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LA POLITICITÀ DELLA TRAGEDIA EURIPIDEA
E' convincimento ormai diffusissimo
nell'ambito della critica letteraria che la tragedia abbia una sua
'politicità', sia uno specchio meravigliosamente levigato
della realtà politica e sociale del suo tempo, che alluda a personaggi o
a situazioni reali, che testimoni la dimensione politica degli autori greci.
Sembra infatti impensabile che la vera arte tragica sia rinchiusa nel limbo di
una incomprensibile metastoricizzazione; soprattutto
se si considera quale fosse il modo di conduzione della povliß
greca.
Il substrato su cui poggiava la consistenza di questa era il cittadino
'politico', ossia direttamente coinvolto nella gestione della poli. Anche la
filosofia del V secolo a. C. proponeva, col passaggio
dal pensiero naturalistico a quello antropocentrico, la legittimazione
speculativa della centralità del polivthß. Si
pensi al retroterra filosofico costituito dal pensiero di Protagora,
il più grande dei sofisti, il quale, nel più celebre dei suoi
frammenti afferma: 'L'uomo è misura di tutte le cose: di quelle che
sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono':
così cominciava la sua opera Sulla Verità. E dunque il concetto
di verità viene relativizzato al concetto di uomo, alla sua
soggettività di giudizio, alle sue impressioni sensoriali che rendono
vano ogni tentativo di stabilire una verità assoluta ed oggettiva.
Tutte le opinioni dunque sono vere, nella misura in cui vi è
corrispondenza fra soggetto senziente e cosa sentita: non importa la
verità di ciò che si dice, ma conta il 'modo', la
'forma', il fascino della sottigliezza verbale che da solo genera
quella persuasione, fine ultimo della retorica di cui i sofisti furono i
più grandi maestri. Così abbandonata la dinamica fra vero e
falso, le opinioni si distinguono per Protagora in
'utili' e 'dannose' per la povliß.
Il solo intento pragmatistico e realpolitico del
filosofo dovrebbe bastare a scoraggiare gli epigoni della critica idealistica
ed estetizzante, convinti dell'inconsistenza, nella letteratura greca e
classica dell'hic et nunc.
Risulta quasi superfluo aggiungere che un personaggio estremamente impegnato in
politica come Sofocle, non avrebbe avuto grandi stimoli a scavare metastoricamente negli abissi dell'anima, né Eschilo si
sarebbe astrattamente interessato a temi di natura etico-teologica.
Sono essenzialmente poeti engagés, impegnati ad
educare il proprio pubblico ideale che, in quel contesto come in nessun altro,
coincide con quello reale, inoltrandosi nelle variegatissime sfaccettature
della mitologia, fornendo fra le righe una propria weltanschaung che il polith assai raramente
si lascia sfuggire. E' lontanissimo l'attuale pubblico delle platee teatrali da
quello greco, capace di cogliere le allusioni ed intendere i sottintesi. La
critica del Novecento ha lavorato molto nell'interpretazione di Eschilo,
passando dalla definizione di democratico fervente a quella di irriducibile
conservatore. Se queste argomentazioni non dovessero essere sufficienti a
dissuadere dalla tesi dell'apoliticità, si potrà compiere un
rapido viaggio attraverso l'autore più vicino ai nostri tempi ed alla
nostra generazione: Euripide. Le tragedie dei tre poeti hanno tutte un
carattere che si può definire schematicamente cultuale e statale, perché
le si rappresentava durante le feste di Dioniso, le Grandi Dionisiache (al
centro vi era infatti la qumelh, cioè l'altare in onore al dio) e perché era lo Stato che
bandiva il concorso, nominava una commissione che leggeva i testi tragici
pervenuti e sceglieva quelli che riteneva migliori, affidandone la corhgia ai cittadini
più ricchi che ne sopportavano interamente la spesa. E le tragedie
possono essere tutte racchiuse nella famosa definizione aristotelica, come
'mimhsi di fatti compiuti e seri (spoudaiwn kaiv teleiwn), che attraverso il terrore
e la paura (fobo kai; ejleo) porta alla kaqarsi dalle passioni'. Il protagonista del dramma ideale di Aristotele
(che era l'Edipo re in cui peripeteia
kai ajagnwsi, ovvero peripezie e riconoscimento coincidono
perfettamente) doveva essere un uomo 'medio', non un uomo felice e
buono che diventava infelice per colpa sua, ma uno che per ajmartia (errore,
sbaglio) cadeva nella disgrazia. Euripide, a differenza di Eschilo, non ha
verità assolute da proporre, sia per l'influenza del relativismo
sofistico di cui sopra, sia per la situazione di crisi che sta vivendo Atene
dopo la morte di Pericle. Se Eschilo è 'poeta-vate' che invita
la collettività ad un momento di kaqarsi religiosa, Euripide è
l'intellettuale che propone una kaqarsi individuale e privata costruita con la riflessione razionale sulla
realtà; si conura così il primo intellettuale ai margini
dell'attività politica che si concentra quasi esclusivamente su un
impegno che potremmo definire filosofico. Un erudito grammatico del V secolo d.
