per terra, poi un altro e da quel momento c'è sempre qualcuna con qualcosa di scoperto.

Poi c'è la ragazza potremmo dire dei Parioli che, con una sciocca risatina, vuol presentare il ballo che «l'amica dell'amica, di ritorno da un fantastico viaggio in Russia, ci ha insegnato domenica pomeriggio». È la maniera cubana, un po' menefreghista e forse un po' fiacca, di ballare i balli russi tipici, e finisce con tutti giù per terra, travolti dall'impeto di un ballerino che si era lanciato attraverso il palcoscenico in un estremo tentativo di rendere giustizia alla frenesia slava.

Poi c'è il mimo del burocrate che, mentre con gli occhi sbircia una bellissima compañera, lascia andare le dita sul calcolatore. Ne esce l'ordine di comprare migliaia di metri di stoffa dalla Cina. L'inviato del commercio estero parte in nave per la Cina, e infine arriva a destinazione; qui gli si presenta un cinese, che comincia a caricare sulla nave tanti immaginari pezzi di stoffa. L'inviato torna in patria, e dopo poco ecco passeggiare per la scena un ragazzo con un berretto di stoffa cinese, una ragazza con una giacca invernale della stessa stoffa, una dama con un parasole anch'esso di stoffa cinese; e poi un pescatore, una donna in abito da sera e così via: tutti indossano la stessa stoffa

Pare che alla prima dello spettacolo, al quale ha assistito il corpo diplomatico, questi pezzi umoristici abbiano ricevuto un'accoglienza gelida. Cuba è probabilmente il primo paese dove si fa il socialismo con humour.


All'uscita di uno spettacolo, la sera, c'è un solo modo per riuscire a ottenere un taxi. Bisogna andare a una piquera pilota, cioè a una stazione di guardia notturna. I taxi infatti non possono fermarsi per strada. Alla stazione c'è un ometto con un foglio di carta e una matita che dirige le operazioni: generalmente è qualcuno del Comitato di difesa della rivoluzione di quell'isolato. Ci deve sempre essere un taxi fermo alla stazione: i passeggeri vi prendono posto raggruppati secondo la loro destinazione, ma il taxi non può partire finché non ne è arrivato un altro a sostituirlo, in modo che ce ne sia sempre uno disponibile in caso di emergenza, ad esempio se c'è da trasportare un ferito, un malato o una donna incinta.

Percorriamo la strada assieme a un ingegnere. La moglie se n'è andata negli Stati Uniti. Ci propina una lunga digressione sui neri: «Va bene quando sono istruiti, ma in generale non lo sono e non vogliono lavorare. Non è così?» E si rivolge all'autista, che è d'accordo. «Del resto lo sa anche Fidel. È per questo che dice sempre alla gente che si deve lavorare! Lui sa bene per chi lo dice, va là. Lo sa molto bene»



domenica 12 gennaio 1964


Oggi non ridiamo più. Siamo andati a fare una gita per le vie alberate del laghetto di Miramar, il quartiere più lussuoso dell'Avana, ora abitato quasi esclusivamenete da becados. Facevamo grande sfoggio della macchina che Fidel ha fatto dare a Pic per facilitare il suo lavoro, una vecchia macchina americana decappottabile, nella quale bene o male riusciamo sempre a entrare in otto o dieci persone.

Dovevamo passare a prendere Carlos Franqui. Quando siamo arrivati davanti a casa sua, in una delle tranquille vie residenziali di Miramar, l'abbiamo visto uscire e venire verso di noi. Si è fermato al bordo del marciapiede, con in faccia un'espressione dolente: «La AP[3] ha appena annunciato che Fidel è arrivato in URSS. Ha fatto credere a tutti che stava per andarsene sulla Sierra. Persino a Korda, che pare sia partito senza vestiti invernali».

Abbiamo passato il resto del pomeriggio in casa di Franqui, guardando attraverso le sbarre di legno delle finestre una pioggia improvvisa e torrenziale cadere sulle foglie di palma nel giardino. Storditi, abbiamo fatto delle ipotesi sulle ragioni di questo viaggio improvviso. Io ero l'unica a sapere che da tempo Nikita aveva invitato Fidel ad andare a caccia di orsi in Siberia, ma gli altri continuavano a scommettere su una certa varietà di motivi di crisi, soprattutto la crisi di Panama. Nel suo cinico, presuntuoso scetticismo da giornalista americano, Lulu le voyo si è spinto fino a dichiarare di non credere alla notizia. Ci ha persino scommesso sopra con Pic, ma non ha mai ato.



13 gennaio 1964


Festa in casa Arrau. Cantano Pacho Alonso ed Elena Burke. Lei è una mulatta piccola, vestita di una gonna di tweed nera e di una giacca di lana verde, come si potrebbe portare in casa la mattina. Non si riesce a capire come mai si abbia sempre voglia di guardarla. Non è bella, ma ha occhi potenti, che fanno capire che non è una persona qualsiasi. Forse non è nemmeno una cantante. I cantanti cubani mi danno sempre l'impressione di dire, invece di cantare, e di non avere ritmo. Anche Elena Burke dice, ma con intelligenza. Alla fine, quando se ne va, un ballerino di Arrau, sdraiato per terra ai suoi piedi, commenta: «È proprio stupenda. Una Fidel donna!» Al che, dal fondo della stanza, una voce femminile commenta: «Avete visto? Siamo senza di lui. Non mi piace quando restiamo senza di lui..



Becado: cioè becario, "borsista". Il termine si riferisce agli studenti più meritevoli, che ricevono una borsa di studio per proseguire gli studi.

Si tratta degli scontri avvenuti il 9 gennaio 1964 per la sovranità di Panama nella zona del Canale. Dopo che diverse centinaia di studenti e cittadini panamensi erano scesi in strada per reclamare il diritto di issare la loro bandiera insieme a quella degli USA, alcuni militari statunitensi sottrassero una bandiera dello Stato centroamericano e la strapparono. La rabbia popolare che ne seguì, cui la polizia locale non riuscì a far fronte, fu repressa dall'esercito americano a colpi di mitra e cannone: in tre giorni di combattimento furono uccisi 21 o 22 panamensi. Negli scontri morirono anche quattro soldati statunitensi. Il controllo del Canale fu trasferito dagli Usa a Panama solo nel 1977, sotto la Presidenza di Jimmy sectiuner. Il 9 gennaio 1964 è oggi Festa nazionale di Panama: il Giorno dei Martiri.

Associated Press, agenzia di stampa.




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