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Giacomo Leopardi

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Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo e da Adelaide dei marchesi Antici. Fu un autodidatta e nella biblioteca del padre si diete ad uno studio 'matto e disperatissimo'; lo sforzo notevole debilitò il suo fisico già minato e a 18 anni fu in pericolo di morte. Il suo primo carme è significativo nel titolo Appressamento della morte. Gli fu allora molto vicino l'amico Pietro Giordani, che lo introdusse negli ambienti culturali.

Momento di svolta nella sua produzione è la conversione letteraria dall'erudizione al bello, cioè il periodo in cui i suoi interessi passano dalla filologia alla poesia. Giacomo intanto si innamorò della cugina Geltrude e poi della lia del proprio cocchiere, Teresa Fattorini, morta giovanissima di tubercolosi e per essa comporrà in seguito la lirica A Silvia.

    Nell'anno della stesura dello Zibaldone avviene la seconda conversione letteraria dal bello al vero, cioè dalla poesia di immaginazione, ricca di immagini fantastiche, a quella sentimentale ispirata alla riflessione sull'infelicità della vita. Il giovane Leopardi diventa sempre più insofferente dell'ambiente di Recanati e di quello familiare, nel quale non trova molta comprensione. E' in questo periodo, in cui il poeta è chiuso in una cupa malinconia, che risalgono le Canzoni e gli Idilli.



Solo a 24 anni riuscì a partire per Roma, lasciando finalmente Recanati, ma la città lo deluse. Conobbe vari letterati ma non riuscì a trovare una sistemazione, per cui fu costretto a ritornare alla sua città natia dove dovette trattenersi per circa due anni fin quando non fu chiamato a Milano dall'editore Stella che lo assunse per tradurre opere classiche. Qui si trattenne poche settimane e subito partì per Bologna dove strinse molte amicizie ed amò la contessa Teresa Carniani Malvezzi.


   Leopardi comincia a ripiegarsi in sé stesso e a meditare sul suo dolore che è in realtà il dolore dell'umanità intera. Numerose meditazioni filosofiche e il fatto che il Leopardi non creda in Dio, lo spingono a scrivere le Operette morali riguardanti i problemi della vita.

Dopo un altro soggiorno a Recanati il poeta si trasferì a Firenze e successivamente a Pisa dove compose A Silvia. La morte del fratello lo costrinse di nuovo a Recanati per poi tornare a Firenze e comporre i Grandi Idilli.


Conobbe un altro amore, Fanny Targioni Tozzetti (per lei scrive cinque poesie che compongono il Ciclo Aspasia), sfortunato come gli altri. Successivamente soggiornò a Roma e poi a Napoli, scrisse il suo testamento spirituale La ginestra e Il tramonto della luna per poi morire nel 1837.


PENSIERO

Possiamo scorgere nella storia spirituale del Leopardi una lucida e continua tendenza alla demolizione delle speranze umane, che il poeta segue, ponendo in risalto inesorabilmente le varie ragioni che rendono infelice la condizione dell'uomo.
La vita gli appare avvolta dal mistero e dal dolore, che è l'unica certezza per l'uomo. Il piacere non esiste se non come pausa momentanea del male e un uscire dalla condizione di pena, mentre la vicenda umana gli appare come un'inutile corsa verso il nulla, e la storia stessa è contrassegnata dal progressivo trionfo dell'infelicità.

La natura, vista da lui in un primo momento (fino al '23) come madre amorosa, gli appare in seguito come matrigna; essa, secondo il poeta, crea l'uomo ma non si preoccupa della sua felicità. L'unico conforto che può alleviare i mali della nostra esistenza è costituito dalle cosiddette ILLUSIONI, alimentate dal mostro sentimento e dalla nostra fantasia. La prima causa dell'infelicità umana è la ragione, che dissolve le illusioni e pone l'uomo di fronte alla realtà. Da questa presa di coscienza derivano la delusione ed il tedio. A queste convinzioni il poeta arrivò gradualmente; esse sono infatti il frutto, oltre che della sua sensibilità, della sua stessa vicenda umana, tormentata da incomprensioni, delusioni, sventure.

Si riscontrano tre momenti nello sviluppo del pensiero leopardiano rappresentati dal pessimismo individuale, storico e cosmico.

Pertanto, a volte (soprattutto nella giovinezza) al poeta sembra che la sorte sia stata matrigna solo con lui, condannandolo all'infelicità nel fisico e nello spirito,alla solitudine ed all'incapacità di vivere come gli altri (mentre agli altri uomini sono concesse le gioie della vita, la giovinezza felice, gli affetti). E' questa la fase del pessimismo individuale.

Altre volte, invece, appaiono in lui quelle riflessioni sulla felicità dei primi uomini che si meravigliavano e gioivano per cose semplici e furono poi resi infelici dal progresso, chiaramente ispirate dalla lettura del Vico e di Rousseau, oltre che da meditazioni personali e negative in rapporto alla storia, nelle cui conquiste il poeta non crede. In ciò consiste il pessimismo storico.

Infine, a volte l'esame della condizione umana induce il poeta a concludere che a tutti è riservato lo stesso destino di dolore. A questa condizione si adeguano in oltre tutti gli elementi del creato (pessimismo cosmico).


Contro queste pessimistiche concezioni insorge il sentimento, esprimendosi per mezzo della poesia, che nel Leopardi appare come una continua rivolta contro le conclusioni della ragione. Essa è dettata dalle più profonde convinzioni ed esigenze del poeta, che è convinto della nobiltà dell'uomo, il quale non merita la sua infelicità, che è qualcosa di ingiusto e di assurdo. E' quindi, la sua, una rivolta che, pur mostrando pessimismo e dolore, non genera a sua volta pessimismo. Come afferma De Sanctis, 'questo uomo odia la vita e te la fa amare, dice che l'amore e la virtù sono illusioni, e te ne accende nell'anima un desiderio vivissimo'.