C. dice che 'Euripide si volse alla tragedia dopo aver visto i pericoli
affrontati da Anassagora per le dottrine che aveva
divulgate'. Risulta dunque chiaro che la tragedia per Euripide, non
è modello di vita come per Eschilo, ma è mezzo per esercitare
l'intellettuale attraverso l'uso del mito che permette, tramite la finzione
metaforica della letteratura, di criticare o addirittura contestare la
situazione storica della poli.
Da queste considerazioni si dovrebbe giungere a comprendere la
problematicità delle trattazioni mitologiche del poeta, spesso
sottoposte a tradimenti contenutistici. Un esempio per tutti il mito di Elena,
approfondito in Euripide in tutte le possibili letture, in un raffinato gioco
da poeta conscio sì della tradizione letteraria, ma anche della concreta
realtà politica, storica e sociale che lo circonda. Il denominatore
comune dei vari ruoli di Elena è la relativa normalità del
personaggio (proprio come lo voleva Aristotele) che la rende più
credibile e più umana degli eroi e dei semidei di Eschilo. Quando nell'Ecuba di Euripide, ai versi 441-443 e poi 943-952, fa
maledire Elena prima dalla vecchia Ecuba stessa e poi
dal coro ('Ilio felice fu rovinata dai suoi begli occhi' e
'sposa, non sposa, calamità e genio vendicatore'), evidenzia
la negatività totale dell'azione umana della guerra, col suo strazio,
con l'assurdità delle sue tantissime morti, col dolore delle donne; ma
richiama altresì gli Ateniesi a riflettere sul conflitto in atto, la
guerra con Sparta.
Nel 472, ovvero meno di cinquant'anni prima dei Persiani, Eschilo aveva parlato
della guerra come strumento punitivo nelle mani degli dei, che assegnano la
sconfitta come castigo a quel popolo che si sia macchiato di ubris.
Euripide non riesce a trovare nella religione quei punti di riferimento e
quelle certezze che invece emergono chiaramente in Eschilo: in Euripide il mito
si fa storia vissuta, quotidiana, si veste della realtà e si sovrappone
al presente.
Nelle Supplici, come già nell'Ecuba,
continuano le allusioni critiche ai gruppi democratici, ma in più nelle
Supplici si riscontra una costante rivisitazione dell'età periclea, che viene implicitamente contrapposta alla
situazione storico-politica contemporanea, che il
poeta dimostra così apertamente di disapprovare. Però dire che
Euripide intendeva affrontare ed analizzare singoli fatti politici del suo
tempo, sarebbe quanto meno riduttivo: al poeta interessa piuttosto portare
avanti, certo dietro lo stimolo della contemporaneità, un discorso molto
più ampio. Infatti non avendo maturato mai posizioni politiche definite
da proporre al pubblico, intendeva guidare le menti degli spettatori ad altre
conclusioni: all'abbattimento della tradizionale barriera fra Greci e Barbari
(e non si può a tale proposito non menzionare la Medea), vincitori e
vinti; alla ricerca di una nuova poetica il cui centro è costituito
dallo sfogo del dolore e la cui direzione è quella della poesia
'bella' e raffinata. Tale tendenza trova la sua massima esplicazione
nell'ultima fase della produzione drammatica di Euripide, il cui punto nodale
è costituito sicuramente dalle Troiane: la struttura sintattica
dell'opera è congegnata in maniera tale da non lasciare pause al ritmo,
la continua sostituzione di immagini che si succedono senza tregua. Il contesto
storico delle Troiane, che vede sullo sfondo la dissennata spedizione in
Sicilia di Alcibiade e le sue relative conseguenze, costituisce il motivo che
spinge il poeta ad invitare il suo pubblico ad una riflessione critica sulla
guerra: dobbiamo così interpretare la ricerca del 'bello' come
espressione della sfiducia del poeta che il messaggio potesse essere colto dai
cittadini. Il personaggio non ha nulla di nuovo da dire, nessun sentimento da
esternare, è ricostruito sull'evocazione di ure preziosamente create
o, in alcuni casi, sul preziosismo espressivo. Però, il fatto che vi
siano molti pezzi lirici caratterizzati fortemente dalla costante ricerca del
'bello', non esclude tuttavia che la tragedia sia ricco di paqo e teorizzi sul
pianto come fonte di poesia. Poesia di evasione ed esasperazione del paqo, in senso
elegiaco, sono due aspetti complementari della stessa realtà, ovvero del
tragico destino di Ilio.
La serie spesso incalzante di subordinate e di quadri non strettamente
collegati, è diretta conseguenza della scelta euripidea
di protrarre fino all'estenuazione le immagini che evocano un passato
lontanissimo dal suo tempo.
Questa nuova arte ha il suo input nella ricerca del piacere; certo, anche la
poetica della Medea sicuramente piaceva ai contemporanei, ma non ha nulla a che
vedere con questa nuova ricerca del piacere 'immediato' che si
realizza attraverso l'immagine singola o addirittura il singolo verso, che non
doveva essere direttamente in relazione con l'intero complesso dell'opera, che
non doveva avere bisogno di alcun prerequisito conoscitivo. Per Euripide questo
nuovo stile si collega strettamente al recupero della poetica omerica del
'dilettare'. E Paltone a proposito delle
nuove mode che stavano investendo i versi di fine V secolo a.C. constatava con
riprovazione che i poeti, nell'ambito dei vari generi, si lasciavano prendere
più del necessario dal 'piacere'. Infatti la nuova tendenza si
riflette negli ultimi decenni del secolo, anche nella pittura vascolare e nella
scultura che non si dedicano più come prima alla ricerca del paqo e alla mediazione
dell'intelletto. Tutto ciò pone l'accento su una situazione che vale la
pena di approfondire. Rimane come un momento assiale il fatto che il culto
dell'espressione raffinata sia il risultato dell'esperienza personale di vita
dell'intellettuale, sicuramente anche in relazione alle vicende storico
politiche a lui contemporanee: la poetica del canto che si imbeve del dolore
umano e la poetica di evasione verso il 'bello' appaiono così
come le facce di una stessa medaglia in stretto rapporto con la progressiva
perdita di contatto di Euripide con la realtà che lo circonda. Ma
quest'espansione del fenomeno a tutti gli spigoli del poligono della
creatività artistica e quello che appariva come frutto dell'evoluzione
personalissima del singolo risulta essere patrimonio comune di fine secolo.
Si potrebbe mai spiegare quest'antinomia se non si mettessero in rapporto
l'èlite intellettuale con quella politica? Rapporto questo ineludibile, in ogni tempo ed in ogni luogo, ancor
più nella poli. Già, la poli: ha più lo smalto di qualche decennio
prima o forse sarebbe il caso di dire, realisticamente, che sta cominciando a
scricchiolare sulle teste dei cittadini? C'è l'orrore della guerra, il
desiderio di pace, la consapevolezza di un'inarrestabile crisi istituzionale,
sentimenti tutti provati certo non dal solo Euripide. Proprio attraverso la
gravissima crisi che segue la guerra del Peloponneso, ci si avvia nell'Ellade ad un nuovo equilibrio politico, in cui il culto del
'bello' e la totale dissociazione dell'uomo di cultura dal background
storico, è la norma imprescindibile, non l'eccezione. Sarebbe stata poi
questa la costante caratteristica del periodo ellenistico; perciò i
critici hanno voluto definire una certa parte della lirica euripidea
col termine alessandrino: Euripide come tramite del passaggio dall'età
classica a quella ellenistica.
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