Leopardi, infatti, celebra la giovinezza e la bellezza della natura e della vita, anche se con lo stato d'animo doloroso di colui che da tutto ciò si sente escluso. Il suo, comunque, è un pessimismo eroico e mai rassegnato. Egli reagisce perché ha in sé un'ansia religiosa che nessuna logica può distruggere e perché possiede una costante fiducia nella dignità umana. La sua energia si esprime nelle sue stesse parole 'e di più vi dico francamente che io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il collo al destino o vengo seco a patti come fanno gli altri uomini'

La sua opera si traduce perciò anche in un'esortazione a non cedere al fato, ad opporre all'universo assurdo l'intatta nobiltà dello spirito. Egli non tradusse però questa energia morale in azione, come il Foscolo, ma la realizzò nel continuo approfondimento del suo pensiero.


OPERE

Lo Zibaldone: una sorta di diario intellettuale a cui affida appunti, riflessioni filosofiche, letterarie, linguistiche. Teoria della visione: è piacevole, per le idee vaghe e indefinite, la vista impedita da un ostacolo, un albero, una siepe, perché allora in luogo della vista lavora l'immaginazione e il fantastico prende il posto del reale. Teoria del suono: serie di suoni suggestivi perché vaghi.

Le Canzoni: componimenti di impianto classicistico che impiegano il linguaggio aulico e sublime; le prime cinque (All'Italia, Ad Angelo Mai, A un vincitore nel pallone, Nelle nozze della sorella Paolina, Sopra il monumento di Dante) affrontano una tematica civile; nelle altre si delinea l'idea di un'umanità infelice.

Gli Idilli: il linguaggio è più colloquiale e trattano tematiche intime ed autobiografiche; la rappresentazione della realtà esterna è tutta soggettiva (L'Infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria).

Le Operette Morali: sono prose di argomento filosofico in cui Leopardi espone il sistema da lui trattato attraverso una serie di invenzioni fantastiche, miti, paradossi, veri e propri canti lirici in prosa; molte delle operette sono dialoghi i cui interlocutori sono creature immaginose o personaggi storici; altre invece hanno forma narrativa (Dialogo della natura e di un Islandese).

I Grandi Idilli: riprendono i temi degli Idilli, ovvero le illusioni e le speranze, proprie della giovinezza, le rimembranze; vi è un equilibrio tra due spinte che dovrebbero essere contrastanti il "caro immaginar" e il "vero"; il linguaggio è tenero e dolce (A Silvia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Passero solitario).

Il Ciclo di Aspasia: si ha una poesia nuda, severa, quasi priva di immagini sensibili, fatta di puro pensiero dal linguaggio aspro e dalla sintassi complessa (Il pensiero dominante, A se stesso, Aspasia, Amore e Morte, Consalvo).

Gli Ultimi Canti: opere satiriche e la Ginestra.


ANALISI DEL TESTO DI ' A SE STESSO '

       Or poserai per sempre,
        stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,

ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,

in noi di cari inganni,

5    non che la speme, il desiderio è spento.

 Posa per sempre. Assai

 palpitasti. Non val cosa nessuna

 i moti tuoi, né di sospiri è degna
    la terra. Amaro e noia        

    10  la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
  T'acqueta omai. Dispera
  l'ultima volta. Al gener nostro il fato
  non donò che il morire. Omai disprezza
       te, la natura, il brutto   

15   poter che, ascoso, a comun danno impera,
  e l'infinita vanità del tutto. 


METRO: endecasillabi e settenari, con rime liberamente ricorrenti.


Il componimento chiude il ciclo dei canti di Aspasia. ½ si afferma la ssa dell'"inganno estremo", l'amore, segnando così il distacco dalla fase giovanile dell'illusione; persino il desiderio di "cari inganni" è spento. Leopardi esprime il disprezzo sia verso quel se stesso che ha ceduto ai 'cari inganni', sia verso la natura e la forza malefica del fato che domina l'universo avendo come fine il male.


Si possono distinguere 3 membri di cinque versi ciascuno (vv. 1-5, 6-l0, 11-l5): un settenario; due endecasillabi, un settenario e un endecasillabo di chiusura.


Il v. 16, quello finale, è fuori del disegno conferendo singolare potenza all'interiorità della formula.


Ognuno dei membri è aperto dalla ripetizione, quasi ossessiva, dello stesso motivo: "Or poserai per sempre", "Posa per sempre", "T'acqueta ormai".


L'andamento è spezzato, interrotto da continue pause: vv. 6-7, 7-8, 8-9, 9-l0, 11-l2, 13-l5 (enjambements).


LESSICO: spoglio, con aggettivi rari (spiccano "estremo" / "eterno" in opposizione per il significato e "brutto" e "ascoso" che caratterizzano il malvagio potere che domina il mondo); il discorso consta essenzialmente di verbi e sostantivi ricchi di espressività ("terra", "mondo", "natura", "noia", "vita", "morire", "fato", "potere", "vanità"), ognuno dei quali concentra il pensiero su di sé essendo collocati all'inizio o ala fine del verso.



Schopenhauer, come Leopardi, basa il proprio pensiero su un'analisi della realtà. L'intento è di mostrarci quale sia la vera natura del mondo e il conseguente disagio dell'umanità; entrambi, infatti, oltrepassano i limiti del mondo terreno ed esprimono la loro idea sul vero significato della vita mostrando la realtà per quella che è, e smascherando la più grande delle illusioni: la felicità.





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